Utilizzo improprio dei permessi di cui alla legge 104/92 e licenziamento

L’utilizzo improprio dei permessi di cui alla legge 104/92 può giustificare il licenziamento del lavoratore.

È legittimo l’utilizzo dell’opera di un’agenzia investigativa qualora finalizzato a confermare i sospetti di un uso fraudolento dei permessi. Conferma questo orientamento una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 12/03/2024, n. 6468).

Cosa accade e cosa può fare il datore di lavoro di fronte ad un utilizzo dei permessi di cui alla legge 104/92 non coerente con le finalità della legge?

La fattispecie.

L’articolo 33 della legge 104/1992 comma 3 e 3 bis così stabilisce:

  1.   Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno, rispetto alla quale il lavoratore sia coniuge, parte di un’unione civile ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge, parente o affine entro il secondo grado. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un’unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità. Fermo restando il limite complessivo di tre giorni, per l’assistenza allo stesso individuo con disabilità in situazione di gravità, il diritto può essere riconosciuto, su richiesta, a più soggetti tra quelli sopra elencati, che possono fruirne in via alternativa tra loro. Il lavoratore ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone con disabilità in situazione di gravità, a condizione che si tratti del coniuge o della parte di un’unione civile di cui all’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, o del convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.

3-bis.    Il lavoratore che usufruisce dei permessi di cui al comma 3 per assistere persona in situazione di handicap grave, residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a quello di residenza del lavoratore, attesta con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell’assistito”.

Quindi la legge 104/92 impone al datore di lavoro un sacrificio ed un limite alla propria attività ed alla naturale corrispettività del rapporto di lavoro, sacrificio finalizzato a ragioni di solidarietà sociale a favore del lavoratore chiamato ad assistere un proprio familiare gravemente invalido.

In sostanza, l’assenza dal lavoro e la mancata prestazione trovano ragione e giustificazione in base alla stretta attinenza con tale finalità.

Al di fuori di tali limiti, si concretizza una condotta del lavoratore idonea a determinate condizioni di gravità a giustificare il licenziamento.

L’ipotesi disciplinare.

L’orientamento della Corte di Cassazione e dei giudici di merito è quello di ravvisare l’ipotesi disciplinare del licenziamento, ogniqualvolta non sussista uno stretto nesso causale tra l’attività svolta dal lavoratore nel corso del permesso e le necessità dell’assistito.

Ciò significa in primo luogo che non sussiste il nesso causale allorquando il lavoratore utilizzi il permesso per riposarsi dall’attività di assistenza prestata. Non è pertanto consentito un riposo che potrebbe definirsi “compensativo” dell’assistenza prestata in altri momenti, Non sussiste inoltre in tutti i casi in cui il lavoratore utilizzi il tempo concessogli per finalità che alcuna attinenza hanno con l’opera di assistenza.

Sussiste invece, il nesso e la giustificazione laddove il dipendente risulti assente per effettuare compere o commissioni per conto dell’assistito.

Non sussiste l’ipotesi disciplinare allorquando il lavoratore si sia momentaneamente assentato per una necessità urgente ed imprevista.

L’ipotesi di utilizzo fraudolento dei permessi qualora grave per durata o intenzionalità o reiterazione, giustifica il licenziamento per giusta causa.

Minimi discostamenti tra tempo di assistenza e durata del permesso ove contenuti e non reiterati possono dar luogo a sanzioni disciplinari minori.

Si fa presente che anche la mancata comunicazione dell’avvenuto ricovero dell’assistito che in base all’articolo 33 fa venir meno il diritto all’assistenza può costituire mancanza disciplinare che nei casi più gravi può dar luogo anche al licenziamento.

Come procedere.

L’accertamento.

L’onere di provare l’utilizzo improprio dei permessi grava sul datore di lavoro.

Normalmente gli accertamenti è consigliabile siano affidati ad una agenzia investigativa.

Sul punto meritano attenzione alcune cautele.

Se l’agenzia investigativa non può verificare e controllare l’effettuazione della prestazione del dipendente, essa può invece indagare condotte truffaldine che arrechino pregiudizio all’azienda.

Quindi ben potrà l’agenzia investigativa verificare la presenza e l’attività del lavoratore in permesso per fornire l’assistenza di cui alla legge 104/92.

Si ritiene però da molte parti che l’attività investigativa sia comunque soggetta alla disciplina in materia di trattamento dei dati e quindi, secondo quanto disposto dall’articolo 4 n.1 e 2 del Regolamento 679/2016 – GDPR, l’investigatore potrà agire solo sulla base di concreti sospetti.

Si consiglia pertanto di dare atto di un tanto nella lettera con la quale viene conferito l’incarico all’agenzia investigativa sulla base di rilevati e concreti sospetti.

Alla fine della propria attività, l’investigatore dovrà redigere una relazione con i nominativi degli accertatori che potranno essere indicati in qualità di testi nell’eventuale procedimento di impugnazione del licenziamento.

La contestazione.

La procedura disciplinare di licenziamento è imperniata sulla lettera di contestazione che in apertura del procedimento deve essere inviata all’incolpato.

Si ricorda che per la validità del procedimento, la contestazione di addebito deve individuare in maniera chiara e specifica il fatto in merito al quale il lavoratore è chiamato a discolparsi.

Quindi dovranno essere indicate le giornate e l’ora di assenza dagli incombenti di cui alla legge 104/92 e preferibilmente anche le attività svolte in luogo della dovuta assistenza.

Molta attenzione dovrà essere posta alle giustificazioni poste dal lavoratore per verificare se siano idonee o meno a smentire l’esito degli accertamenti svolti.

Fabio Petracci

Cassazione – Giustificato Motivo Oggettivo – Soppressione della posizione lavorativa – Obbligo di Repechage.

Incombe sul datore di lavoro, in quanto ormai facoltizzato a dequalificare il lavoratore nel caso di soppressione del posto di lavoro e delle mansioni svolte, di fornire la prova dell’impossibilità di procedere alla dequalificazione del medesimo allo scopo di mantenergli il posto di lavoro.

Il testo integrale della sentenza della Corte di Cassazione.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO LUCIA – Presidente

Dott. PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI – Consigliere

Dott. GARRI FABRIZIA – Consigliere

Dott. AMENDOLA FABRIZIO – Rel. Consigliere

Dott. CASO FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 12532-2020 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, Vi.Co. 2, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO AIELLO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGM S.R.L., già AGM S.A.S. di B.B. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA De.Tr. 8, presso lo studio degli avvocati MARCO MARAZZA, MAURIZIO MARAZZA, DOMENICO DE FEO, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 943/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/03/2020 R.G.N. 4181/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consigli del 29/11/2023 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA

Svolgimento del processo

RILEVATO CHE

  1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado resa all’esito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha respinto l’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato il 18 maggio 2016 a A.A. dalla AGM S.a.s. di B.B. & C.;
  2. la Corte, premesso che alla dipendente erano affidate le mansioni di centralinista e che gli ulteriori compiti alla stessa attribuiti rivestivano il carattere di residualità e di occasionalità, ha ritenuto che, “da un lato, l’introduzione del sistema automatico di risposta telefonica, sia stato posto legittimamente dalla società quale elemento organizzativo produttivo integrante l’ipotesi di motivo oggettivo del licenziamento intimato, posto che, all’evidenza l’attività di smistamento delle telefonate è divenuta per la società non più proficuamente utilizzabile e, dall’altro, che le mansioni residuali ben potessero essere redistribuite all’interno dell’Ufficio”;
  3. “quanto all’adempimento dell’obbligo del repechage”, la Corte ha affermato che, “se e vero che l’onere probatorio della impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni – anche diverse purchÈ© equivalenti a quelle precedentemente svolte – spetta al datore di lavoro, È anche vero che, trattandosi di prova negativa, la prova relativa non può che essere fornita mediante risultanze probatorie di natura presuntiva, come l’inesistenza all’epoca del recesso di vuoti di organico, in riferimento alle stesse mansioni o a quelle equivalenti, o la mancata assunzione successivamente al licenziamento e per un periodo congruo di altri dipendenti con la medesima qualifica”; ha aggiunto che incombe sul lavoratore “un onere di allegazione relativamente all’indicazione delle circostanze di fatto idonee a dimostrare, o a far presumere, l’esistenza, nell’ambito della struttura aziendale, di posti di lavoro in cui potrebbe essere utilmente adibito, ponendo in tal modo la parte datoriale nella condizione di poter dimostrare concretamente per quale motivo l’inserimento del lavoratore nelle posizioni lavorative evidenziate non era praticabile”; la Corte, quindi, sulla base degli elementi acquisiti al giudizio, ha ritenuto provata “la impossibilità di utilizzare l’attività lavorativa della Santi in altro settore con mansioni equivalenti”;
  4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con quattro motivi; ha resistito con controricorso la società;

entrambe le parti hanno comunicato memorie;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si È riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

Motivi della decisione

CONSIDERATO CHE

  1. il primo motivo di ricorso denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3della legge n. 604 del 1966(Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.). In ordine alla legittimità della scelta datoriale di perseguire un maggior profitto”; si critica l’orientamento di legittimità maturato a partire da Cass. n. 25201 del 2016;

il motivo non può trovare accoglimento; oltre al profilo di inammissibilità derivante dalla circostanza che la doglianza non si misura con l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, atteso che la Corte territoriale ha ritenuto giustificata la soppressione del posto di lavoro dovuta non ad una mera ricerca del profitto, bensì ad una modifica organizzativa scaturita da una innovazione tecnologica, la censura È comunque infondata alla luce di un oramai pluriennale orientamento di questa Corte, che va ribadito (tra le altre: Cass. n. 25201 del 2016Cass. n. 10699 del 2017Cass. n. 31158 del 2018Cass. n. 19302 del 2019Cass. n. 3908 del 2020Cass. n. 3819 del 2020Cass. n. 2234 del 2020Cass. n. 41586 del 2021Cass. n. 14840 del 2022Cass. n. 33892 del 2022; Cass. n. 37946 del 2022Nu Cass. n. 752 del 2023Cass. n. 1960 del 2023);

il Collegio non riscontra elementi per mutare il richiamato orientamento (cfr. art. 360 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.), atteso che, una volta che l’interpretazione della reguia iuris È stata enunciata con l’intervento nomofilattico della Corte regolatrice, essa “ha anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374 c.p.c.) e 2009 (art. 360 bis c.p.c., n. 1)” (Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011); invero, la ricorrente affermazione nel senso della non vincolatività del precedente deve essere armonizzata con l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale attraverso il ruolo svolto dalla Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014), atteso che, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, il quale influisce positivamente anche sulla riduzione del contenzioso, vi È l’esigenza, avvertita anche dalla dottrina, “dell’osservanza dei precedenti e nell’ammettere mutamenti giurisprudenziali di orientamenti consolidati solo se giustificati da gravi ragioni” (in termini: Cass. SS.UU. n. 11747 del 2019; conf. Cass. n. 2663 del 2022), nella specie non ravvisabili, tenuto altresì conto della primaria necessità di garantire – ai cittadini che si rivolgano al giudice per tutelare analoghe situazioni soggettive – delle condizioni di effettiva eguaglianza innanzi alla legge; ne consegue che, in mancanza di ragioni nuove e diverse da quelle disattese nei giudizi analoghi, deve operare il principio di fedeltà ai precedenti, come più volte ribadito da questa Corte sulla base delle considerazioni che precedono (cfr., tra innumerevoli, Cass. n. 14204 del 2023, in materia di interpretazione di contratti collettivi; Cass. n. 11938 del 2023, Cass. n. 9749 del 2023 e Cass. n. 6840 del 2023, in materia di prescrizione; Cass. n. 6668 del 2023 e Cass. n. 6653 del 2023, in materia di cd. “doppia retribuzione” conseguente a cessione di ramo d’azienda; Cass. n. 3868 del 2023, in materia di vittime del dovere; Cass. n. 22168 del 2022, in materia di decadenza ex art. 32, comma 4, lett. d) l. n. 183/2010Cass. n. 10729 del 2023, Cass. n. 35666 d 2021, Cass. n. 22249 del 2021, Cass. n. 18948 del 2021 e Cass. n. 7364 del 2021, in materia di art. 2112 c.c.; Cass. n. 21569 del 2019, in materia di indennità cd. “De Maria”; Cass. n. 6668 del 2019, in materia di somministrazione; Cass. n. 26671 del 2018, in materia di ammissione di crediti al passivo del fallimento);

  1. il secondo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3della legge n. 604 del 1966(Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) per la possibilità di utilizzo parziale della prestazione lavorativa della ricorrente con modalità part time”;

la doglianza non può essere condivisa; non È in discussione che, ai fini della configurabilità della ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante il giustificato motivo oggettivo di recesso, non È necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, nel senso della loro assoluta e definitiva eliminazione nell’ottica dei profili tecnici e degli scopi propri dell’azienda di appartenenza, atteso che le stesse ben possono essere soltanto diversamente ripartite e attribuite nel quadro del personale già esistente, secondo insindacabili e valide, o necessitate, scelte datoriali relative ad una ridistribuzione o diversa organizzazione imprenditoriale, senza che detta operazione comporti il venir meno della effettività di tale soppressione (in questo senso costante giurisprudenza risalente, tra cui v. Cass. n. 8135 del 2000Cass. n. 13021 del 2001Cass. n. 21282 del 2006, citate anche da Cass. n. 11402 del 2012, richiamata da parte ricorrente a sostegno del gravame);

si È pure affermato che la soppressione parziale del posto presuppone ed implica ex se che ci sia una (maggiore o minore) attività residuale che il lavoratore licenziato potrebbe continuare a svolgere per il solo fatto che già la espletava in precedenza; ed allora il datore di lavoro non può senz’altro respingere questa parziale utilità residuale della prestazione lavorativa, ma deve prima verificare la residuale concreta utilità della prestazione lavorativa del dipendente eventualmente in part time, nel senso che la redistribuzione delle mansioni tra altri dipendenti rimarrà pur sempre possibile, ma solo dopo che sia stata esclusa, per ragioni tecnico-produttive, la possibilità di espletamento, ad opera del lavoratore solo parzialmente eccedentario, della parte di prestazione lavorativa liberatasi per effetto della parziale soppressione del posto ricoperto (cfr. Cass. n. 6229 del 2007);

