CASSAZIONE – Infortunio sul lavoro. Omissione di soccorso per mancato tempestivo intervento del datore di lavoro.

Commette omissione di soccorso il datore di lavoro che, verificatosi un infortunio di una certa gravità, non provvede tempestivamente al trasporto in ospedale dell’infortunato.

La Corte di Cassazione Sezione Penale conferma la pena inflitta ad un datore di lavoro che aveva omesso di prestare soccorso all’infortunato che aveva subito nell’ambito del cantiere un grave incidente.

Da quanto si desume dalla sentenza in esame, il datore di lavoro incriminato e condannato si era limitato a dare notizia dell’infortunio al committente.

In tal modo, l’infortunato rimaneva in attesa per oltre quaranta minuti prima di essere trasportato all’ospedale.

Secondo la Corte d’Appello che aveva emesso la condanna poi confermata dalla Corte di Cassazione,  le modalità dell’infortunio e l’evidente sofferenza dell’infortunato, avrebbero dovuto consigliare il datore di lavoro ad attivarsi per l’immediato soccorso, realizzandosi così la fattispecie penale di cui all’articolo 593, comma 2 del codice penale.

Fabio Petracci

Di seguito la sentenza della Corte di Cassazione.

 

Cassazione Sezione Penale sentenza n.47322 del 14.12.2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZAZA Carlo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere –

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 23/03/2021 della CORTE APPELLO di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALFREDO GUARDIANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore OLGA MIGNOLO che ha concluso chiedendo.

udito il difensore.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Torino riformava parzialmente in favore dell’imputato, limitatamente alla dosimetria della pena, la sentenza con cui il tribunale di Cuneo, in data 7.1.2019, aveva condannato A.A. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato ex art. 593, comma 2, c.p., in rubrica ascrittog li.

In particolare al A.A. viene addebitato, in concorso con B.B., di avere omesso di prestare la necessaria assistenza alla persona offesa C.C., dipendente della ditta individuale del B.B., con la qualifica di muratore, vittima di un grave incidente nel cantiere allestito presso la sede della ditta committente dei lavori, il “Caseificio A.A. Srl “, di cui il ricorrente era il legale rappresentante, e di dare immediato avviso alla competente autorità di quanto era accaduto.

Il C.C., infatti, mentre era intento con altri lavoratori a sostituire il manto di copertura di un fabbricato, posto a circa 2,9 metri di altezza, era caduto nel locale sottostante, attraverso una botola non adeguatamente protetta o segnalata, riportando le lesioni personali gravi indicate nel capo n. 3) dell’imputazione.

Secondo l’impianto accusatorio, fatto proprio dai giudici di merito, il A.A., invece di prestare immediato soccorso al lavoratore infortunato, aveva informato innanzitutto il B.B., assente dal cantiere nel momento del verificarsi del sinistro, attendendo per circa quaranta minuti l’arrivo di quest’ultimo, senza allertare le autorità sanitarie, limitandosi a caricare il C.C. sul furgone della ditta, con cui, poi l’infortunato, una volta giunto in loco il B.B., sarebbe stato accompagnato presso l’ospedale di (Omissis).

Ad avviso della corte territoriale, le modalità della caduta, tenuto conto dell’altezza di circa tre metri da cui la vittima era precipitata, e l’evidente sofferenza della persona offesa, che, quando il A.A. era intervenuto, si trovava ancora per terra, sia pure appoggiato a un muro, attorniato dagli altri operai, “erano palesemente tali da destare preoccupazione e giustificare da parte del A.A. la richiesta di immediato soccorso da parte delle Autorità Sanitarie o, al più, l’effettuazione di un immediato trasporto al vicino nosocomio, senza indugiare nell’attesa del datore di lavoro” (cfr. pp.11-13 della sentenza oggetto di ricorso).

  1. Avverso la sentenza della corte di appello, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando 1) vizio di motivazione, in quanto, premesso che il reato di cui all’art. 593, c.p., non si configura come un reato proprio, la corte territoriale ha omesso di indicare le ragioni, per cui, accertata la presenza di una serie di soggetti diversi dal A.A. nel momento del verificarsi dell’incidente di cui fu vittima la persona offesa, solo quest’ultimo sia stato ritenuto, in qualità di committente dei lavori, l’unico responsabile del dovere di prestare assistenza, la cui violazione integra il reato di cui all’art. 593, c.p.; 2) manifesta illogicità della motivazione, in quanto la corte territoriale ha desunto la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui si discute, che si atteggia in termini di dolo, secondo un ragionamento deduttivo, incentrato sulla natura delle lesioni, emersa solo ex post, grazie all’accertamento operato dal consulente tecnico del pubblico ministero, tipico della ricostruzione dell’elemento soggettivo nei reati colposi, omettendo di considerare che risponde dell’omissione solo chi voglia non compiere un’azione che sa di dover compiere.
  2. Con requisitoria scritta del 29.7.2022, depositata sulla base della previsione del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137art. 23, comma 8, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.

Con conclusioni scritte del 13.9.202, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia dell’imputato, avv. Giuseppe Sandri, insiste per l’accoglimento del ricorso.

  1. Il ricorso va dichiarato inammissibile.

4.1. Con particolare riferimento al primo motivo di ricorso non può non rilevarsene la manifesta infondatezza, posto che la presenza di più persone, diverse dall’imputato, quando si verificò il sinistro di cui si discute e nei momenti immediatamente successivi a esso, non esonera da responsabilità il A.A..

Come è noto l’art. 593, c.p., che disciplina la fattispecie di omissione di soccorso, recita testualmente: “Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a duemilacinquecento Euro.

Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata”.

Orbene, il reato di cui all’art. 593, c.p., sia nell’ipotesi di cui al comma 1, che in quella di cui al comma 2 (contestata al A.A.), non si configura come reato proprio, non richiedendo la fattispecie incriminatrice tra i suoi elementi costitutivi una particolare qualità personale del soggetto attivo, che può essere chiunque, anche se, come è stato fatto notare, posto che per la sussistenza del reato è necessario che sussista un contatto materiale, attraverso gli organi sensoriali, tra l’agente e la persona oggetto del ritrovamento (cfr. Sez. 5, n. 20480 del 15/03/2002, Rv. 221916), sarebbe opportuno qualificare il reato come proprio, in ragione del rapporto materiale che deve necessariamente legare l’autore con il soggetto passivo.

Proprio la particolare natura del reato di cui si discute, comporta che, in presenza di una persona in stato di presunto o accertato pericolo, l’obbligo di assistenza diretta o indiretta imposto dalla norma, in cui si concretizza, come sottolineato da autorevole dottrina, l’adempimento sul terreno penalistico dei doveri inderogabili di solidarietà sociale di cui all’art. 2, Cost., incombe su tutti coloro che entrano in contatto con il soggetto bisognoso di assistenza, indipendentemente dalla qualità dei soggetti obbligati.

Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità con orientamento risalente nel tempo, ma non formante oggetto di rivisitazione critica nel corso degli anni, in tema di omissione di soccorso, il termine “trovare” deve intendersi nel senso di “imbattersi”, “venire in presenza di”, e implica un contatto materiale diretto, attraverso gli organi sensoriali, con l’oggetto del ritrovamento. Non importa perciò la distanza fra l’agente e il soccorrendo, purchè essa sia tale che il primo possa percepire lo stato di pericolo in cui versa il secondo, cosi come pure è irrilevante la presenza in loco dell’agente prima che il pericolo sorga, non potendo escludersi l’obbligo del soccorso sol perchè il contatto sensoriale fra agente e soccorrendo si verifica non a causa di una condotta posta in essere dal primo ma a causa di una condotta dello stesso soccorrendo o di terzi (cfr. Sez. 5, n. 6339 del 31/01/1978, Rv. 139066).

Del pari da tempo la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come il reato di omissione di soccorso posto a carico di un soggetto, non può venir meno in caso di possibile intervento di terze persone (cfr. Sez. 6, n. 11148 del 04/03/1988, Rv. 179741).

In altri termini l’affermazione della responsabilità del A.A. trova la sua giustificazione nella violazione del dovere di assistenza previsto dall’art. 593, comma 2, c.p., che, pur in presenza di altre persone del pari astrattamente destinatarie del medesimo dovere, comunque incombeva su di lui, non in qualità di committente dei lavori o di datore di lavoro della persona offesa, ma di soggetto entrato in contatto diretto con la persona pericolante, vale a dire bisognosa di assistenza, dopo il verificarsi del sinistro, in ragione delle conseguenze riportate a causa della caduta da un’altezza di circa tre metri.

Tale dovere egli ha violato, quanto meno non avvisando immediatamente, cioè senza alcuna dilazione non indispensabile, le autorità sanitarie e di polizia (cfr. Sez. 5, n. 3397 del 14/12/2004, Rv. 231409) dell’incidente verificatosi presso la sede del suo caseificio, attendendo, piuttosto, l’arrivo del B.B., senza che ve ne fosse ragione ai fini del soccorso, per accompagnare il C.C. presso il nosocomio di (Omissis).

4.2. Manifestamente infondato e generico appare il secondo motivo di ricorso, con il quale, in definitiva, il ricorrente reitera acriticamente le doglianze rappresentate nell’atto di appello in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui di discute, che si atteggia in termini di dolo generico (integrato dalla consapevolezza della necessità del soccorso e dell’omissione: cfr. Sez. 5, n. 4003 del 14/12/1977, Rv. 138535, nonchè Sez. 5, n. 13310 del 14/02/2013, Rv. 254983), senza confrontarsi con la motivazione della sentenza della corte di appello.

Al riguardo si osserva come, secondo un condivisibile arresto della giurisprudenza di questa Corte, in tema di omissione di soccorso, lo stato di pericolo è elemento costitutivo delle diverse ipotesi di reato previste nel primo e comma 2 dell’art. 593, c.p., e in quest’ultima fattispecie – a differenza della prima nella quale il pericolo è “presunto” in presenza delle situazioni descritte – lo stato di pericolo deve essere accertato, in base agli elementi che caratterizzano il reato, con valutazione “ex ante” e non “ex post” (cfr. Sez. 4, n. 36608 del 19/09/2006, Rv. 235424).

Orbene la corte territoriale ha fatto buon governo di tale principio, evidenziando che proprio le modalità dell’incidente e la condizione di oggettiva sofferenza dell’infortunato immediatamente percepibili e percepite dall’imputato quando entrò in contatto diretto con il C.C., consentivano al ricorrente di avere piena consapevolezza dell’esistenza di una condizione di pericolo quanto meno per l’integrità fisica dell’infortunato, che richiedeva un soccorso immediato attraverso la subitanea allerta delle competenti autorità sanitarie, per cui l’omesso adempimento del dovere di soccorso correttamente è stato ritenuto frutto di una consapevole e volontaria scelta del A.A., sulle cui motivazioni, inoltre, la corte territoriale si sofferma specificamente (cfr. pp. 13-14).

In questa prospettiva gli esiti della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero sulla natura e gravità delle lesioni patite dalla persona offesa non integrano una valutazione “ex post” della situazione di pericolo, ma solo un ulteriore approfondimento degli esiti dell’incidente, foriero di un evidente pericolo per il C.C. già nel momento del suo verificarsi.

  1. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3000,00 a favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2022

CASSAZIONE – Avvocato non iscritto alla Cassa Forense deve pagare la contribuzione alla Gestione Separata INPS.

Mancata compilazione denuncia parametri per contribuzione – non è occultamento doloso del debito – prescrizione decorrenza.

Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., 03/11/2022, n. 32424.

L’oggetto della controversia.

La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l’opposizione proposta da A.A., nel contraddittorio dell’I.N.P.S. e dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, avverso l’avviso di addebito con il quale era stato preteso dalla predetta il pagamento della contribuzione dovuta alla gestione separata, quale avvocato, per l’anno 2009.

Inoltre , la Corte territoriale riteneva sussistente il debito contributivo ed infondata l’eccezione di prescrizione, in quanto nel presentare la dichiarazione dei redditi la ricorrente aveva omesso di compilare il quadro riguardante i parametri rilevanti rispetto alla sua denuncia (c.d. quadro RR) e ciò comportava la sospensione del termine prescrizionale per occultamento doloso del debito.

Sintesi della decisione.

La Corte di Cassazione con la sentenza di cui in epigrafe ha ritenuto sussistere il debito previdenziale ritenendo che, gli avvocati iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie che, svolgendo attività libero professionale priva del carattere dell’abitualità, non hanno – secondo la disciplina vigente “ratione temporis“, antecedente l’introduzione dell’automatismo della iscrizione – l’obbligo di iscrizione alla Cassa Forense, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui alla L. n. 335 del 1995art. 2, comma 26, secondo cui l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale.

Precisa la Corte che “l’obbligo di iscrizione alla gestione separata è genericamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante dall’esercizio abituale (anche se non esclusivo) ma anche occasionale – in questo caso se siano superati i limiti di cui al D.L. n. 269 del 2003art. 44, comma 2, n.d.r. – di un’attività professionale per la quale è prevista l’iscrizione ad un albo”, se il corrispondente reddito non sia già oggetto di obbligo assicurativo presso la cassa di riferimento.

In merito alla mancata decorrenza della prescrizione a seguito del doloso occultamento del debito.

Precisa la Corte che, se è pur vero che la giurisprudenza di legittimità,  ha ritenuto che l’apprezzamento in ordine alla possibilità di ricondurre la mancata compilazione del quadro RR ad una fattispecie di doloso occultamento del debito non è avvenuto ad opera del giudice del merito.

Precisa la Corte che il dolo che impedisce il decorso della prescrizione non consiste nella sola intenzionalità di non dichiarare una situazione rilevante a fini contributivi, ma deve altresì essere tale da impedire al creditore di esercitare il proprio diritto, profilo che la Corte territoriale non ha in alcun modo indagato e che, tenuto conti dei poteri ispettivi degli enti previdenziali e dei profili di evidenza esterna, anche formale (iscrizione all’albo etc.) della professione forense, non possono certamente essere presunti.

