Pubblico Impiego – Sanzioni Disciplinari. Ufficio Procedimenti disciplinari.

Cassazione n.13911/2021

Il titolare può delegare ad altri dipendenti addetti alla struttura amministrativa dell’ufficio l’attività di istruttoria disciplinare, in quanto le competenze del titolare l’UPD restano circoscritte alle attività valutative r deliberative.

Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n.13911/2021.

La Corte ha affermato che le norme sulla competenza non vanno confuse con le regole del procedimento per cui, ove risulti che quest’ultimo sia stato, comunque, gestito dal soggetto cui è attribuito il potere disciplinare, non ogni difformità rispetto alla previsione normativa, produce la nullità della sanzione, la quale è invece configurabile solo qualora l’interferenza di organi esterni all’UPD abbia determinato in senso decisivo e sostitutivo la compartecipazione di soggetto estraneo all’ufficio con conseguente ed inammissibile sostanziale trasferimento della competenza ad un diverso organo non competente ( Cassazione 11632/2016).

Va anche notato come gli atti del procedimento disciplinare siano ormai espressione di un potere privatistico del datore di lavoro (Cassazione 14200/2018) non avendo gli stessi natura amministrativa e non operando quindi i principi che in relazione agli atti autoritativi limitano la delega di funzioni.

L’istituzione dell’Ufficio per i Procedimenti disciplinari è sancita dall’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 con il DLGS 75/2017 (Decreto Madia) la competenza dell’ufficio e quindi la sua necessaria partecipazione al procedimento disciplinare è stata estesa a tutte le procedure disciplinari ad eccezione di quelle dove è prevista la sanzione del rimprovero verbale.

Il comma 2 del DLGS 165/2001 prevede che ciascuna amministrazione nell’ambito della propria organizzazione è tenuta ad individuare l’ufficio per i procedimenti disciplinari per le infrazioni punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale, attribuendone apposita titolarità e responsabilità.

Di fronte alle evidenti difficoltà per i piccoli enti soprattutto locali, la legge articolo 55 bis comma 3 prevede che le amministrazioni, previa convenzione, possono prevedere la gestione unificata delle funzioni dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, senza maggiori oneri per la finanza pubblica.

La recente sentenza della Corte di Cassazione trova avvallo anche in precedente pronuncia della Corte stessa (Cassazione n.14200/2018).

Quest’ultima stabilisce che Nel pubblico impiego contrattualizzato, il titolare dell’ufficio dei procedimenti disciplinari può delegare a dipendenti esterni allo stesso il compimento di atti istruttori, facendone propri i risultati, purché detti atti non abbiano contenuto valutativo o decisorio ed il soggetto delegato offra garanzia di terzietà ed imparzialità, non essendo gli stessi soggetti ai limiti della delega di funzioni in quanto espressione del potere privatistico del datore di lavoro e non di quello pubblicistico.

Sempre in tema di Ufficio per i Procedimenti Disciplinari, Cassazione 9.1.2019 n.271 ha ritenuto come non sia necessaria la costituzione ex novo ed in maniera espressa di un ufficio destinato ai procedimenti disciplinari, essendo sufficiente che all’organo che ha inflitto la sanzione siano stati ufficialmente riconosciuti i relativi poteri e che esso garantisca idonea terzietà.

Nel caso di identificazione dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari con la figura del direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate è stata ritenuta garantire, stante la posizione di vertice di tale organo, il sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale era addetto il dipendente e dunque la terzietà dell’ufficio disciplinare (Cassazione n.20417/2019).

Chiarisce molti punti ed indirizzi Cassazione n.1753/2017 la quale afferma che in tema di pubblico impiego contrattualizzato, il principio di terzietà dell’ufficio dei procedimenti disciplinari ne postula la distinzione sul piano organizzativo con la struttura nella quale opera il dipendente, e non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo, rispetto al lavoratore ed alla P.A., potrebbe assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto. Ne consegue che qualora il suddetto ufficio abbia composizione collegiale, e sia distinto dalla struttura nella quale opera il dipendente sottoposto a procedimento, la terzietà dell’organo non viene meno solo perché sia composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione disciplinare.

Fabio Petracci.

CONVEGNO – Il procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico e privato.