È tuttavia successivamente precisato che, al fine di ritenere la possibilità di un utilizzo parziale del lavoratore nella medesima posizione lavorativa, se del caso ridotta con l’adozione dei part time, è necessario che le mansioni diverse da quelle soppresse rivestano, nell’ambito del complesso dell’attività lavorativa svolta, una loro oggettiva autonomia, non risultino cioè intimamente connesse con quelle (prevalenti) soppresse, in modo che possa ritenersi che il residuo impiego, anche part time, nelle mansioni non soppresse, non finisca per configurare la creazione di una diversa ed autonoma posizione lavorativa, con indebita alterazione dell’organizzazione produttiva; in altri termini l’attività – pur minoritaria – non oggetto di soppressione dovrebbe qualificarsi in termini di effettiva autonomia, sÌ da poter ritenere che la posizione lavorativa fosse connotata in termini di affiancamento di diverse mansioni, ciascuna delle quali indipendente e distinta – anche in termini logistici e temporali – dallo svolgimento dell’altra e non già intimamente connesse fra loro, come dovrebbe invece ritenersi laddove le mansioni non soppresse fossero svolte in via sostanzialmente ausiliaria o complementare di quelle oggetto di soppressione (in termini, Cass. n. 11402/2012 cit.); evidentemente, il necessario carattere di oggettiva autonomia del complesso delle mansioni non soppresse, al fine di non configurare la creazione di una diversa ed autonoma posizione lavorativa, con indebita alterazione dell’organizzazione produttiva, deve essere escluso non solo allorché risultino intimamente connesse con quelle (prevalenti) soppresse, ma anche quando – come nella specie stato accertato dalla Corte territoriale – abbiano un carattere residuale non quantitativamente rilevante, occasionale, promiscuo e ancillare rispetto ai compiti di altri dipendenti;

  1. col terzo mezzo si lamenta la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3della legge n. 604 del 1966(Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) e dell’art. 2103 c.c. In ordine alla mancata prova del repechage”; si censura la sentenza impugnata per l’erroneo riparto degli oneri di allegazione e prova del repechage, imponendo alla lavoratrice un onere di allegazione non dovuto; si eccepisce che, in ragione del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., in seguito alle modifiche introdotte dall’art. 3 del D.Lgs. n. 81 del 2015, “l’ampiezza dell’obbligo di repechage abbraccia tutte quelle posizioni lavorative che siano riconducibili allo stesso livello e categoria possedute dal lavoratore passibile di licenziamento”;

con l’ultimo motivo si denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 (Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) e dell’art. 2103 c.c. In ordine al repechage in mansioni inferiori”; si eccepisce che, nonostante la questione fosse stata posta sin dall’atto introduttivo del giudizio e coltivata nel suo seguito, “la Corte romana non si sia curata della necessaria allegazione e prova della possibilità di repechage in mansioni inferiori”;

  1. il Collegio reputa fondati tali motivi di ricorso, da valutare congiuntamente per reciproca connessione;

4.1. l’affermazione dei giudici d’appello secondo cui incomberebbe sul lavoratore un onere di allegazione circa “l’esistenza, nell’ambito della struttura aziendale, di posti di lavoro in cui potrebbe essere utilmente adibito” contrasta con una oramai consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (ab imo: Cass. n. 5592 del 2016);

4.2. parimenti, la sentenza impugnata mostra di ritenere come riportato nello storico della lite – che l’onere di prova l’impossibilità di ricollocare il lavoratore da licenziare sia limitato alla possibilità che quest’ultimo possa svolgere mansioni comunque equivalenti a quelle precedentemente espletate, trascurando che, per condivisa giurisprudenza di questa Corte, l’indagine va estesa anche all’impossibilità di svolgere mansioni anche inferiori (da ultimo v. Cass. n. 31561 del 2023, cui si rinvia per ogni ulteriore aspetto, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.);

invero, sin da Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998, È stato sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; l’arresto riposa sull’assunto razionale dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto; il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, È stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (Cass. n. 21579 del 2008Cass. n. 4509 del 2016Cass. n. 29099 del 2019Cass. n. 31520 del 2019); È stato, così, affermato che il datore, prima di intimare il licenziamento, È tenuto a ricercare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore (cfr. Cass. n. 10018 del 2016; v. pure Cass. n. 23698 del 2015, Cass. n. 4509 del 2016Cass. n. 29099 del 2019);

  1. la sentenza impugnata sulla violazione dell’obbligo di repechage non si È attenuta ai richiamati principi, per cui, respinti i primi due motivi di ricorso, devono essere accolti gli altri, con cassazione della pronuncia in relazione alle censure ritenute fondate e rinvio alla Corte indicata in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, regolando anche le spese del giudizio di legittimità;

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo ed il quarto motivo di ricorso e rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese.

Conclusione

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 29 novembre 2023.

Depositatao in Cancelleria il 30 gennaio 2024.

Corte Costituzionale. Verso un ulteriore ridimensionamento del Jobs Act sulle tutele crescenti.

Corte Costituzionale – Sentenza n.22/2024 – Questione di legittimità costituzionale articolo 2, primo comma del DLGS 4 marzo 2015 n.23 – nullità del licenziamento – reintegrazione – ammissibilità a prescindere dalla tassatività delle disposizioni di legge in materia.

La Corte Costituzionale è chiamata dalla Corte di Cassazione Sezione Lavoro con ordinanza del 7 aprile 2023 a pronunciarsi in merito alla illegittimità costituzionale dell’articolo 2 DLGS 4 marzo 2015 ( Jobs Act) laddove restringe le ipotesi di nullità del licenziamento e di conseguente reintegra ai casi tassativamente ivi indicati.

Ha ritenuto la Corte di Cassazione quale giudice remittente che sul punto il DLGS 4 marzo 2015 n.23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della L. 10 dicembre 2014, n. 183) abbia violato l’articolo 76 della Carta Costituzionale per difformità rispetto alla delega contenuta nella legge 10 dicembre 2014 n.183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro).

Il caso concreto riguardava un dipendente da una società di trasporto pubblico che era stato licenziato – destituito senza passare come da sua richiesta per il Consiglio di Disciplina (che pare non fosse stato istituito)  senza quindi  il rispetto delle procedure previste dal RD 8 gennaio 1931 n.148 (Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione).

La Cassazione si vedeva quindi limitata sulla base della vigente normativa ritenuta incostituzionale, a riconoscere in base al Jobs Act alla lavoratrice esclusivamente un risarcimento pari a sei mensilità.

In pratica il recesso senza quel passaggio procedurale non avrebbe potuto dar luogo ad una causa di nullità del recesso, in quanto l’articolo 2 del DLGS 23/2015 ( Jobs Act – Tutele Crescenti) non lo prevedeva come espresso caso di nullità del licenziamento.

La Corte Costituzionale anche sulla base di queste ragioni ha ritenuto ‘incostituzionalità dell’articolo 2 del DLGS n.23/2015 per violazione dell’articolo 76 della Costituzione nel punto in cui eccedendo alla delega rappresentata dall’articolo 1 comma 7, lettera c) della legge 183/2014 stabilisce che le forme di nullità del recesso debbano essere quelle previste espressamente dalla legge.