CASSAZIONE – Esposizione Amianto – La prescrizione decorre dalla data della maturata consapevolezza dell’esposizione.

Corte di Cassazione ordinanza n.28465 del 30.9.2022.

Articolo 2935 Codice Civile.

La Corte di Cassazione Sezione Lavoro di cui in epigrafe ha ritenuto in linea con il precedente orientamento (Cassazione 2856/2017) in tema di rivalutazione contributiva per l’esposizione all’amianto come il diritto sia soggetto a prescrizione decennale sia un diritto autonomo rispetto al diritto alla pensione e che, come tale, il termine di prescrizione decorra dal momento in cui il lavoratore abbia avuto cognizione della sua esposizione all’amianto.

Il ricorso gerarchico all’inps e il principio di legittimo affidamento alla pubblica amministrazione

1.Il principio di legittimo affidamento alla pubblica amministrazione; 2. Caso di specie: il cittadino straniero che chiede il cumulo dei contributi e l’inerzia della pubblica amministrazione; 3. Lo strumento del ricorso gerarchico all’INPS; 4. Il ricorso amministrativo contro un provvedimento dell’INPS e la previsione dell’articolo 328 c.p.

  1. Il principio di legittimo affidamento alla pubblica amministrazione

L’articolo 97 della nostra Costituzione stabilisce come principi generali dell’ordinamento l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, principi fondamentali su cui si costruisce l’agire della pubblica amministrazione e l’intero diritto amministrativo italiano.

Più in particolare, da questi principi generali deriva un ulteriore principio, elaborato prima a livello europeo e successivamente introdotto anche nella giurisprudenza tedesca: il principio di legittimo affidamento del cittadino alla pubblica amministrazione.

Ciò che questo principio intende tutelare sono le aspettative che la pubblica amministrazione, attraverso i suoi atti o comportamenti, ingenera nel cittadino.

Ciò accade anche quando il lavoratore che, alla fine della propria carriera, raggiunti i requisiti anagrafici e contributivi, intende accedere alla pensione.

  1. Caso di specie: il cittadino straniero che chiede il cumulo dei contributi e l’inerzia della pubblica amministrazione

Accade di sovente che, di fronte alla complessità dell’ipotesi, si verificano situazioni di paralisi dell’attività amministrativa.

Viene proposto come caso paradigmatico quello del cittadino straniero che per diversi anni ha lavorato in Italia e ha provveduto ad inoltrare correttamente all’INPS la domanda di pensione di vecchiaia in convenzione internazionale con il Paese di origine, con cumulo dei contributi maturati nei due Stati.

Dopo diversi anni dalla richiesta, al Signore in questione non è ancora stata liquidata la pensione, nonostante i ripetuti solleciti da parte dello stesso, del patronato e dello studio legale a cui all’uopo si è rivolto.

A questi, visti i numerosi solleciti, viene comunicata dalla sede INPS competente, via PEC, la possibilità di impugnare il provvedimento di reiezione della domanda di pensione attraverso un reclamo da proporre con un’apposita procedura attivabile nell’area personale sul sito dell’INPS entro il termine di 90 giorni, termine previsto dall’articolo 443 c.p.c., per l’impugnazione dei provvedimenti dell’Ente.

Questa risposta riporta delle criticità sotto vari aspetti: innanzitutto, l’inesistenza di un provvedimento di reiezione della domanda di pensionamento. La domanda del lavoratore, infatti, non è stata rigettata, ma neanche accolta. Ci si trova, invece, di fronte ad una situazione di inerzia della pubblica amministrazione.

Dall’altro lato, l’ex lavoratore straniero (soprattutto se non ha passato molti anni lavorando in Italia e non ha avuto molto tempo od occasioni per praticare la lingua) ha meno autonomia rispetto all’ex lavoratore italiano nell’utilizzo dell’area personale dell’INPS, tanto per una questione linguistica – da non sottovalutare – quanto per il più probabile mancato possesso delle credenziali SPID, del PIN INPS o della carta di identità elettronica italiana, vista la maggiore difficoltà, rispetto al madrelingua italiano, a conseguirli a causa della barriera linguistica.

  1. Lo strumento del ricorso gerarchico all’INPS

In questo caso di specie è stato violato, da parte della pubblica amministrazione, il principio di legittimo affidamento, poiché tradite le aspettative dell’ex lavoratore nei confronti dell’amministrazione.

L’articolo 443 c.p.c. prevede a riguardo la tutela giurisdizionale, ma il ricorso amministrativo non può essere presentato se non dopo l’impugnazione del provvedimento dell’INPS entro il termine di 90 giorni decorrenti dalla data del provvedimento o dalla formazione del silenzio-rigetto. Dopo questi, è previsto un ulteriore termine di 120 giorni per ottenere una risposta da parte dell’INPS.

Scaduto anche questo termine, è possibile la proposizione del ricorso amministrativo.

In pratica, secondo la normativa comune di legge, la controversia giudiziale non è ammissibile e procedibile, se prima l’utente non ha esaurito le procedure amministrative previste.

Più nello specifico del diritto amministrativo, la legge 241/1990 prevede, all’articolo 2, comma 1, l’obbligo delle pubbliche amministrazioni a concludere il procedimento attraverso un provvedimento espresso, nel termine massimo di 90 giorni, come previsto dal comma 3.

In ogni caso, ai sensi del comma 9, “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e funzionario inadempiente”.

Contestualmente ed ancora di più nello specifico, esiste una fonte interna dell’ente di previdenza: il regolamento INPS per la definizione dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi, approvato dal Consiglio di Amministrazione dell’INPS alla seduta del 20.12.2020 (deliberazione n. 11) – poi messo a conoscenza dell’Ente attraverso la circolare n. 55 del 08.04.2021, che prevede lo strumento del ricorso gerarchico quando l’amministrazione è inerte nella conclusione del procedimento (strumento già previsto dall’articolo 2 della legge 241/1990, sopra menzionato, al comma 9-ter).

Il regolamento INPS, inoltre, prevede anche i termini specifici entro cui i procedimenti devono essere conclusi. Nel caso di specie di cui al secondo paragrafo del pensionamento di vecchiaia in convenzione internazionale, il termine massimo per la conclusione della procedura è di 85 giorni (tabella A allegata al regolamento).

Interessante l’articolo 9, comma 5 del regolamento, che prevede nel particolare del contesto dell’INPS il potere sostitutivo della sede Provinciale o Regionale qualora il procedimento non venga concluso nei termini stabiliti. Il cittadino, infatti, può rivolgersi direttamente alla sede Provinciale o Regionale, chiedendo di sostituirsi all’Ufficio inerte. Questi sono obbligati a concludere il procedimento o a fornire informazioni al richiedente entro la metà del termine previsto dalla tabella A.

