I sanitari che non si vaccinano possono essere collocati in ferie – breve commento e testo integrale dell’ordinanza del Tribunale di Belluno

L’ordinanza emessa dal Tribunale di Belluno affronta il quanto mai attuale tema concernente l’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione da parte del personale sanitario.

Il caso affrontato dal Tribunale, vede il rifiuto di alcuni dipendenti operatori sanitari di sottoporsi alla vaccinazione anti COVID-19. Il datore di lavoro li colloca pertanto forzosamente in ferie.

I dipendenti in questione si rivolgono al locale Tribunale del Lavoro chiedendo in via d’urgenza (articolo 700 CPC)  di poter continuare a svolgere le ordinarie mansioni.

Il tutto sul presupposto in base al quale i lavoratori in questione svolgevano mansioni ad alto rischio di contagio.

Va considerato come l’articolo 32 della Costituzione disponga che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Ma a questo punto, secondo chi scrive va rimosso un equivoco.

Nel caso del vaccino di personale sanitario ad alto rischio di contagio, non si tratta di un obbligo, ma bensì di una condizione di sicurezza per poter lavorare.

L’obbligo cui allude la Costituzione è quello dotato di un’assolutezza totale per cui il soggetto deve in ogni modo, anche costretto con la forza aderire.

Nel caso di specie, si tratta esclusivamente di una condizione o meglio di un onere che incombe su chi voglia esercitare in determinate condizioni una professione sanitaria.

 

TRIBUNALE DI BELLUNO n. 12/2021 R.G.

Il Giudice sciogliendo la riserva assunta con verbale di trattazione scritta in data 16.3.21; ritenuto che risulta difettare il fumus boni iuris, disponendo l’art. 2087 c.c. che “ L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro “; ritenuto che è ormai notoria l’efficacia del vaccino per cui è causa nell’impedire l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus SARS -CoV-2, essendo notorio il drastico calo di decessi causati da detto virus, fra le categorie che hanno potuto usufruire del suddetto vaccino, quali il personale sanitario e gli ospiti di RSA, nonché, più in generale, nei Paesi, quali Israele e gli Stati Uniti, in cui il vaccino proposto ai ricorrenti è stato somministrato a milioni di individui; rilevato che è incontestato che i ricorrenti sono impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro; ritenuto che è, pertanto, evidente il rischio per i ricorrenti di essere contagiati, essendo fra l’altro notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l’infezione; ritenuto che la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti; che è ormai notorio che il vaccino per cui è causa – notoriamente offerto, allo stato, soltanto al personale sanitario e non anche al personale di altre imprese, stante la attuale notoria scarsità per tutta la popolazione – costituisce una misura idonea a tutelare l’integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l’evoluzione della malattia; ritenuto, quanto al periculum in mora, che l’art. 2109 c.c. dispone che il prestatore di lavoro “ Ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro “; che nel caso di specie prevale sull’eventuale interesse del prestatore di lavoro ad usufruire di un diverso periodo di ferie, l’esigenza del datore di lavoro di osservare il disposto di cui all’art. 2087 c.c.; ritenuta l’insussistenza del periculum in mora quanto alla sospensione dal lavoro senza retribuzione ed al licenziamento, paventati da parte ricorrente, non essendo stato allegato da parte ricorrente alcun elemento da cui poter desumere l’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento; ritenuto che, attesa l’assenza di specifici precedenti giurisprudenziali, sussistono le condizioni di cui all’art. 92 co. II c.p.c. per compensare le spese processuali. P.Q.M. visto l’art. 700 c.p.c.; 1. rigetta il ricorso

 

Risorse destinate alle assunzioni – non possono essere utilizzate per nuove posizioni organizzative.

Corte dei Conti – Delibera n.1 /2021/Sezione Regionale di Controllo per La Toscana.

Il comune toscano di Pienza richiede alla locale Sezione della Corte dei Conti se sia possibile utilizzare le risorse destinate alle assunzioni per finanziare nuove posizioni organizzative.

La Sezione risponde negativamente al quesito che pone il tema della disapplicazione del limite posto dall’articolo 23, comma 2, del DLGS 75/2017 circa l’ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale, applicando l’articolo 11 bis comma 2 del DL 135/2018.