Pubblichiamo il video Youtube del convegno “Il procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico e privato” organizzato dall’Ordine degli avvocati di Roma e tenutosi in diretta streaming il 25 maggio 2021 contenente l’intervento dell’avv. Petracci “La difesa ed il contraddittorio nel procedimento disciplinare” che ha inizio al minuto 1.14.13

Il contraddittorio nel procedimento disciplinare del lavoro pubblico e privato e la sua rilevanza nella fase processuale

  1. Considerazioni generali – Due diversi procedimenti disciplinari.

 

Nel trattare il tema è sicuramente utile premettere un breve esame della struttura del procedimento disciplinare nel lavoro privato e nel lavoro pubblico contrattualizzato.

 

  1. Nel lavoro alle dipendenze dei privati.

 

Nel lavoro alle dipendenze dei privati datori di lavoro, la procedura disciplinare era introdotta con lo statuto dei lavoratori che con l’articolo 7 inserito nel titolo I della libertà e della dignità del lavoratore, introduce , quella che è stata una rilevante innovazione per l’epoca, quale il diritto del lavoratore a conoscere le condotte destinate a dar luogo alla sanzione disciplinare e ad avere tempestiva contezza delle mancanze che gli venivano addebitate al fine di potersi adeguatamente difendere.

Nella sostanza un bilanciamento innovativo tra il potere imprenditoriale e la libertà e dignità del lavoratore.

In concreto, la semplice realizzazione dell’articolo 41 della carta costituzionale che vuole armonizzare la libertà organizzativa dell’impresa con la dignità umana.

 

  1. Nel lavoro contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Diversa invece la genesi e l’impostazione del sistema disciplinare nel lavoro pubblico contrattualizzato.

In tale ambito, diamo per scontato quanto posto dallo statuto dei lavoratori, ma è contestualmente considerata l’innovativa natura contrattuale del rapporto di lavoro, accanto alla quale come elemento di specialità, si vuole introdurre un impianto disciplinare funzionale ai principi di buon andamento della pubblica amministrazione contenuti nell’articolo 97 della carta costituzionale.

Quindi, in quest’ultimo caso, la tutela del lavoratore deve bilanciarsi con questo principio costituzionale, dove il buon andamento si coniuga oltre che con l’interesse della pubblica amministrazione che dovrebbe riflettere quello della comunità, anche con il principio di imparzialità contenuto nello stesso articolo 97.

La sintesi è data dall’impianto normativo contenuto nel testo unico del pubblico impiego agli articoli da 55 a 55 sexies.

Trattasi di un corpo di norme inderogabili improntate a principi di officialità, dove l’avvio dell’azione disciplinare è obbligatoria, a scanso di responsabilità del dirigente, dove sussiste l’obbligo dei dipendenti a collaborarvi.

Sussiste in tale ambito un principio di terzietà che tocca l’intera fase di applicazione della sanzione affidata ad apposito ufficio dei procedimenti disciplinari.

La fase segnalazione contestazione, difesa e decisione è scandita da termini definiti e precisi laddove il termine massimo per la segnalazione ed il termine finale per la conclusione del procedimento non possono essere superati a pena di nullità dell’intero procedimento.

Tornando all’esame della fase procedimentale e delle tutele difensive, le differenze delle impostazioni qui rilevate assisteranno le considerazioni che saranno di seguito svolte.

Notiamo in ogni caso che al rigore ed all’ufficialità della normativa corrispondono maggiori garanzie difensive per gli incolpati, come se in qualche modo, anche impropriamente, il procedimento disciplinare pubblico venisse ad avvicinarsi al processo penale.

Di seguito esamineremo le varie fasi dei procedimenti disciplinari rilevando le opportunità ed i limiti del contraddittorio nell’ambito del processo disciplinare.

 

  1. Fase delle indagini.

 

Con la sentenza n.16598 del 20.6.2019, la Corte di Cassazione ritiene legittime le indagini preliminari del datore di lavoro volte ad acquisire le prove del ritenuto illecito.

Di fronte alle obiezioni relative allo svolgimento delle indagini, inaudita altera parte, la corte ha ritenuto che il rispetto della regola del contraddittorio interessa solo la parte del procedimento disciplinare successiva alla contestazione.

Il principio è applicabile anche al procedimento disciplinare nell’ambito del pubblico impiego.

 

  1. La contestazione.

 

E’ questa la fase che consente l’avvio della procedura disciplinare e che pertanto deve consentire l’esercizio del diritto di difesa.

