Le stabilizzazioni nell’ambito del Servizio Sanitario Regionale sono possibili sino al 31.12.2024

Le regole generali per la stabilizzazione

Le stabilizzazioni nell’ambito del Pubblico Impiego trovano fondamento nell’articolo 20 del DLGS 75/2017 che così dispone:

“1. Le amministrazioni, al fine di superare il precariato, ridurre il ricorso ai contratti a termine e valorizzare la professionalità acquisita dal personale con rapporto di lavoro a tempo determinato, possono, fino al 31 dicembre 2023, in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni di cui all’articolo 6, comma 2, e con l’indicazione della relativa copertura finanziaria, assumere a tempo indeterminato personale non dirigenziale che possegga tutti i seguenti requisiti:

  1. a) risulti in servizio successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015 con contratti a tempo determinato presso l’amministrazione che procede all’assunzione o, in caso di amministrazioni comunali che esercitino funzioni in forma associata, anche presso le amministrazioni con servizi associati;
  2. b) sia stato reclutato a tempo determinato, in relazione alle medesime attività svolte, con procedure concorsuali anche espletate presso amministrazioni pubbliche diverse da quella che procede all’assunzione;
  3. c) abbia maturato, al 31 dicembre 2022, alle dipendenze dell’amministrazione di cui alla lettera a) che procede all’assunzione, almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni.
  4. Fino al 31 dicembre 2024, le amministrazioni possono bandire, in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni di cui all’articolo 6, comma 2, e ferma restando la garanzia dell’adeguato accesso dall’esterno, previa indicazione della relativa copertura finanziaria, procedure concorsuali riservate, in misura non superiore al cinquanta per cento dei posti disponibili, al personale non dirigenziale che possegga tutti i seguenti requisiti: 
  5. a) risulti titolare, successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, di un contratto di lavoro flessibile presso l’amministrazione che bandisce il concorso;
  6. b) abbia maturato, alla data del 31 dicembre 2024, almeno tre anni di contratto, anche non continuativi, negli ultimi otto anni, presso l’amministrazione che bandisce il concorso.

2-bis. Anche per le finalità connesse alla stabilizzazione delle ricerche collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), le disposizioni dei commi 1 e 2, con riferimento agli enti pubblici di ricerca di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 218, sono prorogate fino al 31 dicembre 2026.

  1. Ferme restando le norme di contenimento della spesa di personale, le pubbliche amministrazioni, fino al 31 dicembre 2022, ai soli fini di cui ai commi 1 e 2, possono elevare gli ordinari limiti finanziari per le assunzioni a tempo indeterminato previsti dalle norme vigenti, al netto delle risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per reclutamento tramite concorso pubblico, utilizzando a tal fine le risorse previste per i contratti di lavoro flessibile, nei limiti di spesa di cui all’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge 20 luglio 2010, n. 122, calcolate in misura corrispondente al loro ammontare medio nel triennio 2015-2017 a condizione che le medesime amministrazioni siano in grado di sostenere a regime la relativa spesa di personale previa certificazione della sussistenza delle correlate risorse finanziarie da parte dell’organo di controllo interno di cui all’articolo 40-bis, comma 1, e che prevedano nei propri bilanci la contestuale e definitiva riduzione di tale valore di spesa utilizzato per le assunzioni a tempo indeterminato dal tetto di cui al predetto articolo 9, comma 28. 
  2. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non possono essere applicate dai comuni che per l’intero quinquennio 2012-2016 non hanno rispettato i vincoli di finanza pubblica. Le regioni a statuto speciale, nonché gli enti territoriali ricompresi nel territorio delle stesse, possono applicare il comma 1, elevando ulteriormente i limiti finanziari per le assunzioni a tempo indeterminato ivi previsti, anche mediante l’utilizzo delle risorse, appositamente individuate con legge regionale dalle medesime regioni che assicurano la compatibilità dell’intervento con il raggiungimento dei propri obiettivi di finanza pubblica, derivanti da misure di revisione e razionalizzazione della spesa certificate dagli organi di controllo interno. Ai fini del rispetto delle disposizioni di cui all’articolo 1, commi 557e 562, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, gli enti territoriali delle predette regioni a statuto speciale, calcolano inoltre la propria spesa di personale al netto dell’eventuale cofinanziamento erogato dalle regioni ai sensi del periodo precedente. I predetti enti possono prorogare i rapporti di lavoro a tempo determinato fino al 31 dicembre 2018, nei limiti delle risorse utilizzabili per le assunzioni a tempo indeterminato, secondo quanto previsto dal presente articolo. Per gli stessi enti, che si trovino nelle condizioni di cui all’articolo 259 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, la proroga di cui al quarto periodo del presente comma è subordinata all’assunzione integrale degli oneri a carico della regione ai sensi del comma 10 del citato articolo 259.
  3. Fino al termine delle procedure di cui ai commi 1 e 2, è fatto divieto alle amministrazioni interessate di instaurare ulteriori rapporti di lavoro flessibile di cui all’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, per le professionalità interessate dalle predette procedure. Il comma 9-bis dell’articolo 4del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, è abrogato.
  4. Resta fermo quanto previsto dall’articolo 1, commi 425426 della legge 23 dicembre 2014, n. 190.
  5. Ai fini del presente articolo non rileva il servizio prestato negli uffici di diretta collaborazione di cui all’articolo 14del decreto legislativo n. 165 del 2001 o degli organi politici delle regioni, secondo i rispettivi ordinamenti, né quello prestato in virtù di contratti di cui agli articoli 90 e 110 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
  6. Le amministrazioni possono prorogare i corrispondenti rapporti di lavoro flessibile con i soggetti che partecipano alle procedure di cui ai commi 1 e 2, fino alla loro conclusione, nei limiti delle risorse disponibili ai sensi dell’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.
  7. Il presente articolo non si applica al reclutamento del personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) presso le istituzioni scolastiche ed educative statali. Fino all’adozione del regolamento di cui all’articolo 2, comma 7, lettera e), della legge 21 dicembre 1999, n. 508, le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle Istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica. I commi 5 e 6 del presente articolo non si applicano agli enti pubblici di ricerca di cui al decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 218. Per i predetti enti pubblici di ricerca il comma 2 si applica anche ai titolari di assegni di ricerca in possesso dei requisiti ivi previsti. Il presente articolo non si applica altresì ai contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni. 
  8. Per il personale dirigenziale e non dirigenziale del Servizio sanitario nazionale, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 543, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, la cui efficacia è prorogata al 31 dicembre 2019 per l’indizione delle procedure concorsuali straordinarie, al 31 dicembre 2020 per la loro conclusione, e al 31 ottobre 2018 per la stipula di nuovi contratti di lavoro flessibile ai sensi dell’articolo 1, comma 542, della legge 28 dicembre 2015, n. 208
  9. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano al personale, dirigenziale e no, di cui al comma 10, nonché al personale delle amministrazioni finanziate dal Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, anche ove lo stesso abbia maturato il periodo di tre anni di lavoro negli ultimi otto anni rispettivamente presso diverse amministrazioni del Servizio sanitario nazionale o presso diversi enti e istituzioni di ricerca. 7

11-bis. Allo scopo di fronteggiare la grave carenza di personale e superare il precariato, nonché per garantire la continuità nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, per il personale medico, tecnico-professionale e infermieristico, dirigenziale e no, del Servizio sanitario nazionale, le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano fino al 31 dicembre 2022. Ai fini del presente comma il termine per il conseguimento dei requisiti di cui al comma 1, lettera c), e al comma 2, lettera b), è stabilito alla data del 31 dicembre 2022, fatta salva l’anzianità di servizio già maturata sulla base delle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto.

  1. 12. Ai fini delle assunzioni di cui al comma 1, ha priorità il personale in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto.
  2. In caso di processi di riordino, soppressione o trasformazione di enti, con conseguente transito di personale, ai fini del possesso del requisito di cui ai commi 1, lettera c), e 2, lettera b), si considera anche il periodo maturato presso l’amministrazione di provenienza.
  3. Le assunzioni a tempo indeterminato disciplinate dall’articolo 1, commi 209211212, della legge 27 dicembre 2013, n. 147sono consentite anche nel triennio 2018-2020. Per le finalità di cui al presente comma le amministrazioni interessate possono utilizzare, altresì, le risorse di cui ai commi 3 e 4 o previste da leggi regionali, nel rispetto delle modalità, dei limiti e dei criteri previsti nei commi citati. Ai fini delle disposizioni di cui all’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, gli enti territoriali calcolano la propria spesa di personale al netto dell’eventuale cofinanziamento erogato dallo Stato e dalle regioni. Le amministrazioni interessate possono applicare la proroga degli eventuali contratti a tempo determinato secondo le modalità previste dall’ultimo periodo del comma 4”.