Nel merito, la Sezione ritiene di dare risposta negativa al quesito posto dal Sindaco del comune di Pienza, per le ragioni di seguito rappresentate. Il quesito fa leva sull’art. 11 bis, comma 2, del citato DL 135, per sollecitare la disapplicazione del limite posto dall’art. 23, comma 2, del D. Lgs. n. 75/2017 all’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale. Dispone il detto art. 11 bis, comma 2, che: “Fermo restando quanto disposto dall’art. 1 commi 557-quater e 562 L. n. 296/2006, per i comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al personale del comparto funzioni locali – Triennio 2016-2018, limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l’eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all’utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario”.

La Ratio della norma appena citata, afferma la Corte dei Conti, è con tutta evidenza quella di introdurre una deroga all’art. 23, comma 2 D. Lgs. n. 75/2017 (richiamato anche dall’art. 33, comma 2, ultimo periodo, del DL n. 34/2019 in riferimento ai limiti del trattamento accessorio del personale); tale deroga consente, ai soli comuni privi di dirigenza, di sottrarre dall’applicazione del limite di cui al citato art. 23 (consistente nell’invarianza della spesa relativa al trattamento accessorio del personale rispetto agli importi del 2016) le indennità dei soggetti titolari di posizione organizzativa, attingendo alle risorse disponibili per le assunzioni di personale a tempo indeterminato, ma ciò soltanto a concorrenza del differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l’eventuale maggiorazione delle medesime retribuzioni successivamente attribuita ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL.

Fabio Petracci.

Pubblico Impiego – azione disciplinare – Sospensione Cautelare – assenza di provvedimento disciplinare – restitutio in integrum – spetta.

Corte di Cassazione Sezione Lavoro n.4411 del 18.2.2021.

Un dipendente pubblico è imputato di peculato. Viene sospeso in base all’articolo 4 della legge n.97/2001 che impone in tali fattispecie di reati e di condanna anche non definitiva per taluni reati contro la Pubblica Amministrazione la sospensione cautelare del dipendente, con la precisazione che il provvedimento perde efficacia in caso di successivo proscioglimento o assoluzione o dopo il decorso di un termine pari al periodo di prescrizione del reato. L’accusa alla fine cade per intervenuta prescrizione. Il dipendente si dimette e non viene perseguito disciplinarmente.

Egli pertanto nei diversi gradi di giudizio, richiede il pagamento delle somme non percepite in quanto oggetto di sospensione cautelare.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza in esame precisa come la sospensione cautelare nel pubblico impiego tanto quella obbligatoria come nel caso di specie, tanto quella facoltativa prevista anche dalla contrattazione collettiva sono provvedimenti interinali funzionali alla successiva sanzione e, pertanto il venir meno di quest’ultima produce il venir meno degli effetti della sospensione anche sotto l’aspetto economico.

L’istituto della sospensione cautelare nel pubblico impiego ha trovato una prima disciplina nel D.P.R. n. 3 del 1957, per gli impiegati civili dello Stato, articoli da 91 a 99. Tali norme sono state richiamate per il personale delle Unità Sanitarie Locali dal D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, art. 51, comma 1. Dopo la privatizzazione, con la stipula dei contratti collettivi, la regolamentazione è stata fissata dalla contrattazione collettiva, secondo quanto disposto dall’attuale DLGS 165/2001 artt. 69 e 71.

Alle ipotesi di sospensione cautelare previste da tali fonti si è aggiunta una sospensione di carattere speciale e di natura obbligatoria legata alla condanna per specifici reati. La relativa disciplina è stata fissata dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 4,

Nella fattispecie in esame la sospensione è stata disposta ai sensi dell’art. 4 della suddetta L. n. 97 del 2001; la norma sancisce la sospensione obbligatoria del dipendente di amministrazioni o enti pubblici (nonchè degli enti a prevalente partecipazione pubblica) in caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei più gravi delitti contro la pubblica amministrazione. Tra essi figura il delitto di peculato, per il quale il dipendente in questione veniva condannato dal Tribunale penale, procedimento che poi nelle successive fasi processuali diveniva oggetto di prescrizione.