Quindi, la contestazione deve essere:

 

 

La reazione all’illecito posto in essere dal dipendente deve essere tempestiva a dimostrare l’interesse del datore di lavoro ed anche al fine di garantire all’incolpato una pronta e precisa ricostruzione dei fatti.

Nel rapporto di lavoro privatistico l’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori non stabilisce dei termini rigidi e quindi sarà il giudicante a valutare la tempestività.

La Cassazione con una recente pronuncia n.12193 del 22.6.2020, ha ritenuto come nel valutare l’immediatezza della contestazione, occorra tenere conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro ad assumere sufficienti elementi a sostenere la contestazione e del lavoratore a difendersi su fatti recenti che egli sia in grado di trattare a livello difensivo.

Nel caso di specie, era ritenuta tardiva una contestazione effettuata all’esito di un procedimento penale conclusosi a lunga distanza dai fatti addebitati.

Nel procedimento disciplinare di cui al testo unico del pubblico impiego, è stabilito un termine di 10 giorni dalla conoscenza del fatto per la segnalazione all’ufficio incaricato dei procedimenti disciplinari, mentre quest’ultimo ha a disposizione un termine di 20 giorni per procedere alla contestazione.

 

 

  1. Specificità.

 

Al fine di consentire adeguata difesa, la contestazione deve contenere una dettagliata descrizione del fatto contestato al lavoratore, del luogo e del tempo in cui la condotta si è realizzata, oltre ad una precisa descrizione della stessa. Non sono imposti schemi rigidi e prestabiliti nella lettera di contestazione. Quest’ultima deve inoltre contenere l’invito a rendere le proprie giustificazioni nei termini di legge. Sul punto vedasi Cassazione 15 maggio 2014 n.10662.

 

  1. Immutabilità.

 

Una volta contestati dei fatti, sugli stessi sarà impostata tutta la procedura disciplinare.

Rilevanti mutamenti dei fatti addebitati risultano idonei a ledere il diritto di difesa. Ciò accade secondo la pronuncia della Cassazione n.28756 del 2019, allorquando sia intervenuta una sostanziale modifica del fatto addebitato tale da modificare sostanzialmente il fatto addebitato mediante il riferimento ad un quadro diverso da quello posto a fondamento della sanzione.

Un tanto non si verifica, allorquando siano dedotti fatti nuovi ma marginali rispetto al fatto contestato ( Cassazione 13.10.2020 n.22076).

Il principio delineato vale anche nell’ambito del procedimento disciplinare nel pubblico impiego.

 

  1. Giustificazione e Audizione.

 

  1. Chi può assistere l’incolpato?

 

E’ questa la fase dove principalmente si esplica il diritto di difesa.

Nel procedimento disciplinare del lavoro privato disciplinato dall’articolo 7 della legge 300/70 oltre che da eventuali norme contrattuali collettive, l’audizione dell’incolpato è solo eventuale e bene può il lavoratore limitarsi ad una difesa scritta.

Qualora il dipendente incolpato chieda di essere sentito, il datore di lavoro, a pena di nullità del procedimento, vi deve provvedere.

L’articolo 7 stabilisce che il lavoratore incolpato può chiedere di essere sentito con l’assistenza di un rappresentante sindacale.

Stante la disposizione, si è ritenuto che il dipendente incolpato non possa fari assistere da un legale.

La Corte di Cassazione con la pronunzia n.9305/2017 ha ritenuto non sussistere il diritto del lavoratore a rendere le proprie giustificazioni orali in presenza di un avvocato.

In particolare, quanto allo svolgimento del procedimento disciplinare ex Art. 7, St. lav. (L. 300/1970), la Corte Suprema ha avuto modo di precisare come, in occasione dell’audizione orale, il diritto del lavoratore ad essere assistito da un rappresentante sindacale esaurisca le tutele previste dal legislatore per siffatto procedimento. Ciò significa, allora, che il datore di lavoro ha la semplice facoltà, ma non l’obbligo, di ascoltare il lavoratore in presenza di un avvocato, anche quando, per i medesimi fatti oggetto di contestazione disciplinare, il dipendente sia stato chiamato a rispondere nell’ambito di un procedimento penale.

