PROPRIETÀ INTELLETTUALE E DIRITTO DEL LAVORO: LE CREAZIONI INTELLETTUALI DEL LAVORATORE

PROPRIETÀ INTELLETTUALE E DIRITTO DEL LAVORO: LE CREAZIONI INTELLETTUALI DEL LAVORATORE

  1. Le creazioni intellettuali nel nostro ordinamento; 2. Il rapporto tra le creazioni intellettuali del lavoratore e la posizione del datore di lavoro; 3. Le tipologie di invenzione del lavoratore; 4. Le questioni applicative delle ipotesi di invenzione del dipendente; 5. Le risoluzioni delle controversie.

 

  1. LE CREAZIONI INTELLETTUALI NEL NOSTRO ORDINAMENTO

Il nostro ordinamento tutela le creazioni intellettuali che possono essere di due tipi: le opere dell’ingegno, come ad esempio le idee creative nel campo artistico o culturale, e le invenzioni industriali, come ad esempio le idee creative nel campo scientifico o tecnico. Tale distinzione comporta una duplice tutela: 1. il riconoscimento del diritto d’autore per le opere dell’ingegno letterarie e artistiche; 2. il riconoscimento del diritto di brevetto per le invenzioni industriali, i modelli di utilità, i disegni e i modelli del prodotto.

Sotto quest’ottica, il nostro sistema giuridico mira a tutelare l’interesse dell’autore a rivendicare il diritto allo sfruttamento esclusivo della creazione e della collettività a disporre di un’invenzione di particolare utilità funzionale o sociale.

Da questa premessa, si evince che, proprio come i beni materiali, anche i beni immateriali come le creazioni intellettuali possono essere oggetto di proprietà. In sostanza, per proprietà industriale si intende un insieme di istituti che mirano ad attribuire un diritto di esclusiva dei beni immateriali e può interessare qualsiasi ambito, dall’arte alla medicina, coinvolgendo il settore dell’informatica, dell’ingegneria e in genere quello scientifico.

Tale proprietà, infatti, attraverso il sistema delle privative industriali mira a promuovere la concorrenza, garantendo all’impresa che decide di innovarsi, un diritto di esclusiva sulla propria idea o sul proprio processo di innovazione tecnologico.

In altre parole, per privativa industriale si intende un diritto di esclusiva conferito dall’ordinamento giuridico ad un determinato soggetto su un’opera intellettuale.

Tale esclusiva consiste nell’attribuzione di un diritto di opporsi a qualunque uso non autorizzato del segno, dell’opera, del disegno o dell’invenzione da parte di terzi nel mercato e di potersi rivolgere alle autorità giudiziarie competenti per ottenerne l’azione inibitoria ovvero la cessazione di un comportamento illecito o vietato. In sostanza, le privative industriali servono a proteggere gli imprenditori o gli autori di un’opera da rischi di appropriazione o sfruttamento indebito del proprio lavoro.

In sintesi, alle creazioni intellettuali vengono attribuite un diritto di privativa in capo al creatore. Questo diritto è molto simile alla proprietà, ma si differenzia per tre caratteristiche: ha sempre ad oggetto un bene immateriale; ha durata limitata nel tempo; ed è subordinato al rilascio di un brevetto/riconoscimento.

 

  1. IL RAPPORTO TRA LE CREAZIONI INTELLETTUALI DEL LAVORATORE E LA POSIZIONE DEL DATORE DI LAVORO

Nel mondo imprenditoriale, le conoscenze tecniche dei lavoratori contribuiscono sempre di più allo sviluppo tecnologico e alla capacità concorrenziale delle imprese. Da ciò, ne consegue una duplice valenza giuridica: il profilo del diritto della proprietà intellettuale, che determina le condizioni per l’attribuzione delle privative, e quello giuslavoristico, che invece disciplina le conseguenze derivanti dal rapporto di subordinazione tra datore e lavoratore.

Nell’ambito della proprietà intellettuale, le opere dell’ingegno del lavoratore trovano un riferimento nella regola generale, ex art. 2575 C.C., secondo cui formano oggetto del diritto di autore le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. Oltre a tale regola, non vi sono previsioni specifiche a riguardo, se non quello di ricorrere alle elaborazioni giurisprudenziali.

Nell’ambito della proprietà industriale invece, le invenzioni del dipendente trovano un riferimento generale nell’articolo 2590 C.C., secondo il quale il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore [2589] dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro. I diritti e gli obblighi delle parti relativi all’invenzione sono regolati dalle leggi speciali [2587, 2591]. Inoltre, sono disciplinate espressamente dagli articoli 64 e 65 del Codice della proprietà industriale (d’ora in avanti C.P.I.) di cui al d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30.