Trattasi quindi di procedure agevolate di assunzione riservate a chi abbia lavorato per almeno un triennio anche non continuativo anche non continuativo nell’ambito degli ultimi otto anni con contratto a termine ed in questo caso l’ammissione in servizio è diretta, oppure abbia lavorato con altro contratto flessibile di almeno tre anni anche non continuativi negli ultimi otto. In questo caso l’assunzione avviene invece tramite concorso con la riserva del 50% dei posti.

Il settore della sanità dopo il COVID-19

Per quanto riguarda il settore della sanità, la previsione di legge attuale è data, anche in riferimento all’emergenza da COVID-19, dalla legge di bilancio 30.12.2021 n.234, articolo 1, comma 268.

Vi si legge:

“Al fine di rafforzare strutturalmente i servizi sanitari regionali anche per il recupero delle liste d’attesa e di consentire la valorizzazione della professionalità acquisita dal personale che ha prestato servizio anche durante l’emergenza da COVID-19, gli enti del Servizio sanitario nazionale, nei limiti di spesa consentiti per il personale degli enti medesimi dall’articolo 11, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2019, n. 60, come modificato dal comma 269 del presente articolo:

  1. a) verificata l’impossibilità di utilizzare personale già in servizio, nonché di ricorrere agli idonei collocati in graduatorie concorsuali in vigore, possono avvalersi, anche per gli anni 2022 e 2023, delle misure previste dagli articoli 2-bis, limitatamente ai medici specializzandi di cui al comma 1, lettera a), del medesimo articolo, e 2-ter, commi 1 e 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, anche mediante proroga, non oltre il 31 dicembre 2023, degli incarichi conferiti ai sensi delle medesime disposizioni;58
  2. b) ferma restando l’applicazione dell’articolo 20 del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, dal 1° luglio 2022 e fino al 31 dicembre 2024 possono assumere a tempo indeterminato, in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni di personale, il personale del ruolo sanitario e del ruolo sociosanitario, anche qualora non più in servizio, che siano stati reclutati a tempo determinato con procedure concorsuali, ivi incluse le selezioni di cui all’articolo 2-ter del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, e che abbiano maturato al 31 dicembre 2023 alle dipendenze di un ente del Servizio sanitario nazionale almeno diciotto mesi di servizio, anche non continuativi, di cui almeno sei mesi nel periodo intercorrente tra il 31 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2022, secondo criteri di priorità definiti da ciascuna regione. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto mediante procedure diverse da quelle sopra indicate si provvede previo espletamento di prove selettive;5759
  3. c) possono, anche al fine di reinternalizzare i servizi appaltati ed evitare differenze retributive a parità di prestazioni lavorative, in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni di personale, avviare procedure selettive per il reclutamento del personale da impiegare per l’assolvimento delle funzioni reinternalizzate, prevedendo la valorizzazione, anche attraverso una riserva di posti non superiore al 50 per cento di quelli disponibili, del personale impiegato in mansioni sanitarie e socio-sanitarie corrispondenti nelle attività dei servizi esternalizzati che abbia garantito assistenza ai pazienti in tutto il periodo compreso tra il 31 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021 e con almeno tre anni di servizio”.

Si tratta nel caso di specie di ipotesi specifica subordinata ai requisiti di cui sopra cui si aggiunge il requisito, nell’ambito dei 18 mesi, di almeno sei mesi di servizio svolto tra il 31 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2022.

Oltre alle ipotesi di precariato svolto mediante contratti a termine, si consente l’assunzione per il tramite di concorso per coloro che abbiano lavorato con altri contratti flessibili.

Possono inoltre essere avviati appositi concorsi per riassorbire nella misura del 50% coloro che abbiano lavorato nell’ambito di servizi appaltati dalla sanità pubblica a soggetti esterni.

La regolamentazione ad hoc – Conferenza Stato Regioni

Trattandosi di rapporti di lavoro nell’ambito delle Aziende Sanitarie che fanno capo alle Regioni, la materia oltre che ad essere disciplinata dalla normativa nazionale in tema di pubblico impiego, trova le proprie regole di dettaglio nel documento emesso in data 10.5.2023 dalla Conferenza Stato Regioni in merito all’applicazione della disciplina in materia di stabilizzazione del personale del Servizio Sanitario Nazionale.

Il documento prevede la possibilità di assumere direttamente o previo esperimento di prova selettiva o utilizzando graduatorie di contratti a termine.

Ciò significa che chi ha maturato i 18 mesi nell’ambito di contratti a termine, potrà accedere direttamente all’impiego per il tramite della stabilizzazione.

Diversamente chi ha operato con contratto di lavoro autonomo o con altre forme di lavoro flessibile dovrà partecipare ad una procedura concorsuale.

Non può essere destinatario della stabilizzazione chi ha lavorato con contratto di somministrazione (tramite agenzia).

Resta sempre applicabile l’articolo 35 del DLGS 165/2001 che impone il limite delle assunzioni per gli enti pubblici dall’esterno nella misura del 50% delle risorse complessivamente programmate per l’assunzione di personale in conformità al piano triennale dei fabbisogni inserito nel PIAO (documento di programmazione delle assunzioni).

In concreto, chi desidera fruire delle stabilizzazioni deve verificare:

  1. calcolare il periodo di lavoro svolto con contratto precario;
  2. verificare la tipologia di rapporto: deve essere contratto a termine o altra forma di precariato, no somministrazione;
  3. verificare presso l’amministrazione di destinazione se hanno in programma assunzioni per il tramite della stabilizzazione;
  4. se assunti già a termine – possibilità di assunzione diretta
  5. se altre forme di precariato, necessita il concorso.

avv. Fabio Petracci

SENTENZA – RIDERS, ammessa l’azione per condotta antisindacale.

Articolo 28 condotta antisindacale, applicabilità anche in assenza di subordinazione. Articolo 2 comma 1 DLGS 81/2015.

Tribunale Palermo, Sez. lavoro, Sent., 03/04/2023, n. 14491

La pronuncia che si annota pare rilevante in quanto ammette l’azione per condotta antisindacale ex articolo 28 legge 300/70 nell’ambito di un rapporto di lavoro che, anziché presentare i tratti della subordinazione, pare rientrare nella fattispecie di cui all’art. 2 comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2015 a tenore del quale “A far data dal 1gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione, sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.”.

Ritiene il Tribunale di Palermo come il lavoro dei cosiddetti Riders, ben possa inserirsi in detta fattispecie legale, cui per legge vanno applicate le tutele previste per i lavoratori subordinati.

Ha sostenuto il Tribunale come, analizzando il meccanismo di funzionamento dell’app che gestisce le prestazioni lavorative dei riders è emerso come il modello organizzativo fosse standardizzato per tutte le società interessate e corrispondente a quello tutelato dall’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2015, che prevede, appunto, le tutele del lavoro subordinato.

Giova quindi rilevare, ha sottolineato la sentenza in esame, come la giurisprudenza di merito, concordando pressoché costantemente sull’inquadramento della prestazione resa dai riders nell’alveo dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81 del 2015, abbia ritenuto applicabile l’art. 28 L. n. 300 del 1970 a fattispecie analoghe a quella in esame (Trib. Bologna 2021 n. 2170, Trib. Milano 28.3.2021, Trib. Bologna 12.1.2023).

Le considerazioni espresse non si basano soltanto sull’equiparazione legale del trattamento della prestazione resa da questa specifica categoria di lavoratori al lavoro subordinato, ma anche su argomenti maggiormente complessi.

Sostiene il giudice del lavoro palermitano come al  riguardo devono richiamarsi, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att., le argomentazioni espresse dal Tribunale di Milano nel decreto n. 889/2021 secondo cui “la norma, invero, parla di “datore di lavoro”, figura che, certamente non si rinviene nell’ambito di un rapporto in cui il lavoratore è un prestatore d’opera occasionale e non un lavoratore subordinato.

Ciò posto, si potrebbe obbiettare che, mentre l’art. 414 c.p.c. non riserva la propria operatività a determinate ipotesi soggettive, la lettera dell’art. 28 St. Lav., invece, pare delimitare la sua sfera di applicazione alle condotte antisindacali poste in essere da un datore di lavoro, quindi, nell’ambito di una subordinazione.

Aggiunge la sentenza di cui in epigrafe come occorra, tuttavia, considerare che la disposizione si colloca in un momento temporale e storico non recente e che, dal 1970, vi sono stati numerosi interventi legislativi, da ultimo l’art. 2D.Lgs. n. 81 del 2015. (…) La disposizione si colloca all’interno di una serie di interventi legislativi (decreti attuativi del JOB Act) con i quali si è inteso prendere consapevolezza delle numerose innovazioni, anche di carattere tecnologico che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato il mondo del lavoro introducendo figure di lavoratori prima sconosciuti e forme di rapporti diversi da quelli tradizionali.