Secondo i giudici della Cassazione, infatti, procedimento disciplinare e procedimento penale attengono a sfere di interessi giuridici diversi, per cui il diritto all’assistenza tecnica di un difensore è previsto solo nel caso del processo penale, data la rilevanza pubblicistica del medesimo.

Nell’ambito del procedimento regolato dal Testo Unico sul Pubblico Impiego DLGS 165/2001 articolo 55 bis , il dipendente potrà invece farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

Dunque chiunque in quanto munito di procura potrà assistere l’incolpato ed a maggior ragione un legale.

  1. Quale rappresentante sindacale?

Una sentenza della Cassazione, alquanto datata, la n.1965/82 riteneva che il mandato alla difesa potesse essere conferito esclusivamente alle organizzazioni firmatarie del contratto collettivo.

Più di recente, Cassazione 30 agosto 1993 n.9177, ebbe invece a sostenere che qualsiasi organizzazione sindacale era legittimata ad assistere il lavoratore.

  1. E’ possibile richiedere in fase difensiva copia della documentazione che sostiene l’incolpazione?

Spesso le contestazioni disciplinari si fondano su atti e documenti del datore di lavoro e l’incolpato può avere interesse all’accesso nella fase di audizione.

L’articolo 7 della legge 300/70 non contempla un simile diritto.

Con diverse sentenze questo diritto era stato negato (Cassazione 6.10.2017, Cassazione 21 ottobre 2010 n.21612).

Con sentenza n.7581 del 27 marzo 2018, la Corte di Cassazione ammetteva il diritto non tanto in ragione del diritto di difesa che poteva ritenersi limitato nella sede disciplinare, quanto piuttosto con riferimento agli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sulle parti ed a patto di chiara indicazione della documentazione richiesta e della sua stretta inerenza alle difese da svolgere.

Nell’ambito del procedimento disciplinare del lavoro pubblico contrattualizzato, l’articolo 55 bis al comma 4 prevede per il dipendente il diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento.

 

 

  1. Ripercussioni del procedimento disciplinare in ambito giudiziale.

La fase procedimentale cui abbiamo accennato pur essendo estranea al procedimento giudiziale è spesso destinata a confluire nel medesimo con ripercussioni spesso rilevanti.

Ci riferiamo in primo luogo alla contestazione che in nome del principio di immutabilità cui abbiamo fatto cenno dovrà essere aderente alle difese processuali del convenuto e i casi di difformità potranno essere eccepiti dal ricorrente.

Anche la genericità della contestazione potrà rilevare in sede giudiziale, ma in questo caso se l’eccezione è fondata non si perverrà neppure alla fase istruttoria.

Nel caso in cui, venga rilevata la genericità della contestazione, ritengo opportuno rilevarla già in sede disciplinare, evitando di svolgere una difesa compiuta, va rilevato che la mancata risposta alla contestazione non equivale ad ammissione del fatto. Il tenere in eccessivo conto un eccezione dall’esito incerto potrebbe comunque inficiare la fase difensiva.

Nel caso di tardività della contestazione, è pure opportuno rilevarlo formalmente in fase disciplinare, espletando le difese e facendo notare l’eccezione di tardività.

Nel caso di mancato conferimento della documentazione su cui si fonda l’incolpazione, sarà opportuno farlo notare in sede di audizione, astenendosi da altre dichiarazioni.

Per quanto attiene invece alle giustificazioni.

Va posta molta attenzione ad evitare dichiarazioni confessorie del lavoratore o a non contestare i punti su cui si basa l’incolpazione chiedendone la verbalizzazione.

Dichiarazioni confessorie e mancata contestazione in presenza di valida incolpazione possono formare in sede giudiziale elemento di convincimento del giudice.

Per l’audizione, la presenza del sindacalista non è sempre appropriata in quanto questa tipologia di assistenza tende a privilegiare il discorso di insieme e la trattativa anche in senso favorevole al lavoratore, omettendo spesso un compiuto esame del fatto e la sua contestazione.

 

Avvocato Fabio Petracci.

 

Relazione tenuta dall’avvocato Fabio Petracci

nel convegno Il Procedimento Disciplinare nei Rapporti di Lavoro Pubblico e Privato

organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Roma e tenutosi presso la Corte di Cassazione in data 25.5.2021.