Esposto i dati normativi di riferimento, è necessario mettere a confronto gli interessi contrapposti che ne derivano dal rapporto di lavoro: da una parte, l’interesse del lavoratore che gli vengano attribuiti i diritti patrimoniali e morali derivanti dall’invenzione o creazione di un’opera; dall’altra, l’interesse del datore di trarne profitto economico delle creazioni intellettuali del suo dipendente, in attuazione dell’articolo 35 Cost. secondo cui i risultati di un’obbligazione di fare dedotta ad oggetto di un contratto di lavoro appartengono al soggetto in favore del quale è svolta la prestazione, ossia a favore del datore di lavoro. Si pone così una deroga alla regola generale dell’art. 2575 C.C., secondo cui è da attribuire sia i diritti morali che quelli patrimoniali all’inventore, quindi al lavoratore.

La ratio di tale deroga, definito dalla giurisprudenza come principio lavoristico generale, va ricercata nel fatto che l’imprenditore (il datore di lavoro) acquista direttamente i risultati del lavoro del dipendente come effetto naturale del contratto di lavoro subordinato, senza quindi, un ulteriore atto di trasferimento.

Tale principio non è altro che un’espressione della regola ancora più generale di impermeabilità del rapporto di lavoro: l’imprenditore, stipulando un contratto di lavoro nel quale è dedotta un’obbligazione che ha come oggetto lo svolgimento di attività al fine di creare un’invenzione, sopporta il costo e il rischio economico derivante dall’aleatorietà del risultato inventivo e, pertanto, ha diritto di utilizzare economicamente il risultato dell’attività lavoratori del suo dipendente oggetto del contratto di lavoro. In altre parole, l’imprenditore può trarre profitto dall’attività lavorativa del suo dipendente.

C’è da precisare però, che tale interesse dell’imprenditore dev’essere contemplato con l’interesse del lavoratore, ossia quello di essere riconosciuto della propria creazione intellettuale che, grazie al carattere innovativo di quest’ultima, ha portato progresso scientifico e tecnico alla collettività, ex art. 9 Cost.

 

  1. TIPOLOGIE DI INVENZIONE DEL LAVORATORE

Si precisa sin da subito che, dal punto di vista del diritto positivo, non esiste una nozione legale di invenzione, semmai è presente, ex 2585 C.C., un suo elenco che può essere oggetto di brevetto, se pur risulta un po’ datato dal punto di vista industriale. Per una sua maggiore esplicazione, è necessario richiamare il diritto industriale e, anche in questo caso però, ci troviamo dinanzi ad una definizione aperta, suscettibile di accogliere realtà diverse.

Se nella regola generale si hanno pochi riferimenti, il legislatore ha predisposto alcune regole per le invenzioni nel rapporto di lavoro subordinato, mediante l’invio alle leggi speciale per la sua disciplina. La già citata art. 2590 C.C., infatti, dispone che il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore [2589] dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro. I diritti e gli obblighi delle parti relativi all’invenzione sono regolati dalle leggi speciali [2587, 2591].

La ratio della disciplina è quella di individuare un equo equilibrio tra gli interessi contrapposti ovvero quelli del datore di lavoro con le sue pretese imprenditoriali e quelli del lavoratore che gli vengano attribuiti i diritti del prestatore-inventore.

Con l’emanazione del Codice della Proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), si prevedono tre tipologie di invenzioni con riferimento al lavoro dipendente, ma estendibile anche al lavoro autonomo, in attuazione dell’art. 4, l. 22 maggio 2017, n. 81, il c.d Statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, il quale dispone che “salvo il caso in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata, i diritti di utilizzazione economica relativi ad apporti originali e a invenzioni realizzati nell’esecuzione del contratto stesso spettano al lavoratore autonomo, secondo le disposizioni di cui alla legge 22 aprile 1941, n. 633, e al codice della proprietà industriale, di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30”.

L’art. 64 C.P.I. prevede al primo comma le invenzioni di servizio che si ha quando l’invenzione industriale è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d’impiego, in cui l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo retribuita, i diritti derivanti dall’invenzione stessa appartengono al datore di lavoro, salvo il diritto spettante all’inventore di esserne riconosciuto autore.