Ne deriva che qualunque violazione di norme imperative di legge comporta ormai la nullità del licenziamento e la conseguente reintegra.

Notiamo che mano a mano, la Corte Costituzionale ridimensiona alla luce dell’ordinamento generale le modifiche introdotte in tema di licenziamenti dalla legge 92/2012 e successivamente dalle cosiddette tutele crescenti previste dal DLGS 23/2015.

Poiché gli interventi della Consulta avvengono in base a specifiche ordinanze di rimessione dei singoli giudici, riteniamo possibili ulteriori graduali interventi.

Lo stesso DLGS 23/2015 all’articolo 4 prevede espressamente che qualora il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto.

Non vi è dubbio, a giudizio di chi scrive, che la mancanza di motivazione di un provvedimento come il licenziamento venga a violare norme imperative di legge e principi dell’ordinamento nazionale e comunitario.

L’articolo 24 della Carta Sociale Europea prevede il diritto di tutela nel caso di licenziamento e, la presenza di un valido motivo.

Attento esame merita pure, anche se non di provenienza comunitaria, la convenzione OIL n.158/1982.

Essa pone limiti di livello internazionale alla facoltà di licenziare.

La convenzione si snoda in una serie compiuta di previsioni che risultano complete e precise.

L’articolo 4 nel riaffermare l’obbligo della motivazione , rispetto alla normativa comunitaria sinora esposta, specifica quali debbano essere i motivi leciti di recesso che devono essere limitati all’attitudine o alla condotta del lavoratore o alle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Il testo dell’articolo 4 della convenzione OIL n.158/1982 è il seguente:

Un lavoratore non dovrà essere licenziato senza che esista un motivo valido di licenziamento legato all’attitudine o alla condotta del lavoratore, o fondata sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Sul successivo articolo 7, si fonda un ulteriore principio che restringe ulteriormente nell’ambito della valutazione dei casi di non attitudine o cattiva condotte , la valutazione a talune ipotesi di carattere generale ed impone a garanzia dell’incolpato delle procedure di difesa-

Così si legge all’articolo 7: Un lavoratore non dovrà essere licenziato per motivi legati alla sua condotta o al suo lavoro prima che gli sia stata offerta la possibilità di difendersi contro le accuse formulate.

Quindi non è escluso che il prossimo appuntamento con la Consulta non riguardi il diritto alla reintegra nel caso di licenziamento privo di motivazione.

Fabio Petracci

Decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in corso di rapporto di lavoro

Con la sentenza 36197/2023, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite è chiamata a pronunciarsi sui seguenti quesiti:

  1. se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto, a termine o a tempo indeterminato, o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell’ultimo, come accade nel lavoro privato;
  2. se, nell’eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita da stabilizzazione presso la stessa P.A. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione;

L’attualità del tema è data dall’entrata in vigore della legge 92 del 2012 e quindi del DLGS n.23/2015 che in caso di licenziamento illegittimo nella maggioranza dei casi hanno fatto venir meno l’ipotesi della conseguente reintegra.

Di seguito, la Corte di Cassazione con la sentenza n.26246 del 2022 ha stabilito che, in assenza della tutela reale, poteva in ogni caso ritenersi incombente sul lavoratore il timore della conseguente reazione datoriale e quindi la prescrizione doveva ritenersi operante a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ora lo stesso tema si pone nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato.

Va notato in proposito che dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali con l’articolo 21 del decreto Madia era affermata nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni la piena applicabilità della legge sui licenziamenti nel testo originale che prevedeva la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo per il personale non dirigente e dirigente.

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, è chiamata ad affrontare il tema che già sul presupposto della confermata stabilità del posto di lavoro pubblico in base all’articolo 21 del decreto Madia dovrebbe trovare soluzione nel senso di consentire il decorrere della prescrizione in corso di rapporto di lavoro.

La Corte affronta però il tema della decorrenza della prescrizione nel caso di reiterazione di contratti a termine nell’ambito del settore pubblico.

Essa ribadisce per il pubblico impiego, la regola già vigente della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro in nome della peculiarità tuttora persistente tra lavoro alle dipendenze dei privati e delle pubbliche amministrazioni anche in forza dei principi fondamentali contenuti nell’articolo 97 della Costituzione.

Secondo le Sezioni Unite “La privatizzazione non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato. In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell’impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (D.Lgs. n. 165 del 2001art. 51, comma 2 e, all’attualità, D.Lgs. cit., art. 63, comma 2), che, in punto di eccezionalità del lavoro a termine (secondo la disciplina speciale dell’art. 36 D.Lgs. cit.)…” (Cass. 19 novembre 2021, n. 35676, in motivazione sub p.to 42, così, massimata: “In tema di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorre in costanza di rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela”).

Fabio Petracci

Il termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento del procedimento disciplinare

Con l’ordinanza n. 33382/2023 la Corte di Cassazione in tema di procedimento disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, ha ritenuto che il termine di 120 giorni tassativamente prescritto per concludere a pena di decadenza il procedimento disciplinare decorra dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione che coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia medesima è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora”.

Ove non sia possibile individuare un dirigente o un responsabile dell’Ufficio interessato competente, il termine per concludere il procedimento disciplinare non può che decorrere, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001art. 55 bis, comma 4, secondo e terzo periodo, dalla data in cui la notizia dell’illecito è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari.

La pronuncia prende in esame un caso verificatosi in data anteriore al DLGS 75/2017 (Riforma Madia) che ha apportato importanti innovazioni all’impianto disciplinare del pubblico impiego, modificando sensibilmente l’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 che scandisce i termini del procedimento disciplinare.

A seguito della riforma Madia, solo i termini di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare sono perentori, mentre la violazione di altri termini nell’ambito del procedimento, non comportano la decadenza dall’azione disciplinare, a meno che non ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente.

La nuova normativa che va ad innovare l’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 prevede che, nel caso in cui il fatto addebitato abbia una conseguenza disciplinare superiore al rimprovero verbale, il Responsabile della struttura entro dieci giorni, segnala il fatto all’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UDP) e quindi quest’ultimo con immediatezza e comunque non oltre trenta giorni dal ricevimento della segnalazione , provvede a trasmettere la contestazione scritta dell’addebito al dipendente, convocandolo con un preavviso di dieci giorni per l’audizione disciplinare.

Quindi, l’UDP conclude il procedimento con l’atto di archiviazione o con l’irrogazione della sanzione, entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito.

A questo punto, dopo la riforma attuata con il decreto legislativo Madia DLGS 75/2017, gli unici due termini tassativamente previsti a pena di decadenza sono il termine di avvio del procedimento ( invio all’Ufficio Disciplinare 10 giorni) ed il termine di conclusione del procedimento 120 giorni dall’avvio dee contestazione.

Quindi, a seguito della riforma Madia,  il termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare non è più ancorato alla data della prima acquisizione della notizia dell’infrazione, come precedentemente stabilito al vecchio testo dell’articolo 55 bis DLGS 165/2001, ma è riferito ad una data più chiara e facilmente individuabile data dalla “contestazione dell’addebito fatta dall’UPD” al lavoratore.