Tuttavia, la procedura per ottenere un provvedimento da parte dell’INPS può non concludersi nonostante tutte queste tutele, poiché l’Ente continua a rimanere inerte.

  1. Il ricorso amministrativo contro un provvedimento dell’INPS e la previsione dell’articolo 328 c.p.

Come anticipato nel secondo paragrafo, nel caso di specie dell’ex lavoratore straniero non è possibile attivare la procedura di cui all’art. 443 c.p.c., poiché non esistente un provvedimento dell’Ente, bensì l’INPS è inerte nell’emetterlo. Vi è da chiedersi se l’inerzia dell’INPS raffiguri un vero e proprio silenzio, dal momento che l’Ente ha risposto in maniera non negativa.

In caso ci fosse un provvedimento da impugnare, il cittadino straniero avrebbe potuto accedere all’area personale sul sito dell’INPS attraverso il proprio PIN INPS, le proprie credenziali SPID o la propria carta di identità elettronica italiana, e seguire il procedimento guidato indicato, oppure avrebbe potuto rivolgersi ad un patronato o al legale di fiducia, entro 90 giorni dall’emissione del provvedimento, per proseguire con l’iter di cui all’art. 443 c.p.c. ed arrivare al ricorso amministrativo.

Nel caso di mancanza di un provvedimento dell’INPS e di una risposta nonostante l’attivazione delle tutele, invece, sarebbe possibile utilizzare i normali strumenti della legge 241/90 per pervenire alla fine alla formulazione di una querela contro l’Ente, poiché potrebbe configurarsi il reato di cui all’art. 328 c.p., “Omissione di atti d’ufficio”, che prevede che “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che entro 30 giorni dalla richiesta con chi vi abbia interesse con compie l’atto del suo ufficio e non risponde per le ragioni del suo ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino ad euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della domanda stessa”.

Come ricordato nel paragrafo sopra, da regolamento INPS per la definizione dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi, la procedura dopo il ricorso alla Direzione Regionale deve concludersi entro la metà del tempo previsto per la conclusione del procedimento (nel caso di pensionamento in convenzione internazionale, nella metà di 85 giorni).

Questo problema di configurabilità del reato di cui all’art. 328 c.p. è stato affrontato anche dalla circolare dello stesso INPS del 20.10.1995, n. 264.

Così, infatti, la circolare, che nella premessa sottolinea che “Il diritto del cittadino utente ad ottenere una risposta sollecita ed esauriente nel merito, secondo una logica convergente con quella su cui è fondata la legge 241/1990”, ed invita poi il personale a concludere le pratiche entro i termini previsti:

“Per prevenire il concretarsi della fattispecie penalmente sanzionata è dunque necessario emettere nel termine dei 30 giorni il provvedimento o l’atto d’ufficio richiesto, ovvero, in alternativa, quando ciò non sia possibile, dare risposta, entro lo stesso termine per chiarire le ragioni del ritardo o dell’inadempienza. A quest’ultimo riguardo occorre avere ben presente che la motivazione addotta nella risposta non può essere soltanto generica (ad es. esistenza di arretrato, notevole mole di lavoro), ma deve essere necessariamente circostanziata e “personalizzata”, sicché possa valere come vera e propria motivazione del ritardo e del comportamento tenuto nella circostanza, con riferimento alla specifica pratica oggetto della richiesta”.

Dott.ssa Chiara Bassanese

WEBINAR – Decreto PNRR 2 (D.L. 36/22) e Riforma del Pubblico Impiego

Giovedì 23 giugno 2022, dalle 10.00 alle 12.00, l’avv. Petracci sarà relatore del webinar:

Decreto PNRR 2 (D.L. 36/22) e Riforma del Pubblico Impiego
Tutte le novità in materia di reclutamento, concorsi, fabbisogni del personale e codice di comportamento dei dipendenti

Durante la sessione affronterà in diretta tutti gli argomenti indicati nel programma, risponderà ai quesiti pervenuti e approfondirà le tematiche segnalate dai partecipanti.

L’obiettivo di questo webinar è fornire gli strumenti per attuare tutte le novità, in tema di pubblico impiego, introdotte dal PNRR 2 (D.L. 36/2022).

Saranno analizzate, punto per punto, le nuove disposizioni, con particolare attenzione a:

  • Programmazione dei fabbisogni e nuovi profili professionali
  • Reclutamento e possibilità di assunzione: novità
  • Nuove regole per i concorsi e portale unico del reclutamento inPA
  • Novità in tema di codice di comportamento dei dipendenti pubblici sui social
  • Parità di genere e vantaggi specifici per i generi meno rappresentati
  • Novità in tema di passaggi diretti e distacchi, concorsi e procedure di mobilità
  • Modifiche al decreto-legge 80/2021, applicazione a regioni ed enti locali
  • Incarichi professionali al personale in quiescenza: novità

La registrazione video del Webinar sarà disponibile entro 24 ore dalla conclusione.

Per informazioni sulle modalità di iscrizione si rimanda alla seguente pagina di riferimento della Professional Ac@demy.

L’anzianità professionale nell’ambito del settore sanitario.

Spesso la contrattazione collettiva subordina l’attribuzione di indennità o responsabilità professionali alla maturazione di determinati periodi di esperienza professionale.
Maggiore è l’incidenza di dette clausole, laddove si richiede una professionalità specifica, come nel caso della sanità pubblica.
Ci si chiede in proposito se e come le clausole contrattuali delimitino in qualche modo l’efficacia di tali forme di anzianità.
Viene in esame proprio il CCNL della Sanità Pubblica.
Ci poniamo il quesito in primo luogo se un contratto a termine in tale ambito, poi seguito da uno a tempo indeterminato possa valere come anzianità professionale.
Sul punto l’ARAN con un recente parere ha chiarito come il periodo lavorato con contratto a tempo determinato nell’ambito del comparto sanità pubblica debba essere computato a tutti gli effetti come anzianità professionale.
Lo stesso vale per i periodi lavorati presso altri datori di lavoro, ma sempre nell’ambito del Comparto Sanità Pubblica.
Lo stesso discorso non vale invece per periodi maturati nel settore sanitario, ma con applicazione di CCNL diverso, come ad esempio nell’ambito della Sanità Privata.
Dunque, l’unico e vero discrimine per considerare o meno i periodi professionali pregressi, è dato dal settore contrattuale di inquadramento.

Avvocato Fabio Petracci.

Medici specializzandi obbligo di assicurazione INAIL

I medici specializzandi debbono essere assicurati presso l’INAIL e quindi l’Azienda Ospedaliera è destinataria dell’obbligo assicurativo.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n.443 del 13.1.2021.

Il DLGS 368/1999 all’articolo 41 prevede a carico dell’azienda sanitaria presso la quale il medico svolge la propria formazione l’onere della copertura assicurativa per i rischi professionali, per  la responsabilità civile verso terzi e gli infortuni connessi all’attività assistenziale, alle stesse condizioni dell’altro personale.

Il DLGS 368/1999 costituisce l’attuazione della direttiva comunitaria 93/16/CEE che impone uniformità di trattamento per i medici in formazione.