LA RESPONSABILITÀ IN SEDE PENALE DEGLI ENTI – D.LGS 231/2001

 

  1. Premessa; 2. I soggetti destinatari; 3. La responsabilità, l’esonero e l’autonomia degli enti; 4. Le sanzioni amministrative; 5. La responsabilità amministrativa da reato; 6. La responsabilità patrimoniale dell’ente; 7. Aspetti processuali.

 

  1. PREMESSA

Il D.lgs 231/2001, recante “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la responsabilità in sede penale degli enti.

La ratio del decreto legislativo citato è quello di colmare l’impunibilità degli illeciti penali commessi da parte degli enti, aggiungendo a quella della persona fisica che ha realizzato materialmente il fatto illecito. Questo perché, nel nostro ordinamento giuridico, precisamente all’articolo 27.1 Cost., la responsabilità penale è personale, con la conseguenza che solo il soggetto agente risponde esclusivamente dell’illecito penale.

Si ricollega inoltre, al principio “societas delinquere non potest”, secondo cui il reato commesso da una persona fisica appartenente ad un ente o ad una persona giuridica non può sorgere anche una responsabilità in capo al secondo.

In sostanza, il D.lgs. 231/2001 ha introdotto un regime di responsabilità amministrativa a carico degli enti per alcuni reati commessi da persone fisiche che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione, anche all’interno di una sua unità organizzativa autonoma e da persone soggette a direzione e vigilanza.

 

  1. I SOGGETTI DESTINATARI

L’efficacia soggettiva del D.lgs 231/2001 si basa sull’ente, inteso come un’organizzazione collettiva dotata di una certa autonomia organizzativo. I criteri di individuazione dei soggetti possono essere ad esempio, lo scopo di lucro e la personalità giuridica.

Le disposizioni si applicano, ex articolo 1, comma 2 del citato decreto legislativo, “agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”; ci riferiamo ad esempio alle società di capitali, alle società di persone, alle società cooperative e alle mutue assicuratrici, ai consorzi con attività esterna, alle fondazioni o alle associazioni.

Il comma 3 invece, esclude l’ambito di applicazione allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli enti pubblici non economici, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ, L’ESONERO E L’AUTONOMIA DEGLI ENTI

Secondo quanto disposto dall’articolo 5 del D.lgs 231/2001, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso ovvero i c.d soggetti in posizione apicale; da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza ovvero i c.d soggetti sottoposti all’altrui direzione. Sempre nello stesso articolo, si precisa che l’ente non risponde se le persone sopracitate hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

Vi sono altri casi in cui l’ente viene esonerato dalla responsabilità, infatti l’articolo 6 prevede che, se il reato è stato commesso dalle persone disposte dall’articolo 5, l’ente non risponde se prova che: l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo stesso.

In sintesi, l’ente ha l’obbligo di provare che i reati imputati non siano ad esso ascrivibili, pertanto si è dinanzi ad un regime di responsabilità con l’inversione dell’onere della prova.

L’articolo 7 invece, precisa che l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, ma si esclude dall’inosservanza di quest’ultimi, se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Il modello richiamato deve “prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”.

Per quanto riguarda “l’efficace attuazione del modello, si richiede: una verifica periodica e l’eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività; un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello”.

Infine, sotto il profilo dell’autonomia delle responsabilità dell’ente, l’articolo 8 dispone che “la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

In ogni modo, non si procede nei confronti dell’ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l’imputato ha rinunciato alla sua applicazione, salvo diversamente disposta dalla legge. L’ente, tuttavia, può rinunciare all’amnistia.

 

  1. LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

Gli illeciti amministrativi dipendenti da reato sono contenuti nell’articolo 9 del D.lgs 231/2001 e sono di quattro tipi: la sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza.

Le sanzioni interdittive sono: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l ́eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Come disposto dall’articolo 11, “nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice determina il numero delle quote tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti”.

La sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento né superiore a mille. Una singola quota va da un minimo di 258,23 euro ad un massimo di 1.549,37 euro. In ogni modo, l’importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l ́efficacia della sanzione.