L’art. 4 cui si è fatto cenno stabilisce la inefficacia della sospensione a seguito sia alla sentenza di assoluzione che a quella di proscioglimento. Tale ultima espressione individua le sentenze di non doversi procedere per ragioni processuali, tra le quali è compresa la sentenza di estinzione del reato per prescrizione. Il legislatore del 2001 nell’introdurre la normativa attuale mediante la legge 97/2001, ha recepito sul punto i principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza 3 giugno 1999 n. 206, nell’offrire l’interpretazione conforme a Costituzione della disciplina allora contenuta nella L. n. 55 del 1990, art. 15, comma 4 septies.

La sentenza di cui in epigrafe è stata chiamata a definire, cessati gli effetti della sospensione obbligatoria, la sorte della obbligazione retributiva che fa carico al datore di lavoro pubblico.

In riferimento alla sospensione facoltativa disposta a seguito di procedimento penale – a norma del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 91 o secondo la regolamentazione della contrattazione collettiva, la Suprema Corte con orientamento consolidato (fra le altre, Cass. nn. 5147/2013, 15941/2013, 26287/2013, 13160/2015, 9304/2017, 10137/2018, 20708/2018, 7657/2019, 9095/2020) ed in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa (C.d.S., Ad plen. 28.2.2002 n. 2) e costituzionale (Corte Cost. 6 febbraio 1973 n. 168), ha chiarito che la sospensione cautelare, in quanto misura interinale, ha il carattere della provvisorietà e della rivedibilità, nel senso che solo al termine e secondo l’esito del procedimento disciplinare si potrà stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata e debba sfociare nella destituzione o nella sospensione disciplinare, ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti. In particolare, ogni qualvolta la sanzione disciplinare non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura ed entità tali da non giustificare la sospensione sofferta sorge il diritto alla restitutio in integrum, che ha natura retributiva e non risarcitoria, e ciò a prescindere dalla espressa previsione della legge o della contrattazione collettiva.

Si è ritenuto, dunque, che in caso di omissione del procedimento disciplinare anche l’eventuale condanna penale intervenuta nei confronti del dipendente non sia suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio disposta in corso del procedimento penale e stabilita dalla amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto.

Per quanto attiene invece la cessazione dal servizio intervenuta nel corso del procedimento disciplinare, la legge DLGS 165/2001 all’articolo 55 bis , comma 9, prevede che la cessazione del rapporto con la pubblica amministrazione (non il trasferimento ad un’altra amministrazione) provoca la cessazione del procedimento disciplinare, salvo il caso di licenziamento disciplinare ed il caso in cui sia in corso la sospensione cautelare e la decisione in sede disciplinare porti alla irrogazione del provvedimento disciplinare cui la stessa è finalizzata.

Dunque, nel caso di specie, l’Amministrazione avrebbe potuto portare a termine il procedimento disciplinare anche di fronte al trasferimento del dipendente al fine di mantenere l’efficacia della sospensione cautelare, cosa che non ha fatto e quindi, secondo la Cassazione citata il provvedimento ha perso ogni effetto.

Fabio Petracci

Licenziamento – reintegra – ferie – spettano. Corte di Giustizia Europea Sentenza del 25/6/2020 Prima Sezione – Cause riunite C-762/18 e C-37/19

Le ferie si maturano anche in caso di licenziamento illegittimo.

 Lo afferma la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La decisione ha ad oggetto un licenziamento illegittimo che determina la reintegra del lavoratore il quale essendo rimasto forzatamente assente chiede il riconoscimento del periodo di ferie maturate dalla data del recesso e la reintegrazione, sul presupposto che detto periodo debba a tutti gli effetti essere riconosciuto quale periodo di effettivo lavoro.
A tale riguardo, la Corte di Giustizia afferma che in caso di licenziamento, successivamente dichiarato illegittimo, le ferie maturate nel periodo compreso tra il recesso e la reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro, deve essere assimilato ad un periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione delle ferie maturate o in alterativa, laddove per qualsivoglia ragione non possa fruirne, ad un’indennità sostitutiva delle stesse. Ciò in quanto, non avere potuto svolgere la propria prestazione, rientra tra i motivi indipendenti dalla volontà del dipendente.