Fabio Petracci

Nullo il licenziamento di lavoratrice madre in caso di fallimento dell’azienda con continuazione di fatto dell’attività

In caso di fallimento dell’azienda, pur in assenza di un provvedimento di autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa, la prosecuzione dell’attività aziendale rende nullo il licenziamento irrogato alla lavoratrice madre.

Il principio è affermato dalla Suprema Corte con una recente pronuncia – Cassazione Sezione Lavoro 19.12.2023 n.35527.

L’articolo 54 del DLGS 151/2001 vieta il licenziamento della lavoratrice madre dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro e comunque sino al compimento di un anno di età del bambino.

La normativa prevede al comma 3 una serie di eccezioni tra le quali alla lettera b) il caso di cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta.

La Cassazione (Cassazione Sezione Lavoro 11.11.2021 n.33368 ) aveva già a suo tempo precisato come affinché tale eccezione si concretizzi debba verificarsi la totale cessazione dell’attività dell’azienda, trattandosi di norma che pone un’eccezione ad un principio di carattere generale (come il divieto di licenziamento di cui all’articolo 54 DLGS 151/2001) , essa non può essere di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica.

L’articolo 104 del RD 267/1942 (legge fallimentare) stabilisce come una volta dichiarato il fallimento, il Tribunale possa disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa.

Nel caso di specie come riferito nella sentenza che si annota, l’azienda nonostante il fallimento e la mancata autorizzazione alla prosecuzione dell’attività, continua a svolgere la propria attività.

Non si tratta quindi di cessione d’azienda o dell’operare di una nuova azienda, ma bensì di una prosecuzione di fatto sebbene non autorizzata dal Tribunale.

La Corte di Cassazione con la già accennata sentenza supera questo ostacolo in primo luogo escludendo che la deroga ad un principio generale ( divieto di licenziamento nel corso del periodo di maternità indicato dalla legge) mediante l’interpretazione estensiva o analogico dell’eccezione legale (cessazione dell’attività aziendale).

Essa opera inoltre un richiamo di carattere più generale in riferimento della necessità di sanzionare quei trattamenti penalizzanti che possono essere riservati alle donne coniugate, in gravidanza, o ancora con figli in età prescolare,  richiamandosi anche alla prima legge sulla parità di trattamento (L. n. 903 del 1977art. 1, comma 2), la quale vietava qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, per quanto riguarda l’accesso al lavoro, anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza, nonché , alla disciplina che vieta di licenziare la lavoratrice in stato di gravidanza dal momento del concepimento sino al compimento del primo anno di vita del bambino (regolato dapprima dalla L. n. 1204 del 1971, oggi trasfuso nel D.Lgs. n. 151 del 2001art. 54).

Ma il richiamo va pure alla disciplina generale del Codice delle pari opportunità, come riformato dal D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, il quale, nel recepire la Direttiva 2006/54/CE, relativa al principio di pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego, ha provveduto ad una parziale modifica del vigente Codice.

Fabio Petracci

Le tutele previste per il lavoratore in caso di patto di prova nullo

Il recesso intimato in assenza di valido patto di prova equivale ad un ordinario licenziamento, assoggettato – nel regime introdotto dal Jobs Act – alla regola generale della tutela indennitaria: così afferma la sentenza n. 20239 del 14.07.2023 della Suprema Corte di Cassazione.

Nel dettaglio, nel caso affrontato una dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatole per mancato superamento del patto di prova.

Sul piano delle conseguenze connesse al licenziamento ad nutum intimato dal datore di lavoro in relazione ad un patto di prova nullo, è stato chiarito che la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966.

In presenza di un patto di prova invalido la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalla legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.

Per costante enunciato del giudice di legittimità, infatti, il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova (venuto invece a scadenza), si configura come licenziamento individuale non distinguibile da ogni altro licenziamento della stessa natura e regolato – ove intimato a carico di lavoratore fruente della tutela della stabilità del posto – dalla disciplina comune per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di legittimità e soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o del giustificato motivo (Cass. n. 16214 del 2016, Cass. n. 7921 del 2016, Cass. n. 21506 del 2008, Cass. n. 17045 del 2005, Cass. n. 2728 del 1994).

In base a tale ricostruzione, il potere esercitato dal datore di lavoro non risulta radicalmente insussistente ma è soggetto alle limitazioni connesse al principio di causalità e tipicità del licenziamento, non venendo in rilievo l’an ma solo il quomodo del relativo esercizio.

Quando il dipendente pubblico diviene assolutamente e permanentemente inabile al lavoro

Normalmente nell’ambito del rapporto di lavoro regolato dalla disciplina del Codice civile, l’impossibilità della prestazione determina la risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.

Nell’ambito del pubblico impiego, ormai disciplinato per la gran parte dalle ordinarie leggi del lavoro, l’impossibilità assoluta alla prestazione comporta analoga conseguenza.

La peculiarità dell’impiego pubblico e le regole di stabilità che lo contraddistinguono comportano però un assetto maggiormente complesso del provvedimento.

La previsione di legge specifica è individuata nell’articolo 55-octies del DLGS 165/2001 testo unico del Pubblico Impiego.

La normativa vigente

L’articolo 55-octies del DLGS 165/2001 stabilisce alcune norme basilari, affermando come l’accertata e permanente inidoneità permanente al servizio consente all’amministrazione la risoluzione del rapporto.

Procedura ed effetti però sono disciplinati dal D.P.R. 27-7-2011 n. 171- Regolamento di attuazione in materia di risoluzione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche dello Stato e degli enti pubblici nazionali in caso di permanente inidoneità psicofisica, a norma dell’articolo 55-octies del DLGS 165/2001.

L’articolo 2 del DPR fornisce la definizione dell’inidoneità psicofisica che viene a seconda degli effetti ad essere suddivisa in

  1. inidoneità psicofisica permanente assoluta lo stato di colui che a causa di infermità o difetto fisico o mentale si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa;
  2. inidoneità psicofisica permanente relativa, lo stato di colui che a causa di infermità o difetto fisico o mentale si trovi nell’impossibilità permanente allo svolgimento di alcune o di tutte le mansioni dell’area, categoria o qualifica di inquadramento.

L’inidoneità, in questo caso, deve essere oggetto di una procedura di accertamento disciplinata dall’articolo 3 del citato DPR.

Chi e come si attiva la procedura

L’avvio della procedura di norma compete all’amministrazione, ma essa può essere avviata anche ad iniziativa del dipendente.

La pubblica amministrazione è tenuta ad attivare la procedura nei seguenti casi:

  1. assenza del dipendente per malattia, superato il primo periodo di conservazione del posto previsto nei contratti collettivi di riferimento;
  2. disturbi del comportamento gravi, evidenti e ripetuti, che fanno fondatamente presumere l’esistenza dell’inidoneità psichica permanente assoluta o relativa al servizio;
  3. condizioni fisiche che facciano presumere l’inidoneità fisica permanente assoluta o relativa al servizio.