Sosteneva l’azienda sanitaria che la legge aveva previsto un generico obbligo assicurativo, ma non espressamente un obbligo di assicurazione all’INAIL non essendo i medici specializzandi neppure lavoratori subordinati. Sosteneva inoltre l’azienda sanitaria che i medici specializzandi non potevano neppure essere considerati studenti in base all’articolo 4 del DPR n.1124 del 1965.

La Corte di Cassazione ha smentito tale assunto difensivo, ritenendo come il dato testuale della legge di cui al DLGS 368/1999 articolo 4 impone per quanto riguarda la copertura antiinfortunistica l’uniformità di copertura riguardo al restante personale.

PARERE Lavoratore autonomo e professionista con cassa propria che opera in prestazione coordinata e continuativa: pagamento dei contributi e diritto alla pensione in caso di mancato pagamento dei contributi

Mi viene richiesto il seguente parere:

Nel caso del lavoratore autonomo e nel caso del professionista con cassa propria che opera in prestazione coordinata e continuativa – in particolare, nel caso dell’infermiere che ha anche un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ad esempio, con una casa di risposo – su chi ricadono gli obblighi della contribuzione? E, nel caso in cui questi obblighi non siano adempiuti, quali sono le conseguenze, e quali sono le conseguenze sul diritto alla prestazione pensionistica?

Fornisco di seguito il parere:

  1. Il lavoratore autonomo

I lavoratori autonomi di cui all’art. 53 del DPR 917/1986, i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e gli incaricati di vendita a domicilio – se si tratta della loro attività abituale, ancorché non esclusiva, ma anche se l’attività di lavoro autonomo è occasionale e il loro reddito annuo supera i 5.000 euro – sono tenuti, ex art. 2 commi 26-32 della legge 335/1995, ad iscriversi alla gestione separata dell’INPS.

L’obbligo di iscrizione alla gestione separata è esteso ad altre categorie di lavoratori, quali assegnisti e dottorandi di ricerca (legge 240/2010 e 315/1998), gli spedizionieri doganali (legge 230/1997), e associati in partecipazione di cui agli art. 2549 e segg. del codice civile (legge 326/23003).

I professionisti lavoratori autonomi iscritti in albi professionali e con cassa previdenziale propria, invece, sono invece esclusi dall’iscrizione alla gestione separata.

La prestazione del lavoratore può dirsi coordinata e continuativa, quindi, qualora non si tratti di un’attività occasionale o episodica, e deve essere resa nell’ambito di un rapporto di lavoro a favore di un determinato soggetto, senza l’uso di mezzi organizzati, di proprietà del lavoratore, e senza che l’attività rientri nei compiti già attribuiti ad un lavoratore subordinato, con retribuzione predefinita e periodica.

Infatti, il Tribunale di Roma sez. Lavoro nella sentenza 24.03.2020 (S.I.E. Società Iniziative Editoriali S.p.a. c. INPGI) ha enunciato che in tali rapporti di lavoro autonomo “l’obbligo di contribuzione richiede solo che si provi che la collaborazione abbia i caratteri della continuità e collaborazione, e quindi: a) la prestazione si personale o almeno prevalentemente personale, nel senso che l’apporto personale deve essere prevalente rispetto a quello di eventuali collaboratori del collaboratore e dell’eventuale impiego di mezzi propri; b) la prestazione sia continuativa, ossia non meramente occasionale, ma perduri nel tempo ed importi un impegno costante; c) la prestazione si svolga in coordinamento con il committente e sia diretta al conseguimento delle finalità di questi”.

La legge 183/2010 dispone che l’omesso versamento dei contributi previdenziali nelle forme e nei termini previsti della legge, dei 2/3 a carico del datore di lavoro, configura l’ipotesi di cui all’articolo 2 del DL 463/1983, comportando l’applicazione di una sanzione pecuniaria a carico del datore stesso, ma la prestazione pensionistica al lavoratore verrà versata comunque.

  1. Il professionista con cassa previdenziale propria

Come anticipato sopra, l’iscrizione alla gestione separata dell’INPS non è applicabile ai professionisti iscritti in albi professionali e con cassa previdenziale propria, quali ad esempio avvocati o infermieri, qualora inseriti in un rapporto con prestazione coordinata e continuativa, che invece versano integralmente i loro contributi a tale cassa e non alla gestione separata dell’INPS.

Nel caso in cui il professionista, nel caso di specie un infermiere, abbia un rapporto di prestazione lavorativa coordinata e continuativa con il committente, ad esempio una casa di riposo per anziani, l’obbligo di contribuzione alla cassa previdenziale ENPAPI grava per 1/3 sull’infermiere e per 2/3 sul committente (articolo 3 del D. lgs. 103/1996). I committenti sono tenuti quindi ad inviare la denuncia contributiva mediante la procedura DARC e ad effettuare il versamento della contribuzione complessivamente dovuta, anche per la quota a carico del collaboratore.

Le sanzioni per chi non paga ENPAPI sono previste dagli articoli 10 e 11 del regolamento della Cassa stessa. Vengono applicate, quindi, agli iscritti che pagano i contributi in ritardo, oppure che pagano un importo inferiore al dovuto, o che non inviano o inviano in ritardo la dichiarazione del reddito professionale, o inviano una comunicazione del reddito professionale infedele, e dipendono dalla tipologia del mancato adempimento e dal ritardo. Per la riscossione dei contributi insoluti, ENPAPI può avvalersi di procedure ingiuntive ed esecutive previste dalla legge.

Inoltre, chi non è in regola con gli adempimenti non può partecipare ai bandi previdenziali dell’ente, e non può accedere a borse di studio per i figli e a supporto per l’acquisto di una casa e per l’avvio dell’attività professionale.

La natura obbligatoria del pagamento permette all’ente di avvalersi in ogni tempo, per l’attività di vigilanza, della conoscenza del reddito imponibile dell’iscritto, attraverso i dati della Amministrazione finanziaria oppure di altri soggetti pubblici e privati.

Risarcimento da licenziamento illegittimo e indennità di disoccupazione. Una recente decisione della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione con la sentenza Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 26/08/2020, n. 17793 ha stabilito che la domanda per ottenere il trattamento di disoccupazione non presuppone la definitività del licenziamento e non è incompatibile con la volontà di impugnarlo.

Ha stabilito la Corte che l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dell’atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione, sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento.

Solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti, così non potendo, peraltro, le stesse essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18.

La pronuncia della Cassazione consegue all’impugnazione del licenziamento da parte di un lavoratore cui il Tribunale aveva riconosciuto l’ordinario risarcimento del danno anziché la reintegra che ormai è riservata in limitati casi.

L’Inps in forza di un decreto ingiuntivo richiedeva la restituzione di quanto percepito dal lavoratore a titolo di indennità di disoccupazione.