CRISI DI IMPRESA E RIFLESSI SUL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO SECONDO IL NUOVO CODICE D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA (D.lgs n. 14/2019)

  1. Il lavoro subordinato ai tempi della nuova normativa (D.lgs n.14/2019); 2. Definizione di “crisi d’impresa” secondo Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I) e l’incidenza sul rapporto di lavoro subordinato; 3. Tra le novità più rilevanti del nuovo C.C.I.I: le procedure di allerta; 4. Le sorti del rapporto di lavoro in caso di liquidazione giudiziale; 5. Perdita involontaria dell’occupazione e trattamento NASpI; 6. Trasferimento d’azienda o di un ramo d’azienda.

 

  1. IL LAVORO SUBORDINATO AI TEMPI DELLA NUOVA NORMATIVA (D.LGS N.14/2019)

L’art. 2094 C.C. definisce la figura del prestatore di lavoro subordinato come colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Da tale nozione si ricava la struttura del rapporto di lavoro subordinato ovvero quando un soggetto (il lavoratore dipendente o prestatore di lavoro subordinato) svolge un’attività, stabilita per contratto, nell’interesse di un altro soggetto (il datore di lavoro o imprenditore), rispetto al quale si colloca in una posizione subordinata, in cambio della retribuzione.

Tutte le regole normative del rapporto tra lavoratori dipendenti e datore di lavoro sono contenute nel contratto di lavoro e nella legge, per cui si applicano le regole stabilite dal codice civile in materia di contratti in generale, nonché la specifica normativa del rapporto di lavoro, salvo diversamente disposto. Si ha quindi, un contratto individuale di lavoro, se il contratto è stipulato tra un datore di lavoro (persona fisica o persona giuridica) e un lavoratore (persona fisica). Contestualmente il rapporto può essere regolato anche da un contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) quando si aggiunge alla disciplina individuale, il contratto derivante da un accordo tra i sindacati maggiormente rappresentativi della categoria e le associazioni dei datori di lavoro.

Il contratto di lavoro è definito come un contratto di durata perché i suoi effetti ed obblighi sono destinati a perdurare per un certo lasso di tempo, quindi vi deve essere una continuità del rapporto, da non confondersi però con la continuità della prestazione lavorativa; spesso, quando si parla di lavoro subordinato, ci si riferisce generalmente a un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato (che non prevede pertanto una scadenza), ma di per sé la prestazione non è continua in senso assoluto in quanto destinata a soste ed interruzioni che fanno comunque restare in vita il rapporto.

Può accadere quindi, nel corso dell’esecuzione e quindi della durata del contratto, e delle relative obbligazioni, che l’impresa si trovi in difficoltà nel mantenere la continuità del rapporto. In altre parole, può verificarsi la crisi dell’impresa. La situazione di difficoltà economica può essere tale da comportare in extremis la cessazione dell’attività dell’impresa con la conseguente crisi dei rapporti di lavoro, o addirittura con l’espulsione dell’impresa dal mondo produttivo, con la conseguenza che il lavoratore dipendente rischia di ritrovarsi senza occupazione. Le sorti dei  di rapporti di lavoro ancora pendenti o meglio in forse non era contempla in maniera adeguata dalle vigenti normative in tema di crisi di impresa.

In sostanza, il diritto fallimentare non aveva adeguati ed espliciti collegamenti con il diritto del lavoro.

Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I), introdotto dal D.lgs n.14/2019, ha finalmente previsto una disciplina ad hoc per le procedure concorsuali, la quale che sostituito la preesistente legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), raccordando così la disciplina dell’insolvenza con quella del rapporto di lavoro.

Prima di arrivare alla cessazione dell’attività, la quale deve rappresentare come ultimo strumento a cui ricorrere, il nuovo Codice crea un sistema atto a prevenire lo stato di crisi dell’azienda con il risultato di sviluppare un meccanismo di monitoraggio dall’interno dell’impresa, infatti tra le novità più rilevanti vi è l’introduzione delle procedure di allerta.

In questa prospettiva, viene formulata una nuova definizione di “crisi d’impresa”, ex art. 2, lett. a) C.C.I.I definita come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore”. Una definizione che ha lo scopo di prevenire la crisi, cercando il più possibile di conservazione l’attività aziendale e quindi di conseguenza l’occupazione.