La procedura di accertamento

L’articolo 4 prevede pure apposita procedura e stabilisce che:

  1. L’accertamento dell’inidoneità psicofisica è effettuato dagli organi medici competenti in base agli articoli 6, 9 e 15 del decreto del Presidente della Repubblica n. 461 del 2001;
  2. Gli organi medici possono avvalersi per specifici accertamenti, analisi o esami del Servizio sanitario nazionale.
  3. È previsto anche un accertamento preliminare in quanto, l’amministrazione, prima di concedere l’eventuale ulteriore periodo di assenza per malattia, dandone preventiva comunicazione all’interessato, procede all’accertamento delle condizioni di salute dello stesso, per il tramite dell’organo medico competente, al fine di stabilire la sussistenza di eventuali cause di permanente inidoneità psicofisica assoluta o relativa. Quindi, l’amministrazione può chiedere che il dipendente sia sottoposto a visita da parte dell’organo medico competente, al fine di verificare l’eventuale inidoneità relativa o assoluta, dandone immediata e contestuale comunicazione al dipendente interessato, ferma restando la possibilità di risoluzione del rapporto di lavoro in caso di superamento del periodo di comporto previsto dai contratti collettivi di riferimento.

Nel caso di accertamento di invalidità assoluta e permanente, l’Amministrazione procede alla risoluzione del rapporto con pagamento del preavviso.

La sospensione cautelare

Capita spesso che nelle more dell’accertamento, l’amministrazione non riesca ad utilizzare il dipendente senza rischi per i colleghi, l’utenza ed il dipendente stesso.

In questo caso, può essere disposta la sospensione cautelare del dipendente provvedimento che, non avendo carattere disciplinare – punitivo, ne comporta l’integrale retribuzione (articolo 6 D.P.R. 27-7-2011 n. 171).

I casi per procedere alla sospensione cautelare sono i seguenti:

  1. in presenza di evidenti comportamenti che fanno ragionevolmente presumere l’esistenza dell’inidoneità psichica, quando gli stessi generano pericolo per la sicurezza o per l’incolumità del dipendente interessato, degli altri dipendenti o dell’utenza, prima che sia sottoposto alla visita di idoneità;
  2. in presenza di condizioni fisiche che facciano presumere l’inidoneità fisica permanente assoluta o relativa al servizio, quando le stesse generano pericolo per la sicurezza o per l’incolumità del dipendente interessato, degli altri dipendenti o dell’utenza, prima che sia sottoposto alla visita di idoneità;
  3. in caso di mancata presentazione del dipendente alla visita di idoneità, in assenza di giustificato motivo.

Conservazione del posto e trattamento economico

Il DPR citato al successivo articolo 7 tratta del trattamento economico di fronte a queste situazioni.

Di fronte ad ipotesi di inabilità parziale, l’amministrazione prima di procedere al licenziamento deve cercare di applicare il dipendente a mansioni anche inferiori.

L’articolo 8 affronta proprio il caso delle conseguenze sul rapporto di lavoro dell’inidoneità permanente psicofisica al servizio.

In tal caso, l’amministrazione previa comunicazione all’interessato entro 30 giorni dal ricevimento del verbale di accertamento medico, risolve il rapporto di lavoro e corrisponde, se dovuta l’indennità sostitutiva del preavviso.

In tal caso, resta ferma la disciplina vigente in materia di trattamenti pensionistici per inabilità, ivi compresa quella recata dalla legge 8 agosto 1995, n. 335 e dal decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092.

Rimane salvo quanto previsto dal decreto del Presidente della Repubblica n. 461 del 2001 e successive modificazioni, nonché dal decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965 e del decreto legislativo n. 38 del 2000 in materia di infortuni sul lavoro.

Per pervenire alla dichiarazione di inabilità assoluta al lavoro, è prevista apposita procedura descritta dalla Circolare del Ministero della Difesa (le Commissioni sono quelle militari) con nota 1° ottobre 2020, prot. n. 56967 avente ad oggetto: assenze dal servizio per malattia – Procedura di verifica dell’idoneità al servizio del dipendente – Posizione di stato ricoperta dal dipendente per il periodo in cui resta in attesa della visita medica presso l’organo medico competente.

La procedura avviene in ogni caso per il tramite dei competenti organi di verifica sulla base degli articoli 6 – 9 del DPR 461/2001 che all’articolo 15 estende le procedure relative al riconoscimento della causa di servizio alle pratiche di inabilità.

Gli Organi Competenti per la valutazione sono la Commissione Medica Ospedaliera (C.M.O.), la Commissione Medica di Verifica (C.M.V.) e la Commissione Medica dell’Azienda sanitaria locale territorialmente competente ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. n. 461/2001.

Il rapporto di lavoro durante la fase di accertamento

La durata degli accertamenti e talune pronunce interlocutorie come il ricorrere di responsi di inabilità assoluta e temporanea con successivo giudizio della locale commissione portano a dilatarsi i tempi di accertamento.

Si verificano così problematiche inerenti al rapporto di lavoro nel corso degli accertamenti.

Normalmente, il dipendente durante detti periodi può essere collocato in malattia ove però lo stesso sia coperto da valida certificazione che ne attesti l’inidoneità al lavoro.

Pertanto, in conseguenza delle modifiche introdotte dal D.P.R. n. 171/2011 citato , l’intervallo di tempo che intercorre tra il periodo di attesa della visita medica di idoneità al servizio e la pronuncia da parte della Commissione Medica competente (“periodo a disposizione della C. M”), non costituisce autonoma causa di sospensione del rapporto di lavoro, ma rientra – e trova adeguata regolamentazione – nella disposizione generale prevista dalla contrattazione collettiva in applicazione della quale il suddetto periodo può essere imputato giuridicamente ad assenza per malattia soltanto ed esclusivamente a condizione che sussista idonea certificazione sanitaria (certificato medico o verbale della C. M.) attestante la temporanea incapacità al lavoro del dipendente, con conseguente inserimento, in tal caso, dei relativi giorni nel computo della determinazione del periodo di comporto e delle decurtazioni economiche previste dalla contrattazione collettiva.

Al di fuori della suddetta ipotesi, e cioè in difetto di certificazione sanitaria attestante la temporanea incapacità al lavoro, il dipendente, per tutto il periodo di attesa della visita medica, deve considerarsi idoneo al servizio ed è, di conseguenza, tenuto a prestare attività lavorativa almeno sino al giudizio dell’organo sanitario competente, dal cui esito definitivo (idoneità, oppure temporanea inidoneità) dipende la posizione di stato in cui il dipendente sarà collocato per il successivo periodo, salvo sia giudicato permanentemente inidoneo in modo assoluto al servizio.

Durante l’assenza decorre il comporto

Ci si chiede se durante dette assenze decorra il periodo di comporto.

Secondo l’ARAN, interpellata sul punto, la risposta è positiva.

Tra i quesiti posti all’ARAN sul tema era chiesto se ai fini del beneficio dell’esclusione dal computo dei giorni di assenza per malattia nel periodo di comporto di cui alla contrattazione collettiva, fosse sufficiente che l’assenza fosse dovuta a gravi patologie.