Il giudice di merito sia in primo che in secondo grado aveva ritenuto che il ricorrente  non era stato reintegrato nel posto di lavoro, nè aveva ricevuto spettanze retributive, ma un mero risarcimento e che ciò escludeva che l’indennità di disoccupazione potesse diventare indebita per il solo fatto di aver ottenuto una sentenza favorevole

La Suprema Corte ha richiamato il R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827,  che all’ art. 45 stabilisce che l’evento coperto dal trattamento di disoccupazione riguarda  l’involontaria disoccupazione per mancanza di lavoro, ossia quella inattività, conseguente alla cessazione di un precedente rapporto di lavoro, non riconducibile alla volontà del lavoratore, ma dipendente da ragioni obiettive e cioè mancanza della richiesta di prestazioni del mercato di lavoro La funzione dell’assegno è quindi, secondo la Corte quella di fornire in tale situazione ai lavoratori (e alle loro famiglie) un sostegno al reddito, in attuazione della previsione del art. 38 Cost., comma 2.

Ha quindi rilevato la Corte di Cassazione che ” la domanda per ottenere il trattamento di disoccupazione non presuppone neppure la definitività del licenziamento e non è incompatibile con la volontà di impugnarlo, mentre l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dell’atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione, e sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento” (v. anche Cass. 11.6.1998 n. 5850, Cass. n. 4040 del 27/06/1980) e che ” solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti, così non potendo, peraltro, le stesse essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18

 

Offline il sito dell’INPS, l’opinione di un quadro informatico.

In questi giorni, abbiamo assistito al default del sito informatico dell’INPS che ha causato nell’ambito della situazione di emergenza dovuta al Coronavirus un ulteriore emergenza che ha impedito la distribuzione degli aiuti economici stabiliti dal Governo.
Per capire almeno alcune delle ragioni che non permettono a queste strutture di funzionare correttamente, pubblichiamo la testimonianza di un quadro informatico di un ente previdenziale.
Come vedremo, alla vicenda personale di mortificazione della professionalità, si accompagnano scelte aziendali che non sempre appaiono corrette.
Pubblichiamo questa esperienza , non per polemica, in questo momento non ce ne sarebbe proprio bisogno, ma perché in futuro la professionalità acquisita non venga trascurata e sprecata.