Al secondo comma invece, vi sono le invenzioni azienda, secondo cui se non è prevista e stabilita una retribuzione, in compenso dell’attività inventiva, e l’invenzione è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego, i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all’inventore, salvo sempre il diritto di essere riconosciuto autore, spetta, qualora il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto o utilizzino l’invenzione in regime di segretezza industriale, un equo premio per la determinazione del quale si terrà conto dell’importanza dell’invenzione, delle mansioni svolte e della retribuzione percepita dall’inventore, nonché del contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione del datore di lavoro. Al fine di assicurare la tempestiva conclusione del procedimento di acquisizione del brevetto e la conseguente attribuzione dell’equo premio all’inventore, può essere concesso, su richiesta dell’organizzazione del datore di lavoro interessata, l’esame anticipato della domanda volta al rilascio del brevetto.

E infine, al terzo comma, sono previste le invenzione occasionali e si hanno quando qualora non ricorrano le condizioni previste nei commi 1 e 2 e si tratti di invenzione industriale che rientri nel campo di attività del datore di lavoro, quest’ultimo ha il diritto di opzione per l’uso, esclusivo o non esclusivo dell’invenzione o per l’acquisto del brevetto, nonché per la facoltà di chiedere od acquisire, per la medesima invenzione, brevetti all’estero verso corresponsione del canone o del prezzo, da fissarsi con deduzione di una somma corrispondente agli aiuti che l’inventore abbia comunque ricevuti dal datore di lavoro per pervenire all’invenzione. Il datore di lavoro potrà esercitare il diritto di opzione entro tre mesi dalla data di ricevimento della comunicazione dell’avvenuto deposito della domanda di brevetto. I rapporti costituiti con l’esercizio dell’opzione si risolvono di diritto, ove non venga integralmente pagato alla scadenza il corrispettivo dovuto.

In sintesi, nelle prime due ipotesi i diritti derivanti dalle invenzioni del dipendente si trasferiscono a titolo derivativo in capo al datore di lavoro, diversa nella terza ipotesi che rimangono in capo al lavoratore, fermo restando però, che il datore di lavoro è titolare di un diritto di opzione sulla cessione o utilizzazione a titolo oneroso dell’invenzione (rectius, di norma, del brevetto), per ragioni riconducibili all’obbligo di fedeltà cui il prestatore è tenuto, ex art. 2105 C.C.

In comune a tutte e le tre ipotesi è che l’invenzione debba avvenire nel corso del rapporto del lavoro.

 

  1. LE QUESTIONI APPLICATIVE DELLE IPOTESI DI INVENZIONE DEL DIPENDENTE

Le ipotesi previste dall’articolo 64 C.P.I. producono effetti diversi e in particolare comportano una deroga rilevante alla disciplina generale sulle opere dell’ingegno. Ne consegue che, l’individuazione dei criteri di applicazione risulta assai problematico.

L’elemento comune alle tre ipotesi, come già accennato, è che l’invenzione sia maturata nel corso del rapporto di lavoro, come espressamente disposto all’ultimo comma dell’articolo 64 C.P.I.

Superato questo primo scoglio di inquadramento, ossia una volta accertati che un determinato caso rientri nell’ambito applicativo del citato articolo, è necessario ricondurre la fattispecie alle ipotesi previste.

È tradizionalmente appurato che la distinzione tra le prime due ipotesi, invenzione di servizio e invenzione d’azienda (in cui il diritto patrimoniale sull’invenzione è attribuito di legge direttamente al datore di lavoro) e la terza, invenzione occasionale (in cui al datore di lavoro spetta solamente un diritto di opzione), consiste nell’accertare se l’invenzione sia avvenuta o meno nell’ambito lavorativo.

A riguardo, la dottrina e giurisprudenza non forniscono un’interpretazione univoca della norma, offrendo quindi delle tesi differenti in merito.

Una delle tesi maggioritarie distingue le prime due tipologie dalla terza in base all’oggetto del contratto di lavoro, cioè se il lavoratore è stato assunto per svolgere un’attività con scopo inventiva, mentre la previsione di un’apposita retribuzione differenzia la prima e la seconda ipotesi.

Tale posizione porta da un lato, a restringere i casi dei primi due commi dell’art. 64 C.P.I., dall’altro amplifica quelli del terzo comma.

Per quanto riguarda la retribuzione nell’invenzione di servizio, secondo la giurisprudenza, deve essere congrua, la quale non deve essere valutata ex post, ovvero in base al valore economico dell’invenzione realizzata, bensì ex ante con riferimento, quindi, al momento dell’assunzione delle mansioni assegnate.

Il problema più critico si ha quando il contratto di lavoro non fa alcuna menzione della retribuzione. In un caso del genere, vi è stata la sentenza della Cass. n. 1285/2006, la quale ha escluso che si potesse configurare come invenzione di servizio, disponendo che la presenza in busta paga di un superminimo individuale non esplicitamente qualificato come corrispettivo dell’attività inventiva non è idonea, di per sé, a provare il requisito sopra indicato.