In questo stesso senso, anche il Tribunale di Firenze ha affermato: “È principio giurisprudenziale acquisito quello secondo cui l’art. 2 comma 1 del D.Lgs. n. 81 del 2015 ha riconosciuto alle collaborazioni organizzate dal committente ‘una protezione equivalente’ a quella dei lavoratori subordinati con ‘applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato’ (cfr. Cass. Sez. L -, Sentenza n. 1663 del 24/01/2020), nella quale sono compresi i diritti affermati nello Statuto dei lavoratori.

Va in tema di fattorini che eseguono le consegne a domicilio, citata Cassazione Sezione Lavoro 24.1.2020 n.1663 ha ritenuto che ai fattorini che effettuano consegna dei pasti a domicilio a seguito di un contratto di collaborazione stipulato con un’impresa che ne gestisce il rapporto attraverso una piattaforma digitale può trovare applicazione l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015, laddove l’eterorganizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente. L’art. 2 rappresenta infatti non un tertium genus compreso tra subordinazione e autonomia, ma una norma di disciplina volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato.

La stessa sentenza ha inoltre chiarito come ai rapporti di collaborazione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, in un’ottica sia di prevenzione sia “rimediale”, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato quando la prestazione del collaboratore sia esclusivamente personale, venga svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi ed al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente, senza che il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta sia tenuto a compiere ulteriori indagini, né possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento dal giudizio qualificatorio di sintesi.

La sentenza è seguita da un’interessante nota di Giuseppe Antonio Recchia, Il Lavoro nella giurisprudenza n.3, 1 marzo 2020, p.239.

SENTENZA – RIDERS, Articolo 28 condotta antisindacale, applicabilità anche in assenza di subordinazione.

Articolo 2 comma 1 DLGS 81/2015.

Tribunale Palermo, Sez. lavoro, Sent., 03/04/2023, n. 14491

La pronuncia che si annota pare rilevante in quanto ammette l’azione per condotta antisindacale ex articolo 28 legge 300/70 nell’ambito di un rapporto di lavoro che, anziché presentare i tratti della subordinazione, pare rientrare nella fattispecie di cui all’art. 2 comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2015 a tenore del quale “A far data dal 1gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione, sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.”.

Ritiene il Tribunale di Palermo come il lavoro dei cosiddetti Riders, ben possa inserirsi in detta fattispecie legale, cui per legge vanno applicate le tutele previste per i lavoratori subordinati.

Ha sostenuto il Tribunale come, analizzando il meccanismo di funzionamento dell’app che gestisce le prestazioni lavorative dei riders è emerso come il modello organizzativo fosse standardizzato per tutte le società interessate e corrispondente a quello tutelato dall’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2015, che prevede, appunto, le tutele del lavoro subordinato.

Giova quindi rilevare, ha sottolineato la sentenza in esame, come la giurisprudenza di merito, concordando pressoché costantemente sull’inquadramento della prestazione resa dai riders nell’alveo dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81 del 2015, abbia ritenuto applicabile l’art. 28 L. n. 300 del 1970 a fattispecie analoghe a quella in esame (Trib. Bologna 2021 n. 2170, Trib. Milano 28.3.2021, Trib. Bologna 12.1.2023).

Le considerazioni espresse non si basano soltanto sull’equiparazione legale del trattamento della prestazione resa da questa specifica categoria di lavoratori al lavoro subordinato, ma anche su argomenti maggiormente complessi.

Sostiene il giudice del lavoro palermitano come al  riguardo devono richiamarsi, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att., le argomentazioni espresse dal Tribunale di Milano nel decreto n. 889/2021 secondo cui “la norma, invero, parla di “datore di lavoro”, figura che, certamente non si rinviene nell’ambito di un rapporto in cui il lavoratore è un prestatore d’opera occasionale e non un lavoratore subordinato.

Ciò posto, si potrebbe obbiettare che, mentre l’art. 414 c.p.c. non riserva la propria operatività a determinate ipotesi soggettive, la lettera dell’art. 28 St. Lav., invece, pare delimitare la sua sfera di applicazione alle condotte antisindacali poste in essere da un datore di lavoro, quindi, nell’ambito di una subordinazione.

Aggiunge la sentenza di cui in epigrafe come occorra, tuttavia, considerare che la disposizione si colloca in un momento temporale e storico non recente e che, dal 1970, vi sono stati numerosi interventi legislativi, da ultimo l’art. 2D.Lgs. n. 81 del 2015. (…) La disposizione si colloca all’interno di una serie di interventi legislativi (decreti attuativi del JOB Act) con i quali si è inteso prendere consapevolezza delle numerose innovazioni, anche di carattere tecnologico che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato il mondo del lavoro introducendo figure di lavoratori prima sconosciuti e forme di rapporti diversi da quelli tradizionali.

In questo stesso senso, anche il Tribunale di Firenze ha affermato: “È principio giurisprudenziale acquisito quello secondo cui l’art. 2 comma 1 del D.Lgs. n. 81 del 2015 ha riconosciuto alle collaborazioni organizzate dal committente ‘una protezione equivalente’ a quella dei lavoratori subordinati con ‘applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato’ (cfr. Cass. Sez. L -, Sentenza n. 1663 del 24/01/2020), nella quale sono compresi i diritti affermati nello Statuto dei lavoratori.

Va in tema di fattorini che eseguono le consegne a domicilio, citata Cassazione Sezione Lavoro 24.1.2020 n.1663 ha ritenuto che ai fattorini che effettuano consegna dei pasti a domicilio a seguito di un contratto di collaborazione stipulato con un’impresa che ne gestisce il rapporto attraverso una piattaforma digitale può trovare applicazione l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015, laddove l’eterorganizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente. L’art. 2 rappresenta infatti non un tertium genus compreso tra subordinazione e autonomia, ma una norma di disciplina volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato.

La stessa sentenza ha inoltre chiarito come ai rapporti di collaborazione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, in un’ottica sia di prevenzione sia “rimediale”, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato quando la prestazione del collaboratore sia esclusivamente personale, venga svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi ed al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente, senza che il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta sia tenuto a compiere ulteriori indagini, né possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento dal giudizio qualificatorio di sintesi.

La sentenza è seguita da un’interessante nota di Giuseppe Antonio Recchia, Il Lavoro nella giurisprudenza n.3, 1 marzo 2020, p.239.

Fabio Petracci

SENTENZA Corte costituzionale – Procedure di stabilizzazione precluse ai lavoratori somministrati

Pubblico Impiego – Stabilizzazione del Personale Precario – Lavoratori Somministrati – Inapplicabilità delle procedure di stabilizzazione.

DLGS 75 /2017 articolo 20 commi 2 e 9 – esclusione dei lavoratori titolari di contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni dalla possibilità di partecipare alle procedure concorsuali riservate in misura non superiore al 50% dei posti disponibili al personale non dirigenziale che risulti titolare di un contratto di lavoro flessibile.

Corte Costituzionale sentenza 12 maggio 2023 n.95 – insussistenza della questione di legittimità costituzionale.

La decisione in sintesi

La consulta ha ritenuto come le procedure di stabilizzazione costituiscano uno strumento di reclutamento derogatorio rispetto a quello ordinario del pubblico concorso, in quanto introducono un percorso riservato ad una platea ristretta di soggetti in possesso di specifici requisiti che abbiano maturato un periodo di esperienza lavorativa in ambito pubblico.

Nel caso di specie, ha rammentato la Consulta, il rapporto di lavoro vero è quello che intercorre tra agenzia e dipendente e, rispetto ad esso, non rilevano le vicende del contratto concluso tra agenzia ed utilizzatore.

Ha precisato quindi la Consulta come il contratto tra l’agenzia ed il dipendente non trova origine in una procedura selettiva, in quanto la Pubblica Amministrazione risulta essere soltanto un utilizzatore.

Ha quindi concluso precisando come i lavoratori messi a disposizione della Pubblica Amministrazione per tutta la durata della missione, pur svolgendo la loro attività nell’interesse e sotto la direzione dell’ente, non vengono ovviamente reclutati mediante l’espletamento di procedure concorsuali.

Quindi secondo la Corte, non sussiste alcuna ingiustificata disparità di trattamento.

Di seguito il testo integrale dell’ordinanza.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 9, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, recante “Modifiche e integrazioni al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della L. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, promosso dal Tribunale ordinario di Massa, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra M. F. e il Comune di Massa e altri, con ordinanza del 2 novembre 2020, iscritta al n. 23 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di costituzione di M. F.;

udito nell’udienza pubblica del 10 novembre 2021 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi gli avvocati Sergio Vacirca e Daniele Biagini per M. F.;

deliberato nella camera di consiglio del 10 novembre 2021.

