E’ possibile chiedere al proprio datore di lavoro un’aspettativa per provare un nuovo lavoro?

Mi viene richiesto se sia possibile chiedere al proprio datore di lavoro un’aspettativa al fine di provare un nuovo rapporto di lavoro.

La risposta è negativa. Né la legge, né la contrattazione collettiva prevedono simili ipotesi di aspettativa.

In linea di massima non è possibile l’esistenza di un rapporto sospeso per aspettativa accanto ad uno in essere.

L’unica eccezione è data dalla possibilità di far coesistere due rapporti di lavoro a tempo parziale che non comportino per il dipendente la violazione delle regole sulla concorrenza.

Chiaramente per instaurare il cumulo di questi rapporti è necessario che il primo datore di lavoro, cioè quello temporalmente precedente, accetti l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo parziale.

La legge 53/2000 all’articolo5 prevede in ogni caso la possibilità di richiedere dopo cinque anni di anzianità un’aspettativa per la formazione o per il conseguimento di un titolo di studio della durata massima di undici mesi.

Ciò vale per qualunque tipo di formazione che non sia quella già organizzata dal datore di lavoro.

A questo punto, nulla vieterebbe che il lavoratore avviasse presso il futuro datore di lavoro uno stage formativo da svolgere durante l’aspettativa.

E’ anche possibile per il lavoratore in aspettativa instaurare durante l’aspettativa ed in coerenza con le motivazioni della stessa, instaurare un rapporto di consulenza o autonomo con terzi.

In ogni caso, la concessione dell’aspettativa è affidata alla discrezionalità motivata del datore di lavoro non prevede né retribuzione né accredito di contributi.

Fabio Petracci

 

 

 

Cassazione Sezione Lavoro 28.5.2021 n.14993. Pubblico impiego – dimissioni – accettazione da parte della pubblica amministrazione – non necessità. Convalida ex legge 92/2012 – inapplicabilità.

Le dimissioni del pubblico dipendente.

 

La Suprema Corte è investita del caso di un pubblico dipendente che rassegnate le dimissioni con semplice nota scritta,  ne chiede l’annullamento.

Ritiene come nell’ambito della Pubblica Amministrazione contrattualizzata con il DLGS n.29/1993, sia ormai inapplicabile la normativa che prevedeva l’accettazione delle dimissioni da parte dell’amministrazione medesima.

Così afferma testualmente in proposito la sentenza della Cassazione citata in epigrafe:

Questa Corte ha da tempo affermato che, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29 del 1993, essendo il cd. rapporto di pubblico impiego privatizzato regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonchè dalle norme sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili, le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui vengano a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle, sicchè non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione (cfr. in tal senso Cass. 5 marzo 2009, n. 57; Cass. 5 marzo 2013, n. 5413).

3.2. Il principio è stato ribadito anche da Cass. 21 novembre 2018, n. 30126 che, proprio per l’affermata necessità di accertare esclusivamente l’intento risolutorio del soggetto che ha posto in essere il negozio, ha affermato che deve essere particolarmente rigorosa l’indagine diretta ad accertare che, da parte del lavoratore, sia stata effettivamente manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto (nella specie, non risulta che l’atto di dimissioni de quo sia stato impugnato per essere frutto di un presupposto erroneo convincimento).

3.3. E’ stato, altresì, affermato (v. Cass. 10 febbraio 2009, n. 3267) che, proprio in ragione dell’effetto immediato di tali dimissioni, la successiva revoca è inidonea ad eliminare l’effetto risolutivo già prodottosi, restando peraltro salva la possibilità, per le parti, in applicazione del principio generale di libertà negoziale, di porre nel nulla le dimissioni con la conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso, e con l’onere, in tal caso, di fornire la dimostrazione del raggiungimento del contrario accordo, a carico del lavoratore (nel caso in esame, una tale evenienza non è stata giammai prospettata).

Non è neppure applicabile l’articolo 1, comma 7 (legge Fornero) che stabilisce i requisiti per rassegnare valide dimissioni, norma che la Cassazione ritiene inapplicabile al pubblico impiego, nell’attesa delle necessarie norme di raccordo.

Così testualmente afferma la Corte in motivazione:

  1. Tanto precisato in termini generali, va verificato se deroghe siano state introdotte dalla normativa successiva.

4.1. Va, al riguardo, osservato che, ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 7, le disposizioni normative di cui alla medesima legge costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1, comma 2, e succ. mod., ferme restando le deroghe contemplate per il personale appartenente agli ordinamenti di cui all’art. 3 del medesimo D.Lgs..

A sua volta, il successivo comma 8 prevede espressamente che, al fine dell’applicazione del comma 7, il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.

4.2. Questa Corte, con la sentenza Cass. 9 giugno 2016, n. 11868, che peraltro ha preso in esame, disattendendola, la precedente Cass. 26 novembre 2015, n. 24157 richiamata dalla ricorrente, ha affermato che sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto della L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 7 e 8, sia stata formulata in termini diversi rispetto ad altre disposizioni, con le quali è stata esclusa l’automatica estensione all’impiego pubblico contrattualizzato di norme dettate per l’impiego privato (si pensi, ad esempio, al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2), tuttavia a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8, non dissimile da quello previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 8, che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato. La circostanza che il comma 7 faccia salve le disposizioni della L. n. 92 del 2012 che dispongano in senso diverso, si giustifica considerando che la stessa legge contiene anche norme che si riferiscono espressamente all’impiego pubblico (si pensi, ad esempio, all’art. 2, comma 2, che esclude dall’ambito della operatività dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicchè la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all’impiego pubblico sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore del 2012. Così è stato affermato che le modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012 alla L. n. 300 del 1970, art. 18 non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato (sicchè la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata L. n. 92, resta quella prevista dall’art. 18 St. lav. nel testo antecedente la riforma).

4.4. In ragione dei suddetti principi (ribaditi anche da Cass. 6 ottobre 2017, n. 23424, conforme alla citata Cass. n. 11868/2016) è stato ritenuto che, per l’applicabilità all’impiego pubblico contrattualizzato della disciplina concernente la procedura di convalida delle dimissioni, di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 4, commi 16 – 22, occorre l’adozione di appositi provvedimenti attuativi per l’armonizzazione del lavoro privato con il lavoro nelle pubbliche amministrazioni (v. sul punto Cass. 9 agosto 2019, n. 21297). Ciò in quanto anche che la suddetta disciplina della convalida delle dimissioni è modulata sulle dinamiche del lavoro privato, in relazione all’esigenza di garantire che le dimissioni siano frutto di autonoma determinazione del lavoratore soprattutto nei periodi in cui lo stesso non può essere licenziato, piuttosto che su quelle del lavoro pubblico contrattualizzato. Ed infatti, la L. n. 92 del 2012, art. 4, commi da 16 a 22, al fine di garantire la corrispondenza tra la dichiarazione di volontà del lavoratore e l’intento risolutorio (in particolare nel caso in cui le dimissioni intervengano durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, o, in caso di adozione internazionale) rafforza il regime della convalida, che diviene condizione sospensiva della risoluzione del rapporto di lavoro stesso.”

 

Fabio Petracci.