Si comprende che è tutta una questione interpretativa del testo contrattuale e in merito, la giurisprudenza enfatizza l’indagine sulla volontà delle parti.

In ogni modo, è pacifico che è sul datore di lavoro che grava l’onere probatorio di dimostrare l’esistenza dei presupposti per configurare l’invenzione di servizio, altrimenti l’invenzione viene configurata come d’azienda, con conseguente diritto del dipendente all’equo premio.

Per evitare che si crei una situazione simile, è auspicabile che il datore di lavoro predisponga con cura il testo del contratto di lavoro chiarendo in modo inequivoco l’attribuzione delle mansioni di ricerca inventiva e di una retribuzione corrispondente, richiamando anche espressamente le previsioni di cui all’art. 64, comma 1 e precisando che, in caso venga realizzata un’invenzione brevettabile, non spetterà alcun compenso ulteriore.

Per quanto riguarda l’invenzione occasionale, i diritti patrimoniali spettano all’autore dell’invenzione, ma quest’ultimo è tenuto a informare il datore di lavoro dell’avvenuta invenzione, comunicandogli la domanda di brevetto. A quest’ultimo spetta il diritto di opzione sull’uso e sull’acquisto del trovato che però deve essere esercitato tempestivamente, pena la decadenza da tale posizione di vantaggio.

 

  1. LE RISOLUZIONI DELLE CONTROVERSIE

In caso di controversie in materia di invenzioni, l’art. 134 C.P.I. attribuisce la competenza alle Sezioni Specializzate in materia di Impresa, che in precedenza spettava alle Sezioni lavoro, e riguardano quindi, anche i casi delle invenzioni del dipendente. Attribuzione confermata dall’art. 4, l. 22 maggio 2017, n. 81, il quale riguarda i casi di rapporti autonomi e parasubordinati.

Il comma quarto dell’art. 64 C.P.I. prevede una procedura arbitrale obbligatoria per a determinazione del quantum relativa all’equo premio nelle invenzioni d’azienda, infatti dispone che ferma la competenza del giudice ordinario relativa all’accertamento della sussistenza del diritto all’equo premio, al canone o al prezzo, se non si raggiunga l’accordo circa l’ammontare degli stessi, anche se l’inventore è un dipendente di amministrazione statale, alla determinazione dell’ammontare provvede un collegio di arbitratori, composto di tre membri, nominati uno da ciascuna delle parti ed il terzo nominato dai primi due, o, in caso di disaccordo, dal Presidente della sezione specializzata del Tribunale competente dove il prestatore d’opera esercita abitualmente le sue mansioni. Si applicano in quanto compatibili le norme degli articoli 806, e seguenti, del codice di procedura civile.

Infine, al quinto comma, sempre del citato art. 64, si prevede che il collegio degli arbitratori può essere adito anche in pendenza del giudizio di accertamento della sussistenza del diritto all’equo premio, al canone o al prezzo, ma, in tal caso, l’esecutività della sua decisione è subordinata a quella della sentenza sull’accertamento del diritto. Il collegio degli arbitratori deve procedere con equo apprezzamento. Se la determinazione è manifestamente iniqua od erronea la determinazione è fatta dal giudice.

In conclusione, in assenza di una normativa consolidata a riguardo e specificamente esaustiva, costituito soprattutto da rinvii alle legislazioni speciali, non mancano problematiche applicative e di coordinamento con le regole generali. Se è vero che sia la dottrina che la giurisprudenza sono intervenuti a formulare delle soluzioni in merito, è auspicabile in ogni modo, una valutazione ponderata da parte degli operatori e degli interpreti.

 

 

 

Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste.

 

Nullità del patto di non concorrenza – nullità per ragioni comuni e specifiche alla norma

Cassazione Civile Sezione Lavoro ordinanza 1.3.2021 n.5540.

Il patto di non concorrenza è disciplinato dall’articolo 2125 del codice civile.

Esso al pari di altre clausole destinate a stabilizzare il rapporto o comunque a rafforzarne i vincoli, come ad esempio, la clausola di durata minima del rapporto, costituisce una delle forme di fidelizzazione del lavoratore.

Un importante peculiarità della clausola è data dal fatto che essa è destinata ad operare soltanto alla cessazione del rapporto di lavoro.

Quindi il patto lungi dall’operare nell’ambito del reciproco vincolo che involge il rapporto di lavoro, viene ad operare allorquando questo è cessato ed opera la regola generale della reciproca libertà di iniziativa delle parti.