1.- Con ordinanza del 2 novembre 2020 (reg. ord. n. 23 del 2021), il Tribunale ordinario di Massa, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 9, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, recante “Modifiche e integrazioni al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della L. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, nella parte in cui esclude i lavoratori utilizzati in base a contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni dalla possibilità di essere “stabilizzati” alle dipendenze di quest’ultime, alle condizioni previste dai commi 1 e 2 del medesimo art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017, rispettivamente, per i lavoratori titolari di contratto di lavoro a tempo determinato e quelli titolari di contratto di lavoro flessibile.

Però il censurato comma 9 dell’art. 20 del D.Lgs. n. 75 del 2017 – emanato in attuazione della delega di cui alla L. 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) – esclude l’applicabilità delle disposizioni contenute nell’articolo medesimo ai lavoratori somministrati; esclusione questa che concerne, in primo luogo, la possibilità di “stabilizzazione” mediante assunzione con contratto a tempo indeterminato, la quale, al verificarsi di determinate condizioni, è invece riconosciuta ai lavoratori titolari di rapporto di lavoro a termine, ai sensi del comma 1 dell’articolo in esame.

L’esclusione, inoltre, riguarda la possibilità di partecipare alle procedure concorsuali eventualmente bandite dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, e riservate, in misura non superiore al cinquanta per cento dei posti disponibili, al personale non dirigenziale che risulti titolare di un contratto di lavoro flessibile.

Secondo il rimettente, la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, nella parte in cui espressamente prevede le suddette esclusioni, determina una ingiustificata discriminazione a scapito dei lavoratori somministrati, avuto riguardo, per un verso, alla ratio della disciplina contenuta nel citato art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017 (norma ispirata dall’esigenza di superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni) e, per altro verso, alla sostanziale analogia sussistente tra la posizione del lavoratore subordinato a termine e quella del lavoratore somministrato a tempo determinato, sebbene quest’ultimo, a differenza del primo, sia formalmente alle dipendenze dell’agenzia di somministrazione.

L’ordinanza di rimessione è stata emessa nell’ambito di un giudizio introdotto da un lavoratore somministrato a tempo determinato nei confronti dell’amministrazione comunale utilizzatrice.

Il giudice a quo riferisce, in punto di fatto, che il ricorrente, M. F. ha premesso di aver prestato attività lavorativa presso il Comune di Massa, per oltre dodici anni e dunque ben oltre il limite di trentasei mesi previsto dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), e poi dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della L. 10 dicembre 2014, n. 183), svolgendo continuativamente mansioni di autista di scuolabus, sulla base di reiterati contratti di somministrazione di lavoro.

Ha quindi agito nei confronti del citato Comune per l’accertamento della illegittimità della condotta da esso tenuta “nella prosecuzione di offerte e sottoscrizioni di contratti di somministrazione e/o di missioni a termine” con tre diverse agenzie di somministrazione, in quanto stipulati in violazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, degli artt. 1344 e 1418 del codice civile e degli artt. 35 e 36 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, nonché per l’accertamento della nullità, illegittimità o simulazione dei contrati di lavoro subordinato stipulati nel corso del tempo con le stesse agenzie di somministrazione, e, infine, per la condanna del Comune al risarcimento dei danni subiti, mediante corresponsione dell’indennità forfetizzata prevista dall’art. 32, comma 5, della L. 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), e poi dall’art. 39, comma 2, del D.Lgs. n. 81 del 2015, nella misura di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto percepita.

Il rimettente espone, poi, che, in seguito alla costituzione in giudizio del Comune resistente e all’integrazione del contraddittorio nei confronti delle tre società di somministrazione, il segretario generale dell’ente locale, nel corso dell’interrogatorio reso in udienza, ha dichiarato che sussisterebbe la possibilità di una conciliazione della controversia, essendo l’amministrazione disponibile a “stabilizzare” il ricorrente mediante assunzione a tempo indeterminato.

Il segretario generale, precisamente, avrebbe evidenziato che il Comune intenderebbe realizzare tale “stabilizzazione” attraverso l’esercizio della facoltà attribuitagli dall’art. 20 del D.Lgs. n. 75 del 2017, a mente del quale le pubbliche amministrazioni possono assumere a tempo indeterminato il personale non dirigenziale già in servizio con contratti a tempo determinato che si trovi nelle condizioni previste dall’articolo medesimo.

La concreta percorribilità di questa ipotesi conciliativa, tuttavia, troverebbe un unico ma insuperabile ostacolo nel comma 9 del medesimo art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017, che esclude dalla possibilità della “stabilizzazione” i lavoratori utilizzati sulla base di contratti di somministrazione.

1.1.- Il rimettente, nel sospettare di illegittimità costituzionale quest’ultima disposizione, nella parte in cui stabilisce la predetta esclusione, ritiene, anzitutto, che la questione sia rilevante nel giudizio a quo, poiché, a seguito dell’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale, il ricorrente otterrebbe una più ampia tutela della sua precaria situazione lavorativa, con l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, rispetto alla semplice tutela risarcitoria prevista dal combinato disposto degli artt. 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e 32, comma 5, della L. n. 183 del 2010; il lavoratore, inoltre, fruirebbe di una più rapida definizione della controversia introdotta con il ricorso proposto contro la pubblica amministrazione.

1.2.- La questione sarebbe, altresì, non manifestamente infondata.

Avuto riguardo alla ratio della disciplina recata dall’art. 20 del D.Lgs. n. 75 del 2017 e alla sostanziale sovrapponibilità della posizione del lavoratore somministrato a tempo determinato rispetto a quella del lavoratore subordinato a termine, non sarebbe infatti sorretta da alcuna ragione giustificativa la disparità di trattamento tra il primo ed il secondo ai fini della possibilità di essere assunti a tempo indeterminato alle dipendenze dell’amministrazione presso la quale viene svolta l’attività lavorativa, allorché il lavoratore somministrato possegga i requisiti soggettivi previsti dalle lettere a) e c) di cui al comma 1 dello stesso art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017 (risulti, cioè, in servizio, successivamente alla data di entrata in vigore della L. n. 124 del 2015, presso l’amministrazione che procede all’assunzione e ivi abbia maturato almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni) e sia privo soltanto del requisito di cui alla lettera b), relativo all’avvenuto reclutamento a tempo determinato mediante procedura concorsuale, il quale requisito non potrebbe sussistere in capo ad un lavoratore utilizzato sulla base di contratti di somministrazione.

2.- Non è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, mentre si è costituito M. F., il quale ha invocato l’accoglimento della questione sollevata, sul presupposto di una progressiva, sostanziale e tendenzialmente effettiva equiparazione, sotto il profilo della tutela, tra la somministrazione di lavoro a termine e il contratto di lavoro a tempo determinato.

3.- La Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) ha depositato un’opinione scritta, in qualità di amicus curiae, sottolineando, in particolare, il carattere discriminatorio e ingiustificato dell’esclusione, operata dall’art. 20 del D.Lgs. n. 75 del 2017, della possibilità che i lavoratori somministrati possano partecipare alle procedure concorsuali riservate di cui al comma 2 del medesimo art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017.

4.- In prossimità dell’udienza pubblica, M. F. ha depositato una memoria con cui ha insistito nella richiesta di accoglimento della questione di legittimità costituzionale.

Motivi della decisione

1.- Con ordinanza del 2 novembre 2020 (reg. ord. n. 23 del 2021), il Tribunale ordinario di Massa, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 9, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, recante “Modifiche e integrazioni al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della L. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, nella parte in cui esclude i lavoratori utilizzati in base a contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni, dalla possibilità di essere “stabilizzati” alle dipendenze di quest’ultime, alle condizioni previste dai commi 1 e 2 del medesimo art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017, rispettivamente, per i lavoratori titolari di un contratto di lavoro a tempo determinato e quelli titolari di un contratto di lavoro flessibile.

Con norma di chiusura, l’ultimo periodo del comma 9 del citato art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017 esclude l’applicabilità delle disposizioni contenute nell’articolo medesimo ai lavoratori utilizzati sulla base di contratti di somministrazione.

Tale esclusione concerne, in primo luogo, la possibilità di essere assunti con contratto a tempo indeterminato, la quale, al verificarsi di determinate condizioni, è invece riconosciuta ai lavoratori titolari di rapporto di lavoro a termine, ai sensi del comma 1 dell’articolo in esame.

L’esclusione, in secondo luogo, riguarda la possibilità di partecipare alle procedure concorsuali eventualmente bandite dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, e riservate, in misura non superiore al cinquanta per cento dei posti disponibili, al personale non dirigenziale che risulti titolare di un contratto di lavoro flessibile.