UN PO’ DI STORIA
L’informatizzazione dell’ente inizia nel 1983 con il cosiddetto Nuovo Sistema Informativo.
Questo prevedeva, oltre all’informatizzazione delle aree istituzionali (“premi” e “prestazioni”), la creazione di un CED per ciascuna sede territoriale e l’installazione di uno o due “mainframe” (i cosiddetti sistemi dipartimentali”, IBM 8100 prima con sistema operativo DPCX e, in seguito IBM 9370 con sistema operativo DPPX) e di un terminale “stupido” con relativa stampante per ciascun utente amministrativo.
Nei CED erano previsti 2 “operatori di controllo” per ciascun sistema dipartimentale. A ………, dove cominciai ad operare, eravamo in 4 per la sola sede di ……….
Gli “operatori” vennero selezionati su base volontaria attraverso quiz psico-attitudinali (quelli classici che la IBM allora somministrava per selezionare il proprio personale). Per essere ammessi alla selezione bisognava dichiarare in forma scritta l’impegno, in caso di esito positivo, di frequentare i successivi corsi di formazione e le successive selezioni (successivamente fu illegittimamente inibito agli informatici, per salvaguardare l’investimento in formazione fatto su di loro, di accedere alle selezioni per ispettori di vigilanza, in pratica “bloccandoli” nel profilo in maniera discriminatoria). Ai quiz seguiva il corso selettivo di tre settimane consecutive a Roma, presso il “Servizio Meccanizzazione” , Direzione Centrale per l’Organizzazione Digitale). La selezione consisteva nell’invio ai corsi del doppio del personale necessario che veniva poi dimezzato attraverso una esame finale. Una selezione seria, dunque!
Già allora, per il merito delle problematiche trattate, il rapporto tra il personale informatico “periferico” e la direzione centrale tendeva ad essere diretto e non mediato gerarchicamente dalle direzioni (allora “ispettorati”) regionali e le direzioni delle unità di appartenenza (sedi).
I direttori delle sedi, poco collaborativi e generalmente chiusi al cambiamento, mal digerivano quello che interpretavano come un eccesso di indipendenza e si opponevano al fatto che il personale migliore venisse sottratto al buco nero burocratico-amministrativo, ponendo in atto resistenze passive di ogni genere attraverso atteggiamenti contraddistinti da ignoranza, arroganza, supponenza, ignavia, negligenza. Esercitarono pressioni corporative anche sul Direttore Generale che, per ridimensionare lo “scandalo” della presenza di questo personale selezionatissimo e “anarchico”, fino ad indurlo a scrivere una lettera, infarcita di ambiguità , dove tra le righe apriva ad una possibilità di utilizzo del personale informatico “anche” sul fronte amministrativo (i “tempi morti”, fisiologici in un CED, che morti non sono affatto perché sono lo spazio per elaborare soluzioni che richiedono impegno mentale, venivano interpretati, nella loro visione tradizionalmente asfittica che non concepisce necessario il “pensare”, come dolce far niente in orario d’ufficio). Ricordo, di quell’antica lettera la frase-cerniera, “onde non rimanere avulsi dal contesto produttivo”, come se gli informatici non producessero nulla, come se non fossero, se non gli unici, tra i pochi, ad avere una visione globale dei problemi da quell’osservatorio privilegiato che si era rivelato il CED, come se non fossero il motore concreto di un cambiamento epocale nel modo di lavorare.
Questa strategia di corto respiro e, soprattutto, inutile portò al consolidamento del legame con la Direzione Centrale e con le énclave più illuminate di questa, creando una sorta di legame cameratesco con colleghi e dirigenti contraddistinto da orizzontalità, degerarchizzazione pur nel rispetto dei ruoli, spirito di corpo. Il “tu” era d’uso, come negli ambienti IBM, e nelle molteplici occasioni in cui si andava a Roma ci si trovava anche fuori dalle mura dell’Istituto. Con alcuni elementi del mitico Punto Assistenza Utenti, tutti ormai in pensione da anni, grazie anche ai “social”, esistono ancora oggi rapporti da “commilitoni”.
Ovviamente non fu per tutti così, alcuni colleghi, soprattutto in realtà più provinciali (come quella , dove opero dal 1991,), non seppero contrastare adeguatamente le pressioni dei direttori di sede e accettarono di svolgere, a latere di un lavoro già impegnativo, anche lavoro amministrativo. Quivi u collega , come tutto ringraziamento per essersi occupato anche di rendite, fu deferito alla Corte dei Conti e si vide per anni la liquidazione bloccata). Come era prevedibile ne uscì pulito, visto che la causa del danno erariale era da ascriversi non al suo operato, bensì a patologie organizzative endemiche, ma non ripagato a sufficienza né del lavoro svolto, né dei patemi subiti.
Questo legame diretto con la direzione centrale, come vedremo in seguito, da via di fuga si trasformerà in un boomerang e, comunque, ha rappresentato fin dall’inizio una ulteriore patologia organizzativa che si cronicizzerà. Grazie al combinato disposto di questa doppia stortura, i problemi informatici erano (e sono) percepiti come problemi esclusivi “degli informatici” e basta, e non della struttura di appartenenza. Addirittura la gestione di parte degli approvvigionamenti del materiale di consumo (ad es. nastri e cartucce per stampanti, diversamente da quanto accadeva per la carta e le penne) avveniva (e in molte realtà ancora avviene) a cura dei CED e non di quelli che, al tempo, si chiamavano economati). Fin da allora, e proprio grazie agli atteggiamenti di coloro che sembrava auspicassero il contrario, avveniva la trasformazione di fatto del CED in “corpo separato” a cui tutto chiedere e nulla dare in termini di logistica e sinergie organizzative, salvo far valere la gerarchia ove ve ne fosse necessità: il CED già da allora percepito come “appaltatore” dei sevizi informatici e non già come momento organizzativamente e logisticamente coordinato con il resto della struttura.
I RAPPORTI CON I COLLEGHI
La questione dei “fannulloni” (Brunetta) e/o “nullafacenti” (Ichino) non nasce per caso o per invenzione: insufficienze logistico-organizzative, modalità di selezione del personale ingerenze indebite e abusive da parte di elementi politici (e conseguenti cattivi esempi) hanno, nel tempo, portato il personale ad assumere modalità di adattamento al “sistema” tali da legittimare e garantire, pro domo sua, sempre il massimo rendimento con il minimo sforzo ed evitare il rischio di “sovraesposizione”. Il motto potrebbe essere “sbaglia chi lavora e io non sbaglio mai”.
Quale alibi migliore dunque dell’informatica che non funziona? Come recita un saggio proverbio piemontese “Na cativa lavandera a treuva mai na bona pera” (la cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra). Peccato che a fare da parafulmine fossero (e sono) gli informatici, sia per i malfunzionamenti endemici all’INAIL, sia per la strumentalizzazione di questi.
Un illuminante aforisma dice: “Quando gli altri non sanno ciò che tu sai, tu non sai niente”. Quando a non sapere ciò che tu sai è il tuo responsabile il clima si fa pesante.
Il rapporto con i dirigenti normalmente si manifesta in due modalità tipiche, opposte ma entrambe esiziali. La prima consiste nella pretesa di fare i controllori con gli strumenti che man mano ti mette a disposizione il controllato; la seconda, più subdola, nel “dare carta bianca” per non assumersi nemmeno le responsabilità di carattere generale e/o liminare.
Il rapporto con i colleghi amministrativi è ancora più scivoloso. A parte rare eccezioni la norma consiste nello spacciare per “tecnico” e quindi di competenza dell’informatico, ogni problema di tipo pratico o gestionale, dalla sostituzione della cartuccia di toner fino all’uso di un programma applicativo o di una procedura informatizzata nella quale l’informatico non può nemmeno entrare perché, correttamente, non abilitato. Il problema non è tanto quello di ricordare agli interessati, anche a muso duro, che sono affari loro, ma di ricevere comunque venti telefonate e discutere venti volte, quando solo una o due di quelle telefonate sono pertinenti. Dati i presupposti non si tratta mai di telefonate “serene”.
I peggiori sono quelli che o perché sanno che verranno mandati al diavolo o perché non vogliono assumersi la piena responsabilità della loro accidia, vanno dal direttore. Questi ovviamente chiama l’informatico e, dopo aver ottenuto la spiegazione, chiede “per favore” di mettere in condizione il collega, solitamente un caso umano, di operare, o di smascherare l’alibi. Questo comporta ovviamente il dover affrontare tensioni interpersonali delle quali chi ha scelto di occuparsi di questioni tecniche non è tenuto a occuparsi, il dover assistere, in alcuni casi a scenate isteriche, pianti e sceneggiate invereconde.
Vi è inoltre la pretesa che l’informatico supplisca a formazione, informazione, addestramento carenti o del tutto inesistenti (grottesco dopo oltre quindici anni di formazione negata).
Solitudine, incomprensione, carico mentale (elaborare soluzioni a problemi è diverso che passar carte!), carico psicologico da oggettive difficoltà relazionali diventano il leitmotiv di una funzione che dovrebbe essere esclusivamente tecnica!
RIPRENDIAMO LA STORIA