Rispondeva l’ARAN che per l’applicazione dei benefici previsti dall’art. 47, comma 8, del CCNL del 17/05/2004, che prevede l’esclusione dal computo dei giorni di assenza per malattia ai fini del periodo di comporto e la retribuzione al 100%, era richiesta, oltre alla presenza di gravi patologie, la contestuale necessità di effettuazione di terapie salvavita: i due elementi, tra loro inscindibili, costituiscono, a giudizio dell’ARAN, il presupposto per l’applicazione della disciplina più favorevole.

Pertanto, ai fini della concessione del beneficio, deve risultare che il lavoratore sia affetto da grave patologia e che lo stesso debba sottoporsi alle relative terapie salvavita.

La disciplina dell’inabilità nel Comparto Scuola

Per quanto riguarda il comparto scuola dove, comunque vigono spesso normative specifiche, notiamo come la norma collettiva preveda che il dipendente assente per malattia ha diritto alla conservazione del posto per un periodo di diciotto mesi.

Allo scadere di tale termine il lavoratore, in casi di particolare gravità comprovati da idonea documentazione medica, può presentare al dirigente un’istanza finalizzata alla concessione di un ulteriore periodo di conservazione del posto, pari ad altri diciotto mesi, senza corresponsione di alcuna retribuzione.

A tale richiesta non corrisponde in capo al lavoratore alcun diritto soggettivo alla proroga del periodo di comporto. Al termine del primo periodo, nelle more dell’iniziativa datoriale finalizzata all’effettuazione della visita di idoneità, infatti, il dipendente è tenuto a presentarsi al lavoro una volta cessato lo stato di malattia

Il superamento dei periodi di conservazione del posto è, dunque, condizione sufficiente a legittimare il recesso (comma 4 del citato art. 17).

L’adozione del provvedimento di risoluzione rientra tra gli atti di gestione del rapporto di impiego ed è di competenza del dirigente scolastico il quale, al contemporaneo verificarsi dei presupposti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva (ossia l’avvenuto superamento del periodo massimo di comporto e l’assenza di qualsivoglia richiesta di proroga da parte del lavoratore) provvederà a risolvere il contratto, previa diffida al lavoratore.

Nel caso in cui invece il dirigente scolastico sia intenzionato a concedere al dipendente gli ulteriori 18 mesi, lo stesso dovrà avviare, previo avviso all’interessato, la procedura per l’accertamento dell’idoneità psicofisica allo scopo di verificare se il lavoratore, allo scadere del secondo periodo di conservazione, sia effettivamente in grado di riassumere servizio per le mansioni precedenti alla malattia e tutelare così il suo stato di salute (comma 3).

In questo caso, qualora all’esito dell’accertamento il dipendente sia risultato permanentemente inidoneo al servizio, il dirigente procederà alla risoluzione del rapporto di lavoro e alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso (art.8).

avv. Fabio Petracci

Licenziamento dell’assistente odontoiatrico per mancato aggiornamento periodico

Un caso aperto in tema di formazione professionale nelle professioni sanitarie.

Sabato 13 maggio a Milano si è tenuto a Milano al Pirellone, il convegno di SIASO – CIU UNIONQUADRI , Sindacato Italiano Assistenti Odontoiatrici.

L’avvocato Fabio Petracci per conto del Centro Studi di CIU Unionquadri ha trattato il tema relativo all’aggiornamento professionale della categoria.

Il DPCM 9 marzo 2022 individua il profilo professionale della categoria ed affida all’iniziativa delle regioni l’aggiornamento periodico della stessa.

Si sono verificati casi dove gli iscritti non hanno adempiuto tempestivamente a questo adempimento e l’associazione si vede costretta a fornire dei corsi integrativi con le conseguenti difficoltà legali.

Con l’entrata in vigore del DPCM 9 marzo 2022 è  recepito l’accordo sancito tra il Governo, le regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano in data 7 ottobre 2021, concernente l’individuazione del profilo professionale dell’assistente di studio odontoiatrico, quale operatore d’interesse sanitario.

L’accordo definisce in maniera compiuta la figura professionale dell’assistente di studio odontoiatrico (articolo 1 dell’accordo) come figura di interesse sanitario di cui all’articolo 1, comma 2 legge 1 febbraio 2006 n.43.

Il successivo articolo 2 si occupa invece della formazione e dell’aggiornamento della categoria.

La formazione in base a tale norma è di competenza delle Regioni .

Il comma 3 stabilisce poi che coloro che abbiano ricevuto la formazione e la qualifica debbano frequentare degli eventi formativi di aggiornamento della durata di almeno dieci ore all’anno.

E’ inoltre stabilito che obbligo di aggiornamento annuale decorre dall’anno successivo a quello della data di acquisizione della qualifica/certificazione e deve essere concluso entro l’anno medesimo.

Si trascrive la parte di interesse del predetto accordo recepito in DPR

“   art. 2. Art. 2. La formazione 1. La formazione dell’assistente di studio odontoiatrico è di competenza delle regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano che, nel rispetto delle disposizioni del presente Accordo, procedono alla programmazione dei corsi di formazione e autorizzano le aziende del servizio sanitario regionale e/o gli enti di formazione accreditati per la realizzazione degli stessi, valorizzando le precedenti esperienze istituzionali e associative già esistenti.

  1. È consentito l’utilizzo della formazione a distanza FAD nella misura massima del 30 % delle lezioni frontali, salvo situazioni emergenziali sanitarie che possono richiedere una maggiore percentuale, conformemente a quanto stabilito nelle «Linee guida per l’utilizzo della modalità Fad/elearning nei percorsi formativi di accesso alle professioni regolamentate la cui formazione è in capo alle regioni e province autonome», approvate dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nella seduta del 25 luglio 2019. 3. Coloro che conseguono l’attestato di qualifica/certificazione ai sensi dell’art. 10 e 12 e i lavoratori esentati di cui all’art. 11, sono obbligati a frequentare degli eventi formativi di aggiornamento della durata di almeno dieci ore all’anno.
  2. L’obbligo di aggiornamento annuale decorre dall’anno successivo a quello della data di acquisizione della qualifica/certificazione e deve essere concluso entro l’anno medesimo.
  3. Nei casi di cui all’art. 11, la prima annualità di aggiornamento deve concludersi entro dodici mesi dall’entrata in vigore del presente Accordo.
  4. Fermo restando che la durata della formazione non può essere superiore a dodici mesi, la qualifica di assistente di studio odontoiatrico potrà essere acquisita anche tramite l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale ai sensi dell’art. 43 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.

Risulterebbe che alcuni assistenti di studio odontoiatrico non abbiano puntualmente adempiuto agli obblighi di aggiornamento e quindi essendo questi infra – annuali non abbiano allo stato possibilità di adempiervi.

Quindi viene richiesto se un aggiornamento postumo potrebbe ovviare a questo inconveniente.

Formulo di seguito alcune considerazioni nel ricercare una soluzione che non comporti la decadenza dal titolo professionale se non addirittura l’esercizio abusivo della professione con il conseguente licenziamento.

Noto in primo luogo come il comma 2 dell’articolo 1 dell’accordo Governo Regioni definisce come assistente di studio odontoiatrico l’operatore in possesso dell’attestato conseguito a seguito della frequenza di specifico corso di formazione.