L’art. 20, comma 9, del D.Lgs. n. 75 del 2017 – emanato in attuazione della delega di cui alla L. 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) – sarebbe, dunque, costituzionalmente illegittimo, sia nella parte in cui esclude i lavoratori somministrati dalla possibilità di essere assunti a tempo indeterminato prevista dal comma 1, quando pure posseggano i requisiti di cui alle lettere a) e c) del detto comma (risultino, cioè, in servizio, successivamente alla data di entrata in vigore della L. n. 124 del 2015 presso l’amministrazione che procede all’assunzione o presso le amministrazioni con servizi associati e ivi abbiano maturato almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni), sia nella parte in cui li esclude dalla possibilità di partecipare alle procedure concorsuali riservate di cui al comma 2, pur possedendo gli specifici requisiti da esso stabiliti (sebbene risultino, cioè, titolari di contratto di lavoro flessibile successivamente all’entrata in vigore della L. n. 124 del 2015 e abbiano maturato almeno tre anni di contratto, anche non continuativi, negli ultimi otto anni, presso l’amministrazione che bandisce il concorso).

Il dubbio di legittimità costituzionale, formulato in riferimento all’art. 3 Cost., si fonda sul rilievo della disparità di trattamento che, in ragione della predette esclusioni, si determinerebbe tra i lavoratori somministrati a tempo determinato e i lavoratori subordinati a termine, avuto riguardo, da un lato, al fondamento della disciplina contenuta nell’art. 20 del D.Lgs. n. 75 del 2017, consistente nell’esigenza di superamento del fenomeno del “precariato” nelle pubbliche amministrazioni, e, dall’altro lato, alla sostanziale sovrapponibilità tra le due posizioni, che non giustificherebbe siffatta differenziata disciplina.

2.- Preliminarmente, va osservato che sussiste la rilevanza, nel giudizio a quo, della questione di legittimità costituzionale del comma 9 del citato art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017, sollevata con riferimento all’esclusione di cui al precedente comma 1, mentre non è rilevante la stessa questione riferita all’esclusione di cui al comma 2.

In generale, la rilevanza, presupponendo, ai sensi dell’art. 23, secondo comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), un rapporto di strumentalità necessaria tra la risoluzione della questione e la decisione del giudizio principale (tra le tante, sentenza n. 158 e ordinanza n. 92 del 2019), deve ritenersi sussistente quando la norma della cui legittimità costituzionale il giudice dubiti debba essere applicata nel giudizio a quo per decidere il merito della controversia o una questione processuale o pregiudiziale, oppure quando la decisione della Corte comunque influisca sul percorso argomentativo che il giudice rimettente deve seguire per rendere la decisione.

Tuttavia, la rilevanza della questione ricorre anche ove la strumentalità sussista rispetto ad una possibile diversa definizione della lite, non strettamente a mezzo dalla decisione della causa.

Ciò accade quando il giudice – che formuli una proposta conciliativa o transattiva all’esito (e sulla base) dell’interrogatorio libero delle parti, secondo la regola processuale introdotta, nel 2010, nel rito del lavoro (art. 420, primo comma, del codice di procedura civile) e poi estesa, nel 2013, a tutte le controversie civili (art. 185-bis cod. proc. civ.) – trovi un ostacolo nel contenuto normativo di una disposizione appartenente al quadro normativo in cui può collocarsi la lite, che sia connessa strettamente al relativo thema decidendum; ostacolo costituito dall’asserito vizio di illegittimità costituzionale della disposizione stessa.

Sussiste la rilevanza se, soltanto a seguito della reductio ad legitimitatem di tale disposizione, il giudice, adempiendo all’incombente processuale posto a suo carico dall’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., può formulare una proposta transattiva o conciliativa, la cui idoneità alla risoluzione della lite, mediante transazione o conciliazione, sia plausibile in ragione dell’esito dell’interrogatorio libero delle parti.

Ciò assicura la rilevanza della questione di legittimità costituzionale diretta a rimuovere il denunciato vizio della disposizione, la quale, nella sua portata vigente, non consentirebbe siffatta proposta perché quest’ultima risulterebbe contra legem.

2.1.- Nella vicenda in esame, il rappresentante della pubblica amministrazione datrice di lavoro ha dichiarato, in sede di interrogatorio libero, la disponibilità all’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore utilizzato per molti anni (più di tre) sulla base di contratti di somministrazione a tempo determinato, ripetutamente rinnovati, sì da integrare tutti i requisiti previsti dall’art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 75 del 2017 per la stabilizzazione del personale precario con anzianità di almeno tre anni.

Il giudice, tenendo conto di tale disponibilità, potrebbe formulare ex art. 420, primo comma, cod. proc. civ., una proposta transattiva o conciliativa che contempli siffatta assunzione diretta e che plausibilmente potrebbe risolvere la lite solo se venisse rimosso, con dichiarazione di illegittimità costituzionale, il divieto di applicazione del citato art. 20 D.Lgs. n. 75 del 2017, comma 1, posto dal successivo comma 9, che, con prescrizione derogatoria, esclude tale forma di stabilizzazione in caso di utilizzo del lavoratore con contratto di somministrazione a tempo determinato.

L’eventuale risoluzione della lite in accoglimento di una proposta conciliativa o transattiva avente per oggetto l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore utilizzato sulla base di reiterati contratti di somministrazione, in conformità alla dichiarata disponibilità del rappresentante della pubblica amministrazione datrice di lavoro in sede di interrogatorio libero, da un lato, troverebbe il suo presupposto nella rimozione del divieto normativo di estensione ai somministrati della possibilità di “stabilizzazione” pura e semplice contemplata dall’art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 75 del 2017.

Dall’altro lato, consentirebbe al ricorrente di ottenere una tutela che, sebbene non perfettamente coincidente con il “petitum” della domanda proposta in giudizio, sarebbe tuttavia strettamente connessa con esso, ove si consideri che nel pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di illegittima successione di contratti di somministrazione di lavoro a termine, il lavoratore che chiede il risarcimento del danno ha diritto, oltre all’indennità forfetizzata di cui all’art. 28 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della L. 10 dicembre 2014, n. 183), anche al ristoro del maggior pregiudizio di cui fornisca la prova, il quale compensa, per il lavoratore pubblico, proprio l’impossibilità della conversione del rapporto, consentita, invece, nel caso del lavoratore privato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 febbraio 2021, n. 3815; sezioni unite civili, sentenza 15 marzo 2016, n. 5072). Il tema della conversione del rapporto appartiene quindi alla causa, seppur sub specie del pregiudizio per la mancata “assunzione”.

Non presenta, invece, analoga stretta connessione con il thema decidendum, né appartiene al quadro normativo in cui potrebbe collocarsi la proposta conciliativa o transattiva potenzialmente capace di risolvere la lite, la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 20, la quale abilita le pubbliche amministrazioni ad indire procedure concorsuali riservate in vista della successiva stabilizzazione di personale titolare di contratto di lavoro flessibile.

Questa seconda norma, infatti, al contrario della prima, fa riferimento ad una eventualità che non solo è estranea al thema decidendum, ma neppure è stata evocata dal legale rappresentante della pubblica amministrazione convenuta nell’interrogatorio libero reso nel giudizio principale sì che, pertanto, rispetto a tale giudizio, resta meramente ipotetica ed astratta.

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 9, del D.Lgs. n. 75 del 2017, posta con riguardo al comma 2 del medesimo articolo, va dunque dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, dovendosi condurre la delibazione del merito della questione unicamente in quanto posta con riferimento al comma 1.

3.- Prima di esaminare il merito della questione, giova premettere, innanzi tutto, una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento, quanto alla disciplina del lavoro con contratto di somministrazione a tempo determinato presso la pubblica amministrazione in comparazione con quella del contratto di lavoro a termine; comparazione posta a fondamento della censura, sollevata dal giudice rimettente, di ingiustificato trattamento differenziato quanto alla richiamata disciplina straordinaria di stabilizzazione del precariato.

3.1.- La regolamentazione del contratto a tempo determinato e, più ampiamente, delle forme di impiego flessibili nella pubblica amministrazione, è contenuta, nelle sue linee generali, nell’art. 36 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il quale, dopo aver subìto, nel corso del tempo, ripetute modifiche, operate nell’ambito di una pluriennale successione di norme novellatrici, è stato di recente ulteriormente modificato proprio dal D.Lgs. n. 75 del 2017 (art. 9).

Nell’attuale formulazione, l’art. 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001, dopo aver previsto, quale principio generale, quello secondo cui “[p]er le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’articolo 35” (comma 1), aggiunge che il ricorso alla flessibilità, sempre nel rispetto delle medesime modalità di reclutamento, è consentito “soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale” (comma 2).

Ove ricorrano tali esigenze, “[l]e amministrazioni pubbliche possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, esclusivamente nei limiti e con le modalità in cui se ne preveda l’applicazione nelle amministrazioni pubbliche”.

Sono possibili anche contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, che sono disciplinati dagli artt. 30 e seguenti del D.Lgs. n. 81 del 2015, fatta salva la disciplina ulteriore eventualmente prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro.