Per una maggiore tutela dei lavoratori dipendenti coinvolti nella crisi, uno degli articoli fondamentali è l’articolo 189 C.C.I.I, il quale dispone che “l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro, non costituisce di per sé motivo di licenziamento”. La ratio è quella di mantenere i rapporti di lavoro pendenti, ma solo nel caso di subentro ovvero ove sia possibile la prosecuzione o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, diversamente è previsto che il curatore può procedere al recesso dei rapporti di lavoro pendenti.

In quest’ultimo caso, il lavoratore dipendente che perde l’occupazione è comunque tutelato dalla nuova normativa, infatti l’art. 189 e l’art. 190 C.C.I.I riconoscono al lavoratore il c.d. contributo NASpI, previsto dall’art. 2, comma 31, L. n. 92/2012 che è dovuto anche in caso di risoluzione di diritto, in quanto ci troviamo di fronte ad una perdita involontaria dell’occupazione dovuta all’apertura della liquidazione giudiziale.

 

  1. DEFINIZIONE DI “CRISI D’IMPRESA” SECONDO LA NUOVA NORMATIVA (D.lgs n. 14/2019) E L’INCIDENZA SUL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO

Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (C.C.I.I) è stato emanato con il D.lgs n. 14/2019 e porta con sé una riforma organica per quanto concerne la disciplina delle procedure concorsuali, la quale era contenuta nella preesistente legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267).

A differenza della legge precedente, la quale disciplinava il fallimento  in un’accezione prevalentemente punitiva in quanto l’imprenditore dichiarato fallito doveva essere estromesso dal mercato, con la  conseguente  liquidazione della sua attività, la riforma del 2019 invece è maggiormente orientata a una definizione finanziaria prospettica o preventiva di crisi, con il fine  di individuare prontamente l’eventuale “stato di insolvenza futuro” (rectius crisi) per consentire un intervento risolutivo, volto in primo luogo alla conservazione dell’attività produttiva.

Si comprende come la cessazione dell’attività debba rappresentare l’ultimo strumento a cui ricorrere, solo quando non vi sono altri rimedi possibili. Si sostituisce infatti il termine “fallimento” con quello nuovo ovvero “liquidazione giudiziale”, non solo, ma oggi abbiamo una nuova nozione di “stato di crisi” , ex art. 2, lett. a) C.C.I.I, è “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” , differenziandosi pertanto dall’insolvenza ossia (ex art. 5 L.F., ora art. 2 del D.lgs n.14/2019), quello stato che “si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

Il carattere preventivo del richiamato decreto è il punto chiave della riforma ovvero la conservazione dell’attività aziendale che determina grazie anche al collegamento normativo previsto dall’articolo 189  C.C.I.I ,  una maggiore tutela dei lavoratori coinvolti nella crisi.

Sono infatti,  proprio gli articoli 189, 190 e 191 C.C.I.I. che affrontano i riflessi della liquidazione giudiziale e del trasferimento dell’azienda sui rapporti di lavoro.

Per raggiungere tale obiettivo, tra le novità più rilevanti, vi è l’introduzione delle c.d procedure di allerta. Oltre ad esse, vi sono ulteriori modifiche agli strumenti di risoluzione della crisi già esistenti con l’intento del legislatore di facilitarne l’accesso. L’obiettivo del nuovo codice è, inoltre, quello di adeguare il nostro Paese alle norme di altri Stati europei, cercando di fornire strumenti adeguati ad anticipare l’eventuale crisi aziendale e limitarne il più possibile il suo aggravarsi.

 

  1. TRA LE NOVITÀ PIÙ RILEVANTI DEL NUOVO C.C.I.I: LE PROCEDURE DI ALLERTA

Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza introduce le c.d procedure di allerta.

In tali procedure, sia gli organi di controllo societario sia i creditori pubblici qualificato hanno l’obbligo di segnalare, ex art 13 C.C.I.I, “gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i 6 mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale…” allo scopo di rilevare tempestivamente lo stato di crisi.