Vi è la possibilità infine, di ridurre la sanzione pecuniaria come previsto dall’articolo 12.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DA REATO

Oltre agli illeciti sopracitati, vi sono dei reati espressamente disciplinati dagli artt. 24-26 del D.lgs 231/2001, quali, ad esempio:

  1. reati contro la pubblica amministrazione (es. corruzione, concussione, induzione indebita);
  2. reati contro la fede pubblica (es. falsità in monete, contraffazione, alterazione o uso di marchi, di brevetti, modelli e disegni);
  3. reati contro l’ordine pubblico (es. associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso);
  4. reati contro la persona (es. omicidio o lesioni commessi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro);
  5. reati informatici (es. accesso abusivo a un sistema informatico, danneggiamento di programmi informatici);
  6. reati societari (es. aggiotaggio, false comunicazioni sociali);
  7. reati ambientali (es. disastro ambientale, traffico e abbandono di materiali ad alta radioattività).

La recente riforma dei reati tributari (L. 19 dicembre 2019, n. 157) ha inserito l’art. 25 quinquiesdecies del D.lgs 231/2001 in materia di delitti di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture, di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DELL’ENTE

L’ente risponde solo con il suo patrimonio o con il suo fondo comune dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, confermando ancora una volta l’autonomia della responsabilità amministrativa dell’ente, ex articolo 27 del D.lgs. 231/2001.

Tale previsione esclude ogni possibilità di rivalsa nei confronti del patrimonio dei soci e degli associati anche nel caso in cui questi rispondano solidalmente e illimitatamente.

Ne consegue che vi è una deroga alla regola generale ovvero non si ha più distinzione tra società di persone – in cui vige un’autonomia patrimoniale imperfetta, dove i creditori possono aggredire il patrimonio del singolo socio – e società di capitali – in cui vige invece, un’autonomia patrimoniale perfetta e la società risponde con il proprio patrimonio senza coinvolgere direttamente i singoli soci.

Sempre l’articolo 27, tuttavia, non esenta i soci dalle altre conseguenze patrimoniali derivanti dall’accertamento dei reati, come l’obbligo di risarcire il danno e la confisca del profitto.

Il 2 comma dello stesso assicura i crediti privilegiati ovvero quelli dello Stato per il pagamento della sanzione pecuniaria inflitta all’ente, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario, rispetto alle quali è previsto l’istituto del sequestro conservativo, ex articolo 54 del D.Lgs 231/2001.

 

  1. ASPETTI PROCESSUALI

L’articolo 34 del D.lgs. 231/2001 dispone che, nell’accertamento delle responsabilità delle imprese, si osservano le regole del processo penale.

L’articolo 35 estende l’ambito di applicazione delle disposizioni processuali relative all’imputato.

Per quanto riguarda “la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono”, ex articolo 36, comma 1.

“Per il procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente si osservano le disposizioni sulla composizione del tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende”, ex articolo 36, comma 2.

Inoltre, l’articolo 55 prevede l’annotazione dell’illecito amministrativo da parte del pubblico ministero nel registro delle notizie di reato e “se non procede alla contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59 – contestazione dell’illecito amministrativo – il pubblico ministero emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte d’appello. Il procuratore generale può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano le condizioni, contesta all’ente le violazioni amministrative conseguenti al reato entro sei mesi dalla comunicazione”, ex articolo 58.

 

 

Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste

LA RESPONSABILITÀ IN SEDE PENALE DEGLI ENTI – D.LGS 231/2001

  1. Premessa; 2. I soggetti destinatari; 3. La responsabilità, l’esonero e l’autonomia degli enti; 4. Le sanzioni amministrative; 5. La responsabilità amministrativa da reato; 6. La responsabilità patrimoniale dell’ente; 7. Aspetti processuali.

 

  1. PREMESSA

Il D.lgs 231/2001, recante “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la responsabilità in sede penale degli enti.

La ratio del decreto legislativo citato è quello di colmare l’impunibilità degli illeciti penali commessi da parte degli enti, aggiungendo a quella della persona fisica che ha realizzato materialmente il fatto illecito. Questo perché, nel nostro ordinamento giuridico, precisamente all’articolo 27.1 Cost., la responsabilità penale è personale, con la conseguenza che solo il soggetto agente risponde esclusivamente dell’illecito penale.

Si ricollega inoltre, al principio “societas delinquere non potest”, secondo cui il reato commesso da una persona fisica appartenente ad un ente o ad una persona giuridica non può sorgere anche una responsabilità in capo al secondo.

In sostanza, il D.lgs. 231/2001 ha introdotto un regime di responsabilità amministrativa a carico degli enti per alcuni reati commessi da persone fisiche che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione, anche all’interno di una sua unità organizzativa autonoma e da persone soggette a direzione e vigilanza.