Nel complesso, dunque, sono consentite tutte le forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa e sono specificamente menzionati, oltre a quello di formazione e lavoro, il contratto di lavoro a tempo determinato e il contratto di somministrazione a tempo determinato, che resta escluso solo per l’esercizio di funzioni direttive e dirigenziali.

Con riguardo alla somministrazione a tempo determinato, il rinvio agli artt. 30 e seguenti del medesimo decreto legislativo consente di ritenere estesa al datore di lavoro pubblico la nozione stessa di somministrazione, quale contratto con cui un’agenzia di somministrazione mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore. Il rinvio consente, inoltre, di ritenere applicabili le regole in tema di divieti, di forma, di regime contrattuale e di parità di trattamento.

Invece, quanto al contratto a tempo determinato, il rinvio alla disciplina prevista dagli artt. 19 e seguenti del D.Lgs. n. 81 del 2015, rende applicabili le norme generali in tema di lavoro a termine, con particolare riferimento a quelle concernenti la durata massima, i divieti, le proroghe e i rinnovi.

3.2.- La disciplina della somministrazione a tempo determinato e quella del contratto di lavoro a termine convergono, poi, quanto alla prevista esclusione della trasformazione in rapporto a tempo indeterminato per il caso di inosservanza delle regole richiamate, a differenza di quanto stabilito per il lavoro privato.

Il comma 5 dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001 stabilisce, infatti, che, “[i]n ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”.

Il divieto della trasformazione del rapporto a tempo indeterminato è espressamente richiamato dal D.Lgs. n. 81 del 2015 nell’ambito delle norme deputate alla disciplina del lavoro a tempo determinato (art. 29, comma 4). Sicché, nel caso di illegittimo ricorso al contratto a termine, la forma di tutela del lavoratore pubblico consiste, dunque, nello strumento risarcitorio.

Analoga limitazione è prevista per la somministrazione (art. 31, comma 4).

Questa Corte ha da tempo chiarito (sentenza n. 89 del 2003) che tale diversificazione, tra il settore pubblico e il settore privato, della disciplina dei rimedi dell’inosservanza delle regole imperative sul contratto di lavoro a termine non si traduce in una illegittima e discriminatoria riduzione della tutela attribuita al pubblico dipendente, ma integra la necessaria implicazione dell’esigenza di rispettare il canone espresso dall’ultimo comma dell’art. 97 Cost., secondo cui agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge; canone che, a sua volta, costituisce proiezione del principio di eguaglianza, il quale esige che tutti, secondo capacità e merito, valutati per il tramite di una procedura di concorso, possano accedere all’impiego pubblico e che all’opposto non consente l’accesso in ruolo stabile per altra via, tanto più se segnata da illegalità.

La ragione della differenza del regime di tutela del lavoratore contro l’illegittimo ricorso al contratto a temine nel contesto del lavoro pubblico rispetto a quello vigente nel contesto del lavoro privato, risiede proprio nell’esigenza di rispetto di questo principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, previste dallo stesso art. 97 Cost., che rende evidente la disomogeneità tra le due situazioni e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio.

3.3.- In via ancora preliminare, va considerato che il frequente ricorso, da parte delle pubbliche amministrazioni, ai contratti a termine, di formazione e lavoro, di somministrazione e, in genere, alle forme contrattuali flessibili – pur consentito solo per esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, ma spesso reiterato oltre i previsti limiti temporali – ha determinato situazioni di precariato, cronicizzate nel tempo.

Ciò ha indotto il legislatore ad introdurre procedure di “stabilizzazione”, finalizzate all’obiettivo dell’assorbimento dei lavoratori precari nel personale stabile con contratti a tempo indeterminato.

Le procedure di stabilizzazione costituiscono uno strumento di reclutamento derogatorio rispetto a quello ordinario del pubblico concorso, in quanto introducono un percorso riservato ad una platea ristretta di soggetti, che risultino in possesso di determinati requisiti e abbiano maturato un determinato periodo di esperienza lavorativa in ambito pubblico, secondo dettagliate disposizioni previste da specifiche leggi.

Siffatte procedure sono state previste, inizialmente, con le norme contenute nell’art. 1, commi 519 e 528, della L. 27 dicembre 2006, n. 296, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)” e nell’art. 3, comma 90, della L. 24 dicembre 2007, n. 244, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)”, riservate al personale non dirigenziale a termine che potesse vantare o fosse per conseguire specifici requisiti di anzianità e fosse stato reclutato mediante “procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge”.

Successivamente, altre procedure di stabilizzazione sono state introdotte dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)” e dall’art. 4, comma 6, del D.L. 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito, con modificazioni, nella L. 30 ottobre 2013, n. 125.

Più recentemente – come già ricordato – un’ipotesi ancor più ampia di stabilizzazione del precariato nel pubblico impiego è stata introdotta proprio dall’art. 20 del D.Lgs. n. 75 del 2017, il cui comma 9 costituisce oggetto della sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale.

4.- Ciò premesso, la questione non è fondata.

5.- L’art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 75 del 2017 consente, sino al 31 dicembre 2022, l’assunzione a tempo indeterminato del personale non dirigenziale, con contratto di lavoro a tempo determinato, che possegga i seguenti requisiti: a) risulti in servizio, anche per un solo giorno, successivamente alla data del 28 agosto 2015, con contratto di lavoro a tempo determinato presso l’amministrazione che deve procedere all’assunzione; b) sia stato assunto a tempo determinato attingendo ad una graduatoria, a tempo determinato o indeterminato, riferita ad una procedura concorsuale – ordinaria, per esami o per titoli, ovvero anche prevista in una normativa di legge – in relazione alle medesime attività svolte e intese come mansioni dell’area o categoria professionale di appartenenza, procedura anche espletata da amministrazioni pubbliche diverse da quella che procede all’assunzione; c) abbia maturato, al 31 dicembre 2022, alle dipendenze della stessa amministrazione che procede all’assunzione, almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni.

Gli anni utili da conteggiare ricomprendono tutti i rapporti di lavoro prestato direttamente con l’amministrazione, anche con diverse tipologie di contratto flessibile, ma devono riguardare attività svolte o riconducibili alla medesima area o categoria professionale che determina il riferimento per l’amministrazione dell’inquadramento da operare, senza necessità di vincoli ai fini dell’unità organizzativa di assegnazione.

Questa facoltà è riservata al personale con rapporto di lavoro a tempo determinato che, oltre a risultare in servizio, successivamente alla data del 28 agosto 2015, nell’amministrazione che procede all’assunzione – e oltre ad aver maturato presso di essa, al 31 dicembre 2022, almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni – sia stato altresì reclutato, in relazione alle medesime attività svolte, mediante procedure concorsuali anche espletate presso amministrazioni diverse da quella che assume.

6.- Dalle procedure di “stabilizzazione” previste dall’art. 20 sono esclusi, per effetto della norma di chiusura contenuta nel censurato comma 9, ultimo periodo, del medesimo articolo, i lavoratori utilizzati mediante contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni.

Tale esclusione, però, non è irragionevole, in riferimento all’art. 3 Cost. La prescrizione, contenuta nella disposizione censurata, dell’instaurazione di un rapporto di lavoro a seguito di concorso pubblico, prevista con riferimento alla fattispecie del contratto a termine, non è ipotizzabile anche per la parallela fattispecie del contratto di somministrazione a tempo determinato, poiché quest’ultimo non comporta l’instaurazione di un rapporto di lavoro diretto tra lavoratore somministrato ed ente utilizzatore.

Infatti, il contratto di somministrazione – definito come “contratto, a tempo indeterminato o determinato, con il quale un’agenzia di somministrazione autorizzata, ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore” (art. 30 del D.Lgs. n. 81 del 2015) – costituisce una fattispecie negoziale complessa, in cui due contratti si combinano per realizzare la dissociazione tra datore di lavoro e fruitore della prestazione di lavoro, secondo una interposizione autorizzata dall’ordinamento in quanto soggetta a particolari controlli e garanzie, quali condizioni per prevenire il rischio che l’imputazione del rapporto a persona diversa dall’effettivo utilizzatore si presti a forme di elusione delle tutele del lavoratore.

Nell’ambito di tale fattispecie negoziale complessa si ha che il rapporto di lavoro è quello tra agenzia e dipendente e, rispetto ad esso, non rilevano le vicende del contratto concluso tra agenzia ed utilizzatore (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 18 ottobre 2019, n. 26607).

Quindi, il contratto tra l’agenzia e il dipendente non trova origine in una procedura selettiva quando l’utilizzatore è una pubblica amministrazione. I lavoratori messi a disposizione di questa per la durata della missione, pur svolgendo la loro attività nell’interesse e sotto la direzione dell’ente, non vengono ovviamente reclutati mediante l’espletamento di procedure concorsuali.