Nella fase interna della procedura, si cerca di creare un sistema capace di prevenire lo stato di crisi dell’azienda, mediante una maggiore responsabilizzazione del debitore e degli organi di governance, dando così all’azienda in difficoltà, la possibilità di evitare la crisi. Il risultato è lo sviluppo di un meccanismo di monitoraggio dall’interno dell’impresa.

Nella fase esterna invece, qualora non si riesca ad adottare misure riorganizzative dell’impresa per superare la crisi dall’interno, nonostante le segnalazioni degli organi di controllo e dei creditori pubblici qualificati, ci si rivolge all’Organismo per la Composizione assistita della Crisi aziendale (OCRI) per l’avvio della procedura di composizione assistita della crisi.

Gli organi di controllo societario, ossia il revisore contabile o la società di revisione, hanno l’obbligo di segnalare immediatamente all’organo amministrativo della società l’esistenza di fondati indizi della crisi.

Entro 30 giorni, l’organo amministrativo deve, a sua volta, sottoporre agli organi di controllo le soluzioni individuate e le iniziative intraprese per il superamento della crisi. Nel caso in cui gli amministratori, nei successivi 60 giorni non forniscano risposta o una inadeguata o ancora, non adottino i provvedimenti individuati per il superamento della crisi, gli organi di controllo hanno l’obbligo di rivolgersi all’Organismo per la Composizione della Crisi aziendale (OCRI) per l’avvio della procedura di composizione assistita della crisi.

I creditori pubblici qualificati, ossia Agenzia delle Entrate, INPS e l’Agente della riscossione delle imposte, hanno l’obbligo di comunicare al debitore che la sua esposizione ha superato determinate soglie di rilevanza, invitandolo a regolarizzare o sanare l’esposizione debitoria nei 90 giorni successivi. Decorso i 90 giorni, se l’esposizione debitoria rimane rilevante, i creditori pubblici qualificati hanno l’obbligo di segnalare all’OCRI. Qualora i creditori pubblici non adempiano all’obbligo di comunicazione posto a loro carico, per l’agenzia delle entrate e Inps determina la perdita del titolo di prelazione spettante sui crediti di cui sono titolari e, per l’Agente della riscossione delle imposte, l’inopponibilità del credito per spese ed oneri di riscossione.

Da segnalare che l’imprenditore deve sostanzialmente dotarsi di un efficace sistema di controllo di gestione interno, altrimenti, egli rischia di essere imputato del c.d reato di “bancarotta da aggravamento” introdotto dalla nuova disciplina. In altre parole, si va a punire penalmente il titolare reputato inerte in quanto non ha adottato un assetto organizzativo, amministrativo e contabile capace di rilevare tempestivamente gli indizi di crisi e di prevenirne.

Infine, se è l’impresa in crisi a presentare l’istanza di composizione assistita della crisi, il referente dell’OCRI ne dà notizia agli organi di controllo dell’impresa in crisi e ai creditori pubblici qualificati della loro mancata segnalazione, esonerandoli dall’obbligo di segnalazione per tutta la durata del procedimento di composizione assistita della crisi.

Sempre nell’articolo 13 C.C.I.I, sono contenuti gli appositi indicatori di crisi dell’impresa e si delega il CNDCEC (Consiglio Naz. Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili) di individuarli tenendo conto della migliore prassi nazionale ed internazionale. Nel caso in cui un’impresa dovesse ritenere inadeguati gli indici elaborati dal CNDCEC può specificare le ragioni nella nota integrativa al bilancio di esercizio, indicandone invece quelli più idonei a far ragionevolmente presumere la sussistenza del suo stato di crisi. Un professionista indipendente attesta l’adeguatezza di tali indici in base alle caratteristiche specifiche dell’impresa.

In ogni modo l’avvio del meccanismo di allerta non costituisce una causa di risoluzione dei contratti pendenti e dunque neppure di quello di lavoro.

 

  1. LE SORTI DEL RAPPORTO DI LAVORO IN CASO DI LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

Uno dei punti chiavi, concernenti i riflessi della liquidazione giudiziale sul rapporto di lavoro, è, come abbiamo già notato, l’art. 189 C.C.I.I, il quale l dispone che “l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro, non costituisce di per sé motivo di licenziamento. I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa vengono sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”.