 

  1. I SOGGETTI DESTINATARI

L’efficacia soggettiva del D.lgs 231/2001 si basa sull’ente, inteso come un’organizzazione collettiva dotata di una certa autonomia organizzativo. I criteri di individuazione dei soggetti possono essere ad esempio, lo scopo di lucro e la personalità giuridica.

Le disposizioni si applicano, ex articolo 1, comma 2 del citato decreto legislativo, “agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”; ci riferiamo ad esempio alle società di capitali, alle società di persone, alle società cooperative e alle mutue assicuratrici, ai consorzi con attività esterna, alle fondazioni o alle associazioni.

Il comma 3 invece, esclude l’ambito di applicazione allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli enti pubblici non economici, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ, L’ESONERO E L’AUTONOMIA DEGLI ENTI

Secondo quanto disposto dall’articolo 5 del D.lgs 231/2001, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso ovvero i c.d soggetti in posizione apicale; da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza ovvero i c.d soggetti sottoposti all’altrui direzione. Sempre nello stesso articolo, si precisa che l’ente non risponde se le persone sopracitate hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

Vi sono altri casi in cui l’ente viene esonerato dalla responsabilità, infatti l’articolo 6 prevede che, se il reato è stato commesso dalle persone disposte dall’articolo 5, l’ente non risponde se prova che: l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo stesso.

In sintesi, l’ente ha l’obbligo di provare che i reati imputati non siano ad esso ascrivibili, pertanto si è dinanzi ad un regime di responsabilità con l’inversione dell’onere della prova.

L’articolo 7 invece, precisa che l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, ma si esclude dall’inosservanza di quest’ultimi, se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Il modello richiamato deve “prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”.

Per quanto riguarda “l’efficace attuazione del modello, si richiede: una verifica periodica e l’eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività; un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello”.

Infine, sotto il profilo dell’autonomia delle responsabilità dell’ente, l’articolo 8 dispone che “la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

In ogni modo, non si procede nei confronti dell’ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l’imputato ha rinunciato alla sua applicazione, salvo diversamente disposta dalla legge. L’ente, tuttavia, può rinunciare all’amnistia.

 

  1. LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

Gli illeciti amministrativi dipendenti da reato sono contenuti nell’articolo 9 del D.lgs 231/2001 e sono di quattro tipi: la sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza.

Le sanzioni interdittive sono: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l ́eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Come disposto dall’articolo 11, “nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice determina il numero delle quote tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti”.

La sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento né superiore a mille. Una singola quota va da un minimo di 258,23 euro ad un massimo di 1.549,37 euro. In ogni modo, l’importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l ́efficacia della sanzione.

Vi è la possibilità infine, di ridurre la sanzione pecuniaria come previsto dall’articolo 12.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DA REATO

Oltre agli illeciti sopracitati, vi sono dei reati espressamente disciplinati dagli artt. 24-26 del D.lgs 231/2001, quali, ad esempio:

  1. reati contro la pubblica amministrazione (es. corruzione, concussione, induzione indebita);
  2. reati contro la fede pubblica (es. falsità in monete, contraffazione, alterazione o uso di marchi, di brevetti, modelli e disegni);
  3. reati contro l’ordine pubblico (es. associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso);
  4. reati contro la persona (es. omicidio o lesioni commessi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro);
  5. reati informatici (es. accesso abusivo a un sistema informatico, danneggiamento di programmi informatici);
  6. reati societari (es. aggiotaggio, false comunicazioni sociali);
  7. reati ambientali (es. disastro ambientale, traffico e abbandono di materiali ad alta radioattività).

La recente riforma dei reati tributari (L. 19 dicembre 2019, n. 157) ha inserito l’art. 25 quinquiesdecies del D.lgs 231/2001 in materia di delitti di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture, di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DELL’ENTE

L’ente risponde solo con il suo patrimonio o con il suo fondo comune dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, confermando ancora una volta l’autonomia della responsabilità amministrativa dell’ente, ex articolo 27 del D.lgs. 231/2001.

Tale previsione esclude ogni possibilità di rivalsa nei confronti del patrimonio dei soci e degli associati anche nel caso in cui questi rispondano solidalmente e illimitatamente.