Da ciò consegue che non sussiste l’ingiustificata disparità di trattamento denunciata dal giudice rimettente in ragione dell’esclusione dei lavoratori somministrati presso le pubbliche amministrazioni dalla possibilità di essere assunti a tempo indeterminato con la modalità prevista dal comma 1 dell’art. 20 del D.Lgs. n. 75 del 2017.

7.- In conclusione, deve essere dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 9, del D.Lgs. n. 75 del 2017, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui esclude i lavoratori somministrati dalla “stabilizzazione” mediante diretta assunzione a tempo indeterminato presso la pubblica amministrazione utilizzatrice, secondo la modalità prevista dal comma 1 della medesima disposizione.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 9, del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, recante “Modifiche e integrazioni al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della L. 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, nella parte in cui esclude i lavoratori somministrati dalla possibilità di partecipare alle procedure concorsuali riservate, bandite ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Massa, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 9, del D.Lgs. n. 75 del 2017, nella parte in cui esclude i lavoratori somministrati dalla possibilità di essere assunti dalle pubbliche amministrazioni utilizzatrici con contratti di lavoro a tempo indeterminato, ai sensi del comma 1 del medesimo articolo, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale di Massa, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 novembre 2021.

Depositata in Cancelleria il 21 dicembre 2021.

Contratto di somministrazione e contratto a termine illegittimi – risarcimento del danno – pubblica amministrazione – applicazione dei criteri risarcitori comuni del diritto del lavoro.

Cassazione n.3815 del 15.2.2021.

Di fronte ad un contratto di somministrazione a tempo determinato instaurato con l’INPS la Corte di Cassazione con sentenza n.3815 del 15.2.2021 nel ribadire l’insussistenza di un diritto del lavoratore alla ricostituzione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, afferma invece il pieno diritto del lavoratore ad ottenere retroattivamente e per il passato la conversione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore ed a tempo indeterminato ai fini e quindi il risarcimento del danno nei termini di cui all’allora vigente articolo 32 comma 5 L.183/2010 ed attuale articolo 28 comma 2 del DLGS 165/2001 (da 2,5 a 12 mensilità).

La sentenza appare d’interesse in quanto oltre a considerare il predetto danno (danno comunitario) come non soggetto all’onere della prova, considera come possibile nel caso delle pubbliche amministrazioni, la sussistenza di un ulteriore danno, in merito al quale l’onere della prova incomberà sul lavoratore. La stessa sentenza inoltre meglio definisce e differenzia la natura del danno cosiddetto comunitario nel caso del dipendente privato e di quello pubblico, così testualmente affermando:

 “Ciò non dà luogo ad una posizione di favore del dipendente pubblico rispetto al lavoratore privato, atteso che per il primo l’indennità forfetizzata agevola l’onere probatorio del danno subito pur rimanendo salva la possibilità di provare un danno maggiore mentre per il lavoratore privato essa funge da limite al danno risarcibile, ma questa restrizione è bilanciata dal diritto alla conversione del rapporto di lavoro, insussistente nel lavoro pubblico”

La pronuncia qui menzionata trova le proprie ragioni nella precedente Cassazione n.3189/2019 e nella precedente autorevole pronuncia delle Sezioni Unite n.5072/2016.

 

 

 

Interpretazione autentica dell’articolo 38 del DLGS 81/2015. Licenziamento e somministrazione illecita di manodopera.

Il licenziamento intimato dal somministrante è privo di effetto provenendo da chi non è reale datore di lavoro.

 

A chiarimento di fondati dubbi di dottrina e giurisprudenza interviene il DL 19.5.2020 e successiva legge di conversione n.77/2020 che stabilisce l’interpretazione autentica del comma 3 dell’articolo 38 del DLGS 81/2015 ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento.

Per comprenderne la portata giova la ricostruzione della normativa che pareva aver introdotto un duplice licenziamento ( o meglio con duplice imputazione)  per il lavoratore che aveva avuto la ventura (meglio sventura) di lavorare nell’ambito di una illecita somministrazione di manodopera.

  1. La questione.

In tema di somministrazione irregolare, il reale utilizzatore quasi mai, per evidenti motivi, provvede al licenziamento del lavoratore che viene invece effettuato dal datore di lavoro apparente.

Per costante indirizzo giurisprudenziale, non era riconosciuto al datore di lavoro apparente il potere di licenziare e quindi, il recesso da questi intimato doveva considerarsi come mai avvenuto e pertanto, il rapporto di lavoro era destinato a proseguire con l’utilizzatore il quale avrebbe dovuto così direttamente assumersi l’onere del licenziamento.

Tra il 2011 ed il 2015 tra collegato lavoro e jobs act, sono state emanate diverse norme atte ad evitare che delle tardive le azioni per il riconoscimento del rapporto di lavoro in capo ad un determinato soggetto potessero avere per l’impresa, dato il passare del tempo ed il pieno e la decorrenza del diritto, effetti devastanti sui soggetti datori di lavoro che subivano l’azione.

L’articolo 32 della legge 4.11.2010 n.183 (collegato lavoro) estende così i termini di decadenza per l’impugnazione del licenziamento (60 giorni per l’impugnazione e da questi 180 giorni per l’avvio del contenzioso) a tutti i casi dove il ricorrente chieda la costituzione di un rapporto di lavoro diverso dal formale titolare, ivi compresa l’ipotesi di cui all’articolo 27 del DLGS 276/2003.

Dunque nel caso di somministrazione irregolare, il lavoratore che avesse voluto ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro intercorrente con l’utilizzatore avrebbe dovuto agire a pena di decadenza entro i predetti termini.

Ponendosi l’interrogativa da quando far decorrere il termine di decadenza, appare ragionevole ritenere che esso coincida con la cessazione del rapporto oggetto della somministrazione.

A questo punto però la questione si complica alquanto.

  1. L’interpretazione dell’articolo 27 del DLGS 276/2003 e del successivo articolo 38 del DLGS 81/2015.

L’articolo 27 del DLGS 276/2003 cui abbiamo fatto cenno, stabiliva  al comma 2 che nel caso di riconoscimento del rapporto di lavoro in capo al reale utilizzatore, tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino alla  concorrenza della somma effettivamente pagata e che inoltre tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, dovevano intendersi  come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione.

La norma quindi imputa ad entrambi i soggetti somministrante illegittimo e destinatario della somministrazione ogni atto inerente il rapporto di lavoro del somministrato irregolare.

Non vi era espressa menzione del licenziamento che si sarebbe potuto intendere anche alla stregua di uno degli atti concernenti la gestione del rapporto.

La norma appena esaminata era abrogata dal DLGS 81/2015 che all’articolo 38 così dispone:

  1. In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore.
  2. Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione.
  3. Nelle ipotesi di cui al comma 2 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione. (71)
  4. La disposizione di cui al comma 2 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

 

Rimaneva quindi ferma la previsione o meglio interpretazione che vuole imputabili ad entrambi i soggetti somministrante e somministrato l’imputazione degli atti di gestione del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza della Suprema Corte avvallava una simile interpretazione (Cassazione 13.9.2016 n.17969).

Affermava la Suprema Corte che l’articolo 27 del DLGS 276/2003 disponendo, in maniera espressa ed inequivoca che “tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o per la gestione del rapporto, si intendono compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”, sancisce che l’utilizzatore subentra nei rapporti così come costituiti e poi gestiti dal somministratore.

Doveva , pertanto, ritenersi, statuiva la motivazione della sentenza, che, vi fosse , un’ unica matrice, per quel che riguarda la tipologia di lavoro, che viene ricondotto all’utilizzatore negli stessi termini in cui era stato voluto (costituito) e poi gestito dal somministratore,  per quanto riguarda tutti  gli atti di gestione del rapporto che producono quindi, per espressa volontà del legislatore, tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento.

Ne conseguiva, secondo la Cassazione, che il licenziamento anche se intimato, come nella fattispecie in esame, dal somministratore avrebbe dovuto essere impugnato nei sessanta giorni successivi alla sua comunicazione, pena la ordinaria decadenza dell’azione di annullamento anche rispetto all’utilizzatore, non potendo ormai trovare applicazione i principi affermati da questa Corte con riguardo alla L. n. 1369 del 1960.

A conclusioni analoghe perveniva successivamente Cassazione n.6668 del 7.3.2019, la quale però aderiva alla tesi già formulata in precedenza dalla Corte in nome della funzione di nomofilachia della Corte medesima e non avendo la parte interessata formulato diverse ragioni a contestare detto orientamento.

Dunque conseguenza di questa previsione e della sua interpretazione, era il fatto che allorquando il fittizio datore di lavoro (somministrante illegittimo) licenziava il somministrato, il licenziamento avrebbe dovuto intendersi anche come proveniente dall’utilizzatore.