In altre parole, i rapporti di lavoro potranno proseguire, ma solo nel caso in cui sia possibile la prosecuzione con la curatela o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo. Siamo dinanzi a un caso di subentro che ha efficacia dalla relativa comunicazione al lavoratore. Qualora non sia possibile subentrare nel rapporto di lavoro in essere, il curatore può procedere al recesso dei rapporti di lavoro pendenti. In quest’ultimo caso, il recesso ha efficacia retroattiva, pertanto produce i suoi effetti dalla data di apertura della liquidazione giudiziale.

L’189, comma 3, C.C.I.I affronta pure l’ipotesi di una eventuale inerzia del curatore, prevedendo una ipotesi di risoluzione di diritto dei rapporti di lavoro, infatti esso dispone che “decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato, che non siano già cessati, si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”.

Qualora il curatore ritenga che vi siano invece delle possibilità di ripresa o trasferimento a terzi dell’azienda o di un suo ramo, può proporre istanza al giudice delegato, per chiedere una proroga del termine di quattro mesi. Tale istanza può essere presentata anche dai singoli lavoratori, ma in tal caso la proroga ha effetto solo nei confronti dei lavoratori istanti. In ogni modo, il giudice delegato non può assegnare al curatore un termine superiore a otto mesi per comunicare le sue decisioni.

Scaduto il termine prorogato, ove il curatore non proceda al subentro o al recesso, i rapporti di lavoro subordinato ancora pendenti, si intendono risolti di diritto, con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. In questo caso, è prevista in favore del lavoratore il diritto ad ottenere un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due e non superiore a otto mensilità per ogni anno di servizio. Indennità che è ammessa al passivo come credito successivo all’apertura della liquidazione giudiziale, pertanto si configura come credito prededucibile.

 

  1. PERDITA INVOLONTARIA DELL’OCCUPAZIONE E TRATTAMENTO NASpI

L’art. 189, comma 5, C.C.I.I prevede che, trascorsi 4 mesi dall’apertura della liquidazione giudiziale, le eventuali dimissioni rese dal lavoratore si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 C.C. con effetto dalla data di apertura della liquidazione.

Nel caso di recesso del curatore, di licenziamento, dimissioni o risoluzione di diritto, l’art. 189 C.C.I.I riconosce in ogni caso al lavoratore con rapporto a tempo indeterminato l’indennità di mancato preavviso e il trattamento di fine rapporto (TFR). Essi sono riconosciuti come crediti anteriori all’apertura della liquidazione giudiziale ai fini dell’ammissione al passivo, pertanto si configurano come crediti privilegiati ex art. 2751-bis C.C. e non come crediti successivi ossia crediti prededucibili.

L’art. 189 e l’art. 190 C.C.I.I riconoscono al lavoratore il c.d. contributo NASpI, previsto dall’art. 2, comma 31, L. n. 92/2012 che è dovuto anche in caso di risoluzione di diritto.

Si precisa però, ex art. 189, comma 8, C.C.I.I che il contributo NASpI è ammesso al passivo come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale ai fini dell’ammissione al passivo.

La cessazione del rapporto di lavoro in caso dell’apertura della liquidazione giudiziale costituisce perdita involontaria dell’occupazione, ex art. 190 C.C.I.I, pertanto il lavoratore ha il diritto al trattamento NASpI, ma devono sussistere i requisiti elencati dal D.lgs. n. 22/2015.

 

  1. TRASFERIMENTO D’AZIENDA O DI UN RAMO D’AZIENDA

Da un punto visto giuslavoraristico, il trasferimento dell’azienda in crisi è sempre stato una materia complessa. Per una sua comprensione, in linea generale, è bene partire dalle fonti normative principali che lo riguardano: l’art. 2112 C.C. disciplina in modo generale la fattispecie; l’art. 47 della l. n. 428/1990 adatta la disciplina generale nel caso del trasferimento dell’azienda in crisi e l’introduzione con l. n. 166/2009 del comma 4 – bis nell’art. 47  definisce condizioni e casi di deroga alla disciplina dell’art. 2112 C.C. da parte di accordi sindacali stipulati per far fronte a qualificate situazioni di difficoltà delle aziende.