Intanto l’informatica continuava ad evolversi. All’inizio degli anni ’90 ai vecchi mainframe vennero affiancati sottosistemi UNIX per la gestione delle azioni di rivalsa (progetto “polaris”) e di quella che poi sarebbe diventata la “gestione documentale”), ai terminali stupidi vennero sostituiti dei personal computer con sistema operativo windows 3.1 e subito dopo windows ’95, comparvero i primi collegamenti internet, su rete ISDN e i primi indirizzi di posta elettronica, abusivi e artigianali, implementati a cura dei CED (su sollecitazione impropria della dirigenza) grazie ai servizi offerti da provider gratuiti tipo “libero” (bisognava “far vedere” all’“esterno” che si era “avanti”).
Sempre pressati da un surplus di lavoro derivante dai rapporti distorti con i colleghi e con la dirigenza, gli informatici si trovarono a lavorare dovendo dominare contemporaneamente almeno sette sistemi operativi diversi (DPPX, dos, windows 3, windows 95, due versioni di UNIX, OS2 IBM…) in un clima di solitudine oppressiva e quasi di ostilità da parte dei colleghi che opponevano fiera resistenza ad ogni evoluzione e ad ogni richiesta di farsi parte attiva del cambiamento.
Intanto, a peggiorare una situazione già critica, cominciava il turn-over della prima generazione di informatici. A Roma il PAU spariva ed iniziavano le esternalizzazioni, nel silenzio di sindacati sospettabili di collusione, per la “periferia”, a parte un concorso, si continuava a pescare dalla lista dei test psico-attitudinali senza comprendere che non si trattava di una graduatoria di “idonei” e che sotto un certo punteggio esisteva l’inidoneità certificata.
Mi accorsi che molte operazioni qualificanti, demandate al centro, potevano essere compiute in periferia e ne parlai con alcuni interlocutori qualificati. La versione corrente era che non si potessero affidare compiti delicati a persone che “avrebbero fatto danno”, visti gli ultimi ingressi nei CED (sì, ma perché li hanno selezionati?). Ma forse si voleva solo affidare alle società esterne per motivi non sempre chiari l’attività(i progetti avviati intanto fallivano aprendo una ponderosa stagione di scandali con tanto di arresti).
Le esternalizzazioni intanto continuavano, il monopolio IBM-Olivetti-Telecom si sgretolava e si affacciavano alla ribalta sempre più numerosi soggetti esterni, spesso, si dice, nati ad hoc, ai quali veniva affidata la migrazione delle procedure istituzionali da mainframe ad archittettura “client-server”. Questa prima migrazione avveniva affidando a diverse società esterne la riscrittura delle procedure senza che questi soggetti colloquiassero tra di loro. Si arrivò al punto di non poter caricare più procedure sullo stesso pc e all’impossibilità di avere una configurazione standard per tutti i pc, e questo creò problemi logistico organizzativi enormi in periferia, dove, si dovevano rattoppare le carenze centrali con soluzioni subottimali e di corto respiro. Le soluzioni e gli adattamenti per rimediare a quella “sommarietà” romana che poi sarebbe diventata la regola, dipendevano quindi esclusivamente dagli informatici “periferici” sui quali ricadeva l’onere di far funzionare tutto nonostante tutto. I corsi di aggiornamento e i viaggi verso Roma diminuirono fino ad azzerarsi completamente e, in periferia ormai ci si doveva affidare pressoché esclusivamente all’esperienza dei singoli e alla buona volontà.
Finalmente questa fase finì e si arrivo alla migrazione delle procedure su piattaforma web. Nel frattempo i sistemi dipartimentali, i mainframe, erano stati dismessi.
Gli informatici periferici non vennero più rimpiazzati e a quelli rimasti vennero affidati i compiti “residuali”, quello che al netto di qualsiasi eufemismo, si è soliti chiamare “lavoro di merda”. Dequalificazione professionale e demansionamento avanzavano spediti e inesorabili.
I RAPPORTI CON LE SOCIETA’ ESTERNE
Se dal punto di vista sindacale sull’argomento vi sarebbe molto da dire, la scelta di esternalizzare dal punto di vista aziendale è una scelta come un’altra.
Una corretta logica però avrebbe voluto che le società esterne operassero sul territorio coordinate e controllate da nostro personale. Nonostante gli informatici territoriali si relazionassero quotidianamente con le società esterne questo non è avvenuto. Si è preferito, come ho già detto, depauperare un personale altamente qualificato di mansioni e funzioni, ponendolo sullo stesso piano del personale esterno, ferme restando però le responsabilità legate alla “funzione pubblica”. I compiti del personale INAIL sono di fatto diventati indistinguibili da quelli degli addetti esterni, così che taluni lavori rischiano di essere pagati due volte, una volta attraverso il corrispettivo del contratto con la società esterna, un’altra con lo stipendio del funzionario. Nessuno, nemmeno il sindacato, ha fatto chiarezza su questo delicatissimo aspetto.
Al momento attuale, a livello di Direzione Centrale , il rapporto con gli esterni è quello corretto, in quanto questi sono controllati e coordinati dai nostri, mentre il rapporto tra informatici periferici e esterni non lo è. Costoro si permettono di scrivere e telefonare ai nostri funzionari sul territorio impartendo disposizioni di fatto, imponendo scadenze, modalità e metodi come se fossero elementi gerarchicamente sovraordinati. Quando ho scoperto e mi sono opposto al giochetto è stato tutto un piagnucolare e un ricorso alla retorica della “collaborazione”, e del “tavolo di lavoro”, favolette a cui possono credere solo gli ingenui, che tra gli informatici, sono molti.
Un esempio per capire: la gestione della telefonia IP. Quando i telefoni tradizionali vennero sostituiti da telefoni IP nulla funzionava a dovere. Il numero dell’help-desk a cui rivolgersi in caso di malfunzionamenti era (ed è) lo 06 ……….. Ovviamente i colleghi preferivano rivolgersi agli informatici presenti in loco e dovetti affrontare una non facile campagna di persuasione per far sì che si rivolgessero direttamente a chi di dovere, visto che per questo era (è) pagato. Poiché il più delle volte, per risolvere i problema, si doveva eseguire qualche modesta operazione sugli apparecchi telefonici o sugli switch, gli operatori del servizio fonia, dopo aver ricevuto la telefonata dall’utente in difficoltà e preso in carico il problema, constatata l’incapacità di questi di eseguire quelle banali operazioni richieste, telefonavano a noi del CED chiedendo, appunto, “collaborazione”. Alla fine sulla carta figurava che quegli interventi erano stati presi in carico e risolti dalla società esterna preposta (tanto di numero di ticket registrato), mentre il lavoro lo facevamo, per loro, noi funzionari. Quando, polemicamente, scrissi una mail chiedendo copia del contratto al fine di capire se stavo, in quei momenti, lavorando per il mio ente o per una società esterna che non era in grado di far fronte ai sui compiti, visto che le richieste di “collaborazione” erano diventate pressanti e quotidiane, scoppiò il finimondo e il risultato fu che a me non telefonarono più preferendo rivolgersi esclusivamente ad altri collega giudicati più malleabili. A quel punto promossi un’inversione di rotta: invitai i colleghi amministrativi a non comporre più il numero di Roma, ma a rivolgersi nuovamente al CED, insegnai a molti di loro come risolvere i problemi più comuni e feci calare drasticamente il numero dei ticket aperti, se non altro per onorare un principio di realtà.
LA “SPENDING REWIEW” E IL NUOVO MODELLO ORGANIZZATIVO
Il sottotitolo potrebbe essere “cornuti e mazziati”.
Quando il governo Monti, con la “spending review” impose alla amministrazioni dei tagli alla spesa, il nostro ente sempre zelante nei confronti del potere, decise di eliminare gli informatici periferici e di chiudere i CED lasciando solo un “processo informatico” a livello di direzione regionale. Particolarmente zelante e attivo e attento (fino alla petulanza) nel perseguire il nobile obiettivo fu un personaggio di estrazione sindacale pervenuto alle vette dell’ente.
Se dal punto di vista sindacale la chiusura dei CED periferici poteva costituire un problema (risolvibile con i pensionamenti grazie al saggio attendismo strategico dei sindacati e di parte della dirigenza centrale), in una prospettiva di seria riorganizzazione aziendale risponde indiscutibilmente ad una logica di razionalizzazione. Le procedure di lavoro stavano migrando su piattaforma “web”, i server sparivano dai CED e venivano accentrati e “virtualizzati” e i “client” si “alleggerivano”.
Con una buona politica di investimento e riqualificazione delle risorse umane residue, con una esternalizzazione puntuale che prevedesse un rapporto diretto, tramite call center tra utenti amministrativi e società esterne, si sarebbe potuto progettare un percorso virtuoso per conferire agli informatici periferici un ruolo di coordinamento, studio, elaborazione di soluzioni organizzative, funzioni di auditing per orientare la platea degli utenti ad un corretto uso delle risorse informatiche, soprattutto in collaborazione con il professionista della CIT (presente in ogni direzione regionale ma dipendente direttamente da un coordinatore “romano”), sgravandoli del “lavoro di merda”. Si è preferito invece puntare sui “sopravvissuti” per colmare la sommarietà con cui venivano licenziate le novità tecnologiche. E’ come se Una casa automobilistica rilasciasse delle vetture difettose scaricando consapevolmente i problemi su un concessionario privo di mezzi. Insomma, funzionari apicali trasformati in ordinari sbrigafaccende privi di strumenti a disposizione di chiunque per risolvere i problemi più disparati all’interno di una catastrofe organizzativa ormai endemica sulla quale sarebbe opportuno accendere dei potenti riflettori a vari livelli.