In realtà, molto tempo prima, ma già nella vigenza dell’articolo 27 DLGS 276/2003, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ( sentenza n.22910 del 26.10.2016) avevano diversamente ritenuto  come la normativa di cui all’articolo 27 del DLGS 276/2003 si presentasse come eccezione alla regola generale che imputa il rapporto di lavoro a chi effettivamente instaura il contratto, e come a tale  eccezione non poteva aggiungersi l’ipotesi non prevista del licenziamento e dei suoi effetti da imputarsi ad entrambi i soggetti imprenditore illegittimamente somministrante ed utilizzatore della prestazione.

  1. Altre considerazioni d’ordine costituzionale e comunitario.

Oltre a quest’ultima autorevole giurisprudenza, militano a favore di queste ultime conclusioni altre considerazioni anche di ordine costituzionale e comunitario.

L’interpretazione che vuole come tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione e la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione, verrebbe ad imporre, come abbiamo visto, l’impugnazione nei confronti di quest’ultimo, del licenziamento in sede stragiudiziale e giudiziale entro limiti temporali a pena di decadenza e nell’ambito della motivazione adotta dal datore di lavoro fittizio (illecito somministratore).

Su tale base, si finirebbe per pretendere che il dipendente illecitamente somministrato debba impugnare un licenziamento intimato da chi (irregolare somministrante) non è realmente il suo datore di lavoro e quindi, sulla base di una motivazione inerente un rapporto di lavoro che non lo riguarda, o ancor meglio non esiste e comunque proviene da un soggetto terzo (somministratore).

Infatti, il somministratore che non è datore di lavoro non ha il potere di licenziare né comunque può giustificare il licenziamento con fatti che riguardano alla fine un soggetto estraneo al rapporto. Il potere, in questo caso, gli viene attribuito sulla base di una “fictio” di natura legale e quindi nella stessa logica si imporrebbe una motivazione fittizia ed un onere di impugnare la stessa in merito alla quale è lecito nutrire dei dubbi.

La legge finirebbe così per creare un potere che non esiste e che non rispecchia una situazione reale, giungendo a simulare una situazione che come giusta causa o giustificato motivo potrebbe rendere legittimo il licenziamento.

Di fronte ad un tanto, non rimane che ribadire come il soggetto licenziato in questo caso non possa essere toccato da fatti giuridici limitati alla sfera di un soggetto estraneo al rapporto di lavoro.

La questione si pone in maniera ancor più evidente e reale di fronte a quello che, come la motivazione, è, nel nostro ordinamento, e non solo, il primo requisito di legittimità del recesso.

La motivazione del licenziamento deve assolutamente essere reale e pertinente al contesto lavorativo, altrimenti non è una vera motivazione.

La motivazione è un elemento fondamentale del licenziamento e la sua violazione involge anche aspetti di costituzionalità e di coerenza con la normativa comunitaria.

La legge a questo punto non può automaticamente trasferire ad un soggetto terzo le ragioni esplicitate da altri per giustificare il recesso.

Appare irragionevole sostenere l’esistenza di una proprietà transitiva delle motivazioni e del potere di licenziare.

La legge potrebbe semmai imputare formalmente la provenienza dell’atto ad altro soggetto per quanto riguarda i termini e l’interruzione del rapporto, ma non potrà mai trasporre le ragioni da un soggetto all’altro.

La motivazione deve essere reale ed imputabile fattualmente al reale titolare   del rapporto.

Dunque, una lettura costituzionalmente orientata porta a ritenere vero atto di licenziamento solo quello proveniente dal soggetto che ha utilizzato la prestazione.

Una diversa lettura del secondo comma dell’articolo 27 DLGS 276/2003 e successivamente dell’articolo 38 del DLGS 81/2015 finirebbe per collidere con l’articolo 3 della costituzione in quanto espone il soggetto somministrato a differenza di altri soggetti destinatari di licenziamento, sarebbe onerato ad impugnare una motivazione che non è in alcun modo rilevabile e contestabile presso il reale datore di lavoro. Tale differenza giustificata sino a quando sia necessario a far decorrere rapidamente e senza incertezza i termini di definizione della causa, non è più razionale e giustificata, allorquando impone ad un soggetto di contestare una situazione fattuale che non esiste.

Sempre in relazione all’articolo 3 della Carta costituzionale, la norma così intesa pare confliggere anche con il principio di ragionevolezza limite costituzionale al potere del legislatore (articolo 3 Costituzione).

La norma in effetti nel voler contemperare il giusto interesse dell’impresa a vedere una definizione in tempi ragionevoli di eventuali controversie per il riconoscimento di un rapporto di lavoro, penalizza in maniera senza dubbio abnorme il lavoratore che si trova a dover impugnare un recesso comunicato da un soggetto in relazione ad una situazione di fatto in essere presso altro soggetto, quando sarebbe stato sufficiente porre dei termini di decadenza per l’impugnazione di un licenziamento che proviene da chi di fatto non è il reale datore di lavoro.

La situazione delineata apre come già accennato, anche altri notevoli interrogativi d’ordine costituzionale e di conformità all’ordinamento comunitario.

Un simile impianto normativo collegato alle recenti modifiche apportate all’articolo 18 legge 300/70 dalla legge 92/2012 e di seguito dal Jobs Act sulle tutele crescenti DLGS 23/2015 che, nel caso di recesso soprattutto motivato come licenziamento economico, o addirittura privo di motivazione, potrebbero comportare la sola tutela risarcitoria, faciliterebbe in maniera irragionevole e abnorme l’utilizzatore della somministrazione illecita, che potrebbe giovarsi di motivazioni apparenti provenienti dall’illecito somministrante.

In pratica, il legislatore lungi dall’introdurre adeguate normative di tutela del posto di lavoro e di contrasto a forme illegittime di intermediazione realizzando così un contemperamento tra i principi costituzionali in tema di protezione del lavoro con quelli a promozione dell’imprenditorialità, si sostituisce al datore di lavoro che versa in una situazione di illecito, ed introduce delle norme atte a favorire un comodo recesso.

La norma così formulata e nella sua interpretazione letterale appare comunque contraria all’ articolo 4 della Carta Costituzionale, in quanto una simile lettura non agevola e favorisce l’accesso al lavoro e la sua conservazione.

Essa peraltro contrasta con l’articolo 24 della Costituzione in quanto finisce per violare il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti, dovendo il lavoratore impugnare e disattendere una motivazione necessariamente generica e fittizia.

Il tema trattato involge pure il diritto comunitario.

E’ vero che non sussiste direttiva comunitaria alcuna in tema di licenziamento, ma pur in assenza di una direttiva sul licenziamento individuale, il diritto europeo incide comunque su alcuni profili delle discipline nazionali, grazie, ad alcuni importanti principi di natura comunitaria in tema di politica sociale.

Ci riferiamo in primo luogo, all’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali UE che stabilisce il principio in base al quale ogni licenziamento deve trovare giustificazione.

Stabilisce l’articolo 30 della Carta dei Diritti Fondamentali UE ( tutela in caso di licenziamento ingiustificato) Che ““Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.”

La tutela, ad avviso di chi scrive, presuppone che il provvedimento provenga anche formalmente da chi ne pone in atto gli effetti e si basi su di una motivazione reale e conoscibile da parte del lavoratore.

Di seguito, si richiama pure l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che aggiunge alla tutela anche i mezzi per attuarla individuando un valido motivo legato alla condotta del lavoratore o al funzionamento dell’impresa datrice di lavoro.

Attento esame merita pure, anche se non di provenienza comunitaria, la convenzione OIL n.158/1982.

Essa pone limiti di livello internazionale alla facoltà di licenziare.

La convenzione si snoda in una serie compiuta di previsioni che risultano complete e precise.

L’articolo 4 nel riaffermare l’obbligo della motivazione, rispetto alla normativa comunitaria sinora esposta, specifica quali debbano essere i motivi leciti di recesso che devono essere limitati all’attitudine o alla condotta del lavoratore o alle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Il testo dell’articolo 4 della convenzione OIL n.158/1982 è il seguente:

Un lavoratore non dovrà essere licenziato senza che esista un motivo valido di licenziamento legato all’attitudine o alla condotta del lavoratore, o fondata sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Di seguito gli articoli 7 e 8 stabiliscono importanti regole procedurali a garanzia del lavoratore che contemplano il ricorso ad una autorità terza, e l’onere della prova della legittimità del licenziamento a carico del datore di lavoro, determinando in linea di massima gli obblighi riparatori.

  1. In conclusione.

La norma di interpretazione autentica fa chiarezza su di un punto dove già la giurisprudenza sarebbe potuta intervenire anche in relazione alla autorevole pronuncia delle Sezioni Unite del 26.10.2006 n.22910.

Ora, il licenziamento proveniente dall’illecito somministrante, deve ritenersi “ tamquam non esset”.

Conformemente si è espressa la giurisprudenza di merito – Tribunale di Roma terza Sezione Lavoro Giudice Lionetti 3.2.2021 causa promossa dallo Studio Panici.

Fabio Petracci.