Quindi la stipula avviene nel corso del rapporto di lavoro e gli effetti sono differiti alla cessazione.

Esso quindi costituisce una eccezione al normale ed ordinario venir meno delle reciproche obbligazioni una volta cessato il rapporto.

La serietà di tale eccezione impone dei precisi requisiti che il patto deve possedere a pena di nullità.

Esso deve quindi risultare da atto scritto, prevedere l’erogazione di un corrispettivo a favore del lavoratore, contenere il vincolo entro determinati limiti di oggetto, di tempo di luogo.

L’ordinario limite temporale è di tre anni e cinque per i dirigenti.

L’eventuale pattuizione di una durata maggiore è ridotta per legge ai limiti legali.

L’articolo 2125 prevede, a pena di nullità del patto, i seguenti elementi costitutivi:

  • Forma scritta;
  • Definizione dell’oggetto;
  • Durata predefinita;
  • Indicazione dell’ambito territoriale di operatività;
  • Determinazione di un corrispettivo.

 

 

La mancanza di questi elementi determina la nullità del patto.

Vi sono però dei casi più frequenti, laddove gli elementi sopraindicati sussistono formalmente, ma per tutta una serie di carenze di contenuto, la giurisprudenza ne sancisce ricorrentemente la nullità.

Ciò accade, laddove il compenso sia simbolico o comunque inadeguato rispetto al sacrificio richiesto, oppure il contenuto del patto sia talmente esteso da non permettere al lavoratore lo svolgimento di alcuna utile attività remunerativa.

Sul punto è intervenuta la Suprema Corte con la sentenza in esame n.5540 dell’1.3.2021  la quale confermando la nullità per entrambe le ipotesi possibili riferite in primo luogo alla mancanza di taluno degli elementi di cui all’articolo 2125 del codice civile ed in secondo luogo all’insufficienza di tali elementi nel determinare un giusto equilibrio delle prestazioni, afferma come in questo secondo caso di squilibrio economico delle prestazioni le disposizioni di cui agli articoli 1418 e 1467 del codice civile (rescissione per lesione ed eccessiva onerosità sopravvenuta, avrebbero accordato al lavoratore subordinato una tutela in larga misura soltanto apparente confinando nella irrilevanza un’ ampia gamma di ipotesi di squilibrio delle prestazioni, ha ritenuto come un requisito di adeguatezza del compenso sia implicito nella formulazione di cui all’articolo 2125 del codice civile come pure gli imposti limiti di tempo e di luogo per il contenimento del patto.

In tal senso, la Cassazione opera un importante riferimento alla pronuncia delle Sezioni Unite n.9140 del 2016 che, a determinate condizioni, ammettevano la nullità per difetto di meritevolezza anche clausole non aventi natura vessatoria come in determinati casi, nel contratto di assicurazione sulla responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria avvengano in un determinato lasso di tempo, richiamando così il principio di solidarietà sociale di fronte a significativi squilibri dei diritti e degli obblighi contrattuali.

Resta ferma, naturalmente, secondo la Suprema Corte, la necessità di una rigorosa valutazione in ordine alla sussistenza di un corrispettivo manifestamente iniquo e sproporzionato nel caso dell’articolo 2125 del codice civile.

Da quanto sopra espone la Corte di Cassazione come operino due piani di nullità del patto di non concorrenza.

Il primo, come per ogni contratto, per indeterminatezza degli elementi ex articolo 1346 del codice civile.

Il secondo per violazione dell’articolo 2125 del codice civile, laddove il corrispettivo sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato.

 

Fabio Petracci

 

 

Cambio di appalto o trasferimento d’azienda?

Cassazione civile Sezione lavoro, Sentenza 31-01-2020, n. 2315.

La sentenza in esame stabilisce che in tema di appalto, l’art. 29, comma 3 del D.L.G.S. 10 settembre 2003, n. 276, va inteso nel senso che la mera assunzione, da parte del subentrante nell’appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo, per cui, se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l’azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall’art. 2112 c.c.

La Corte d’Appello di Torino con sentenza del 14 giugno 2018 aveva confermato l’ordinanza del Tribunale con la quale era stata dichiarata l’illegittimità di un licenziamento collettivo operato da una società subentrata ad altra nell’ambito di un appalto.

In pratica, il Tribunale e quindi la Corte d’Appello avevano riconosciuto sussistere nell’ambito del cambio d’appalto di un servizio di mensa, il trasferimento di un ramo d’azienda con il conseguente riconoscimento a favore dei lavoratori licenziati di una diversa e maggiore anzianità di servizio.

Della questione è investita la Suprema Corte la quale con la sentenza di cui in epigrafe, conferma la decisione dei giudici di merito.