Ne consegue che vi è una deroga alla regola generale ovvero non si ha più distinzione tra società di persone – in cui vige un’autonomia patrimoniale perfetta e la società risponde con il proprio patrimonio senza mai coinvolgere direttamente i singoli soci – e società di capitali – in cui vige invece, un’autonomia patrimoniale imperfetta, dove i creditori possono aggredire il patrimonio del singolo socio.

Sempre l’articolo 27, tuttavia, non esenta i soci dalle altre conseguenze patrimoniali derivanti dall’accertamento dei reati, come l’obbligo di risarcire il danno e la confisca del profitto.

Il 2 comma dello stesso assicura i crediti privilegiati ovvero quelli dello Stato per il pagamento della sanzione pecuniaria inflitta all’ente, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario, rispetto alle quali è previsto l’istituto del sequestro conservativo, ex articolo 54 del D.Lgs 231/2001.

 

  1. ASPETTI PROCESSUALI

L’articolo 34 del D.lgs. 231/2001 dispone che, nell’accertamento delle responsabilità delle imprese, si osservano le regole del processo penale.

L’articolo 35 estende l’ambito di applicazione delle disposizioni processuali relative all’imputato. Per quanto riguarda “la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono”, ex articolo 36, comma 1.

“Per il procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente si osservano le disposizioni sulla composizione del tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende”, ex articolo 36, comma 2.

Inoltre, l’articolo 55 prevede l’annotazione dell’illecito amministrativo da parte del pubblico ministero nel registro delle notizie di reato e “se non procede alla contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59 – contestazione dell’illecito amministrativo – il pubblico ministero emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte d’appello. Il procuratore generale può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano le condizioni, contesta all’ente le violazioni amministrative conseguenti al reato entro sei mesi dalla comunicazione”, ex articolo 58.

 

 

Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste

Contestazione disciplinare diritto di accesso alla documentazione. Il lavoratore incolpato nell’ambito di un procedimento disciplinare ha diritto ad ottenere copia degli atti che sorreggono l’accusa.

La Corte di Cassazione con la sentenza che segue garantisce l’accesso ai documenti aziendali qualora sia in gioco la tutela del lavoratore e la documentazione sia imposta dalla legge o dalla normativa aziendale.

Il diritto di accesso è considerato dalla Cassazione (ordinanza 14 dicembre 2018 n.32533) non tanto come un eccezione alla tutela dei dati, quanto piuttosto come una forma specifica di tutela che consente al dipendente di esercitare il controllo sui dati che lo riguardano.

Nel caso di specie, un dipendente di un istituto di credito colpito da un procedimento disciplinare richiede l’accesso ai dati e documenti che sorreggono la contestazione e la Corte di Cassazione ne riconosce il diritto.

La sentenza in commento non è l’unica che riconosce al lavoratore incolpato di ottenere nel corso della contestazione disciplinare l’accesso alla documentazione che sorregge l’incolpazione.

Nel caso di specie essa si sofferma principalmente sull’accesso del lavoratore a dati riservati ed infatti in corso di causa è chiamato anche il garante della privacy. Più nette nel senso di affermare un generale diritto di accesso agli atti al lavoratore incolpato ai sensi dell’articolo 7 della legge 300/70 le restanti sentenze.

Infatti recenti pronunce della Suprema Corte (Cassazione n.50/2017, n.6337/2013, 15169/2012 , 23304/2010 , sanciscono un tale diritto e ciò non solo nel procedimento disciplinare dell’impiego pubblico dove esso è regola, ma anche nell’ambito del lavoro privato dove  sebbene neppure la legge n. 300 del 1970, art. 7, non preveda, nell’ambito del procedimento disciplinare, un obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore nei cui confronti sia stata elevata una contestazione disciplinare, la documentazione su cui essa si basa, ha ritenuto la giurisprudenza della Suprema Corte che  il datore di lavoro è tenuto ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali laddove l’esame degli stessi sia necessario al fine di permettere alla controparte un’adeguata difesa, in base ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto.

Oltre alle sentenze appena citate, va ricordata Cassazione n.7581 del 27 marzo 2018 che espressamente afferma come l’articolo 7 della legge 300/70 vada completato con l’obbligo di permettere al lavoratore incolpato di accedere ai documenti su cui si basa l’accusa integrando e completando così il diritto di difesa sancito dall’articolo 7 legge 300/70.

Avvocato Fabio Petracci.