Quindi, l’elemento abilitante è dato dall’apposito attestato di formazione.

Non è menzionato il requisito dell’aggiornamento professionale che sicuramente assume importanza, ma non valenza costitutiva.

Ciò significa che il mancato aggiornamento ove non prolungato non può comportare la perdita dell’abilitazione, semmai potrebbe comportare ove esistente un ordine, collegio o associazione all’irrogazione di sanzioni e corsi di recupero e ove presente come ritengo un professionista datore di lavoro, l’irrogazione di una sanzione disciplinare conservativa.

La norma istitutiva non prevede una specifica sanzione per il mancato aggiornamento.

Vi è contestualmente un altro aspetto che porta a ritenere l’attuale normativa in tema di aggiornamento professionale obbligatorio come inadeguata e non conforme all’ordinamento nazionale.

Con il DPCM 9 marzo 2022, è stata modificata la precedente normativa DPCM del 9 febbraio 2018 che disciplinava la figura professionale dell’assistente di studio odontoiatrico quale operatore sanitario in base all’articolo 1 della legge n.43 del 2006 e la disciplina della relativa formazione.

Mediante l’allegato accordo Stato Regioni, è confermata la competenza delle Regioni sia nell’individuazione dei profili nei limiti di cui all’articolo 1 del DPR, sia nell’aggiornamento professionale obbligatorio, come previsto dall’articolo 2 del medesimo accordo.

Quivi si legge come la formazione dell’assistente odontoiatrico sia di competenza delle regioni le quali procedono alla programmazione dei corsi di formazione e autorizzano le aziende del servizio sanitario regionale e/o gli enti di formazione accreditati per la realizzazione degli stessi, valorizzando le precedenti esperienze istituzionali e associative già esistenti.

Essa non prevede neppure l’indicazione tassativa dei soggetti che debbono fornire l’aggiornamento.

Su tale base ritengo che sia onere e facoltà delle associazioni professionali di organizzare dei corsi di recupero possibilmente sotto l’egida di fondi interprofessionali o accordi di categoria oppure con riconoscimento di organi pubblici che sovrintendano alla formazione.

Qualora poi l’aggiornamento e l’impegno al recupero fossero inseriti nella contrattazione collettiva di categoria, trattandosi di lavoratori dipendenti, l’inserimento potrebbe essere efficace per la tutela da indesiderabili sorprese.

Fabio Petracci

SENTENZA – RIDERS, Articolo 28 condotta antisindacale, applicabilità anche in assenza di subordinazione.

Articolo 2 comma 1 DLGS 81/2015.

Tribunale Palermo, Sez. lavoro, Sent., 03/04/2023, n. 14491

La pronuncia che si annota pare rilevante in quanto ammette l’azione per condotta antisindacale ex articolo 28 legge 300/70 nell’ambito di un rapporto di lavoro che, anziché presentare i tratti della subordinazione, pare rientrare nella fattispecie di cui all’art. 2 comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2015 a tenore del quale “A far data dal 1gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione, sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.”.

Ritiene il Tribunale di Palermo come il lavoro dei cosiddetti Riders, ben possa inserirsi in detta fattispecie legale, cui per legge vanno applicate le tutele previste per i lavoratori subordinati.

Ha sostenuto il Tribunale come, analizzando il meccanismo di funzionamento dell’app che gestisce le prestazioni lavorative dei riders è emerso come il modello organizzativo fosse standardizzato per tutte le società interessate e corrispondente a quello tutelato dall’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2015, che prevede, appunto, le tutele del lavoro subordinato.

Giova quindi rilevare, ha sottolineato la sentenza in esame, come la giurisprudenza di merito, concordando pressoché costantemente sull’inquadramento della prestazione resa dai riders nell’alveo dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81 del 2015, abbia ritenuto applicabile l’art. 28 L. n. 300 del 1970 a fattispecie analoghe a quella in esame (Trib. Bologna 2021 n. 2170, Trib. Milano 28.3.2021, Trib. Bologna 12.1.2023).

Le considerazioni espresse non si basano soltanto sull’equiparazione legale del trattamento della prestazione resa da questa specifica categoria di lavoratori al lavoro subordinato, ma anche su argomenti maggiormente complessi.

Sostiene il giudice del lavoro palermitano come al  riguardo devono richiamarsi, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att., le argomentazioni espresse dal Tribunale di Milano nel decreto n. 889/2021 secondo cui “la norma, invero, parla di “datore di lavoro”, figura che, certamente non si rinviene nell’ambito di un rapporto in cui il lavoratore è un prestatore d’opera occasionale e non un lavoratore subordinato.

Ciò posto, si potrebbe obbiettare che, mentre l’art. 414 c.p.c. non riserva la propria operatività a determinate ipotesi soggettive, la lettera dell’art. 28 St. Lav., invece, pare delimitare la sua sfera di applicazione alle condotte antisindacali poste in essere da un datore di lavoro, quindi, nell’ambito di una subordinazione.

Aggiunge la sentenza di cui in epigrafe come occorra, tuttavia, considerare che la disposizione si colloca in un momento temporale e storico non recente e che, dal 1970, vi sono stati numerosi interventi legislativi, da ultimo l’art. 2D.Lgs. n. 81 del 2015. (…) La disposizione si colloca all’interno di una serie di interventi legislativi (decreti attuativi del JOB Act) con i quali si è inteso prendere consapevolezza delle numerose innovazioni, anche di carattere tecnologico che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato il mondo del lavoro introducendo figure di lavoratori prima sconosciuti e forme di rapporti diversi da quelli tradizionali.

In questo stesso senso, anche il Tribunale di Firenze ha affermato: “È principio giurisprudenziale acquisito quello secondo cui l’art. 2 comma 1 del D.Lgs. n. 81 del 2015 ha riconosciuto alle collaborazioni organizzate dal committente ‘una protezione equivalente’ a quella dei lavoratori subordinati con ‘applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato’ (cfr. Cass. Sez. L -, Sentenza n. 1663 del 24/01/2020), nella quale sono compresi i diritti affermati nello Statuto dei lavoratori.

Va in tema di fattorini che eseguono le consegne a domicilio, citata Cassazione Sezione Lavoro 24.1.2020 n.1663 ha ritenuto che ai fattorini che effettuano consegna dei pasti a domicilio a seguito di un contratto di collaborazione stipulato con un’impresa che ne gestisce il rapporto attraverso una piattaforma digitale può trovare applicazione l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015, laddove l’eterorganizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente. L’art. 2 rappresenta infatti non un tertium genus compreso tra subordinazione e autonomia, ma una norma di disciplina volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato.

La stessa sentenza ha inoltre chiarito come ai rapporti di collaborazione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, in un’ottica sia di prevenzione sia “rimediale”, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato quando la prestazione del collaboratore sia esclusivamente personale, venga svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi ed al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente, senza che il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta sia tenuto a compiere ulteriori indagini, né possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento dal giudizio qualificatorio di sintesi.

La sentenza è seguita da un’interessante nota di Giuseppe Antonio Recchia, Il Lavoro nella giurisprudenza n.3, 1 marzo 2020, p.239.

Fabio Petracci