Nel confermare la decisione della Corte d’Appello, la Corte di Cassazione forniva nel senso di cui sopra,  la propria autorevole interpretazione del nuovo testo del comma 3 dell’articolo 29 del DLGS 276/2003

La norma di legge cui si è fatto cenno è stata novellata dall’articolo 30, comma 1, della legge 7 luglio 2016 n.122 nei seguenti termini:

L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

In precedenza, lo stesso articolo escludeva che il cambio di appalto potesse configurare il trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda.

La Corte di Cassazione ha quindi precisato che la norma citata va intesa nel senso che la mera assunzione, da parte del subentrante nell’appalto, non integra di per se trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo”, per cui “se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l’azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall’art. 2112 c.c.

Contestualmente, la Corte di Cassazione precisa come però la norma non debba essere letta in modo da ritenere la coincidenza tra cambio di appalto e cessione di ramo d’azienda.

Nel caso di specie, la Cassazione confermava la giurisprudenza di merito che aveva ritenuto sussistere il trasferimento di ramo d’azienda sulla base della considerazione che il subentrante usava gli stessi mezzi di produzione.

La sentenza in proposito cita altri precedenti del giudice di legittimità, laddove il requisito del trasferimento del ramo d’azienda era però stato ritenuto sussistere in base a criteri maggiormente ampli.

Il riferimento va principalmente a Cassazione 12720 del 2017 laddove si precisa come il trasferimento della proprietà dei beni non debba essere considerato unico requisito indefettibile per trasformare il subentro nell’appalto nel trasferimento di ramo d’azienda.

La pronuncia fa riferimento al chiarimento proveniente in tal senso dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che con la sentenza del 15/12/2015 nei procedimenti riuniti C- 232/04 e C – 233/04, era stata chiamata ad interpretare l’articolo 1 della direttiva del Consiglio 2001/23.

Su tale base, si è potuto riconoscere che quando un’entità economica sia in grado, in determinati settori, di operare senza elementi patrimoniali significativi, materiali o immateriali, la conservazione della sua identità non può dipendere dalla cessione di tali elementi; nei settori in cui l’attività si fonda essenzialmente sulla mano d’opera in tal modo, un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un’attività comune può corrispondere ad un’entità economica.

Questo indirizzo era di seguito confermato da Cassazione 2793/2019 la quale affrontando un caso anteriore alla novella dell’articolo 29 del DLGS 276/2003, partiva dalla normativa comunitaria per affermare come anche il trasferimento coordinato ed organico di risorse umane poteva nel caso di cessione dell’appalto, configurare il trasferimento di ramo d’azienda.

Sussiste pertanto, almeno ad avviso di chi scrive, uno spazio interpretativo sul quale da parte della Suprema Corte non è stata posta ancora l’ultima parole e che potrebbe dar luogo o all’intervento delle Sezioni Unite oppure ad un rinvio alla Corte di Giustizia.

La questione va pertanto brevemente ricostruita per verificare tale ipotesi.

Alla data del 10.9.2003, allorquando entrava in vigore il DLGS 276/2003 (Biagi), il comma 3 dell’articolo 29 del DLGS 276/2003 testualmente prevedeva:

L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

Dunque la sussistenza dell’appalto genuino di cui all’articolo 1655 del codice civile automaticamente escludeva il sussistere di un trasferimento di ramo d’azienda con la conseguente applicazione dell’articolo 2112 del codice civile.

Nell’ordinamento comunitario la Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001 all’articolo 1b) fornisce la definizione di cessione d’azienda e di ramo d’azienda stabilendo che: ) Fatta salva la lettera a) e le disposizioni seguenti del presente articolo, è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria.

 

Di fronte alla disposizione di questa direttiva che ricomprende nella definizione di trasferimento d’azienda un fenomeno giuridico ed economico ben definito di carattere genera e privo di specifiche eccezioni, la norma atta ad escludere in ogni caso il trasferimento in caso di conferimento in appalto di una struttura imprenditoriale, non aveva più diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento.

 

Si rendeva quindi necessaria una norma di legge che ferma l’autonomia della successione imprenditoriale nell’appalto, non escludesse a priori anche il ricorrere della fattispecie del trasferimento d’azienda.

Si provvedeva così a novellare il testo del comma 3 dell’articolo 29 del DLGS 276/2003 per renderlo conforme alla normativa comunitaria.

Mediante l’articolo 30, comma 1 della legge 7 luglio 2016 n.122 era così introdotto il nuovo testo del comma 3 del DLGS 276/2003  che così  stabilisce: “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

La suddetta modifica è stata, come già accennato,  introdotta dal legislatore italiano al fine di evitare una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea, in quanto la previgente disciplina era in aperto contrasto con i principi della Direttiva n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti; in sostanza, secondo le Istituzioni Europee, la normativa italiana non poteva escludere l’applicazione della disciplina di tutela prevista per i lavoratori nelle ipotesi di trasferimento d’azienda a casistiche del tutto assimilabili, come nel caso specifico il cambio d’appalto.

Di conseguenza, in virtù del novellato testo normativo, due sono gli elementi necessari e qualificanti per escludere la sussunzione del subentro nell’appalto nell’ambito della nozione giuslavoristica di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.: le qualità soggettive del soggetto subentrante e l’oggettiva “discontinuità imprenditoriale”.

Il primo requisito sembra essere di agevole interpretazione, in quanto appare evidente il richiamo alla necessità che il soggetto subentrante sia dotato di una propria ed autonoma organizzazione imprenditoriale e produttiva, con assunzione del conseguente rischio d’impresa, di modo che si possano ragionevolmente escludere le fattispecie di illegittima interposizione di manodopera. Il richiamo è alla disciplina di cui al comma 1 dell’art. 29, D.Lgs. n. 276/2003, ed il contenuto del comma 3 novellato appare in tal senso come un corollario dello sforzo del legislatore di distinguere le fattispecie nelle quali legittimamente un imprenditore decide di affidare ad un diverso ed autonomo soggetto l’esecuzione di opere o servizi complementari o comunque funzionali al proprio ciclo produttivo da quelle di mera fornitura di manodopera.

Il secondo requisito, ovvero gli “elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa”, appare quello che presenta maggiori difficoltà interpretative.

Volendo, come sembra proporre la sentenza oggetto di commento,  ravvisare la discontinuità imprenditoriale nell’utilizzo di diversi mezzi di lavoro, di fronte ad un’ evoluzione dell’impresa verso forme sempre più dematerializzate di strutture e di produzione, si finisce col demandare la sussistenza o meno del trasferimento d’azienda ad un esame spesso insignificante di strumenti di lavoro, escludendo l’esame dell’organizzazione e del capitale umano.

In tal modo, lo spirito della direttiva comunitaria rischia di essere stravolto a favore di un’interpretazione quanto mai casuale ed oggettiva dei requisiti del trasferimento d’azienda.

Ritiene chi scrive come la lettura della precedente sentenza n.12720/2017 della Corte di Cassazione fornisca un approccio maggiormente aderente alla direttiva comunitaria.

Come già accennato questa pronuncia precisa come il trasferimento della proprietà dei beni non debba essere considerato unico requisito indefettibile per trasformare il subentro nell’appalto nel trasferimento di ramo d’azienda.

Si ritiene infatti che di fronte ad un identità di azienda volta sempre di più verso caratteristiche immateriali ed ove predomina il capitale umano ed organizzativo, il riferimento all’identità aziendale vada principalmente  riferito alla tipologia dell’attività svolta in esecuzione dell’appalto oggetto di successione; Dunque, ove le prestazioni richieste all’appaltatore subentrante siano sostanzialmente analoghe o sovrapponibili a quelle già svolte dall’appaltatore uscente, allora il requisito della “discontinuità d’impresa” non potrà dirsi sussistente e l’acquisizione del personale addetto all’appalto dovrà essere ricondotto alla disciplina del trasferimento d’azienda. Ove invece l’attività richiesta all’appaltatore subentrante, sia ontologicamente diversa anche sotto l’aspetto organizzativo e delle professionalità richieste, da quella precedentemente svolta dall’appaltatore uscente, allora il requisito della discontinuità risulterà essere presente e la fattispecie risulterà estranea al perimetro del trasferimento d’azienda.

Occorre quindi, a giudizio di chi scrive, verificare volta per volta se l’oggetto dell’appalto ovvero le concrete modalità di realizzazione dell’opera o del servizio sono a tal punto disomogenee e non sovrapponibili da poter affermare che si tratta di qualcosa di diverso rispetto a quanto in precedenza realizzato dall’appaltatore uscente.

E’ evidente che, per rispettare i principi della Direttiva 2001/23/CE e per non svuotare completamente di senso il recente intervento del legislatore, alla nozione di “discontinuità d’impresa”, debba essere interpretato in maniera adeguatamente ampia, al punto da ritenere sufficiente la sola diversità quantitativa o la sola modifica dell’organizzazione del personale, in quanto la finalità della norma è evidentemente quella di delimitare le ipotesi di esclusione dall’ambito di applicazione dell’articolo 2112 c.c.; e comunque, la discontinuità deve riguardare l’organizzazione imprenditoriale dell’attività.

Una simile lettura si accompagna alla nozione di contratto di appalto che origina dall’articolo 1655 del codice civile e si arricchisce della previsione contenuta al comma 1 dell’articolo 29 del medesimo decreto legislativo, dove si legge:

“1. Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa.”

 

Dunque anche al fine di verificare nella cessione dell’appalto il sussistere della fattispecie del trasferimento d’azienda, l’analisi deve essere estesa all’organizzazione dei mezzi e del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché nell’assunzione del rischio di impresa.

In presenza della ormai frequente dematerializzazione degli gli elementi che costituiscono la reale azienda appaltatrice includendovi i rapporti giuridici che connotano l’appalto e che divengono alla cessazione dello stesso oggetto di cessione, seppure in modulo trilatero.

Per tale motivo, l’appalto cosiddetto “labour intensive” può  spesso coincidere con l’essenza dell’azienda trasferita a seguito della sostituzione di altro soggetto contrattuale nel contratto di appalto.

Fabio Petracci.

 

 

 

 

 

 

 

 

Con il decreto di marzo entra in vigore l’obbligo (onere) di vaccinazione per i sanitari.

L’articolo 4 del Decreto Aprile 2021 giunge al termine di un vivace dibattito in merito all’obbligatorietà del vaccino anti COVID per coloro che esercitano una professione sanitaria di contatto con l’utenza.

Ricordiamo come fosse stata riscontrata la contrapposizione tra coloro che proponevano il licenziamento di quei sanitari che non volessero sottoporsi al vaccino e dall’altra parte coloro che ritenevano non sussistere obbligo alcuno in forza del disposto dell’articolo 32 della Costituzione che escludeva l’esistenza dell’obbligo di trattamento sanitario in assenza di norma di legge che lo autorizasse.

Nel corso delle discussioni, era emersa una via mediana che, a prescindere dall’obbligatorietà del trattamento vaccinale , lo considerava un requisito fondamentale per rendere la prestazione in ambito sanitario; quindi una condizione per poter lavorare in quel settore.

Ne derivava, secondo questa opinione, che il dipendente che non risultava per qualsiasi causa, non vaccinato era inidoneo alla prestazione e poteva di conseguenza essere sospeso.

L’avvio della campagna vaccinale con i relativi intoppi che si sono verificati e l’attenzione dedicatavi dai Media, ha imposto al Governo l’avvio di misure più rigorose.

Con l’articolo 4 del Decreto Aprile 2021 è imposto per il personale sanitario che opera a contatto con i pazienti l’obbligo del vaccino anti COVID.

La misura assume carattere temporaneo finalizzata al completamento del piano di vaccinazione e comunque con termine al 31 dicembre 2021ed è rivolta agli esercenti le professioni sanitarie ed agli operatori di interesse sanitario operanti nelle strutture sanitarie, socio sanitarie, socio assistenziali, pubbliche e private, farmacie e parafarmacie e studi professionali.

Essa consiste nell’obbligo a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione del COVID.

E’ quindi meglio precisato che la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della prestazione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative.

La legge prevede poi un obbligo per gli ordini professionali e per i datori di lavoro di trasmettere entro cinque giorni dall’entrata in vigore del decreto, alle rispettive regioni l’elenco degli iscritti e degli operatori sanitari.

Ne segue un periodo di dieci giorni nel corso del quale, le Regioni provvederanno ad una verifica delle relative posizioni, segnalando alle ASL competenti eventuali inadempienze.

Quindi, nel caso di persistente inadempienza, le ASL provvederanno mediane apposito atto di accertamento a sospendere dal diritto a svolgere le prestazioni e le mansioni di appartenenza.

Da questo quadro sommario, possiamo trarre le seguenti considerazioni:

  1. Non è stato introdotto un obbligo generale di vaccinazione per coloro che lavorano a contatto con il pubblico, ma esclusivamente con il personale sanitario o parasanitario;
  2. L’obbligo è temporaneo;
  3. Impropriamente può parlarsi di obbligo, si tratta di un onere per chi vuole continuare a svolgere le proprie funzioni;
  4. La conseguenza del mancato adempimento non assume connotati disciplinari, ma semplicemente comprime il diritto a svolgere la propria professione e la proprie mansioni, con la conseguenza, almeno ad avviso di chi scrive, che il dipendente non vaccinato, assume il diritto ed il dovere di svolgere altre mansioni anche di carattere inferiore e solo in caso di mancato reperimento di queste ultime, il dipendente potrà non essere retribuito.