L’articolo 47 della legge 29.12.1990 n.428 prevede al comma 4 – bis che sarà sostituito dal nuovo testo quanto segue:

4-bis. Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende:

  1. a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisiaziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675;
  2. b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività 

b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo;

b-ter) per le quali vi sia stata l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti .

  1. Qualora il trasferimento riguardi o impresenei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codicecivile, salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante .
  2. I lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione l’articolo 2112 del codicecivile.”

Proprio questo testo del  comma 4 – bis ha sollevato dubbi sulla sua conformità con la direttiva 2001/23/CE, la quale è diretta a proteggere i lavoratori, promuovendo il ravvicinamento, senza però un’armonizzazione completa, delle legislazioni nazionali al fine di assicurare il mantenimento dei loro diritti in caso di trasferimento d’impresa, salvo i casi in cui non ricadono in una delle eccezioni espressamente previste dalla stessa direttiva.

A tale riguardo, il nuovo Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, meglio conosciuto come D.lgs 12/01/2019 n. 14, ha introdotto l’art. 368, comma 4, lett. b) che regolerà la materia esaminata a partire dal 1 settembre 2021.

Due saranno le innovazioni previste dal nuovo Codice rispetto all’attuale comma 4 – bis: la prima prevede delle modifiche all’elencazione delle situazioni in cui l’azienda deve trovarsi perché l’accordo sindacale sia legittimato a prevedere deroghe alla disciplina dettata dall’art. 2112 C.C.; la seconda riguarda gli effetti destinati ad accompagnare l’accordo raggiunto a conclusione della consultazione sindacale.

In pratica, come vedremo, le deroghe all’applicazione integrale dell’articolo 2112 del codice civile sono graduate progressivamente nei singoli comma in crescendo con la natura liquidatoria della procedura.

Il comma 4 bis stabilisce che qualora si raggiungano accordi sindacali oer la salvaguardia dell’occupazione e quindi in caso di apertura di concordato preventivo, omologazione di accordi per la ristrutturazione di debiti, amministrazione straordinaria e quindi procedure non aventi carattere liquidatorio rimane fermo in caso di cessione di azienda il trasferimento dei rapporti di lavoro ex articolo 2112 del codice civile con possibilità di derogare al 2112 mediante accordi sindacali per quanto attiene le condizioni di lavoro.

Quindi, il comma 4-bis precisa espressamente che rimane fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, e non si applicano le deroghe dell’art. 2112 C.C. per quanto riguarda la continuità dei rapporti in capo all’azienda cessionaria; mentre è possibile derogare la disciplina dell’art. 2112 C.C.  per le condizioni di lavoro dei dipendenti, come l’anzianità o i trattamenti retributivi.

Si comprende che la ratio del comma 4 – bis è quella di limitare le deroghe all’articolo 2112 codice civile mediante gli accordi sindacali, al fine di operare in linea con le regole della direttiva 2001/23/CE.

Il successivo comma 5 riguarda le procedure aventi carattere liquidatorio  e qui nel caso di cessione di azienda in tal caso mediante accordi collettivi, possono essere derogati i commi 1,3 e 4 del codice civile, con possibilità di deroga anche tramite  accordi individuali

Il comma 5 ter invece, riguarda le aziende sottoposte ad amministrazione straordinaria , senza continuazione dell’attività, allorquando sia  raggiunto un accordo anche parziale per il mantenimento dell’occupazione  ai lavoratori il cui rapporto continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile.

 

Lili Liu – studentessa Facoltà di Giurisprudenza Università di Trieste

Contratto di somministrazione e contratto a termine illegittimi – risarcimento del danno – pubblica amministrazione – applicazione dei criteri risarcitori comuni del diritto del lavoro.

Cassazione n.3815 del 15.2.2021.

Di fronte ad un contratto di somministrazione a tempo determinato instaurato con l’INPS la Corte di Cassazione con sentenza n.3815 del 15.2.2021 nel ribadire l’insussistenza di un diritto del lavoratore alla ricostituzione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, afferma invece il pieno diritto del lavoratore ad ottenere retroattivamente e per il passato la conversione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore ed a tempo indeterminato ai fini e quindi il risarcimento del danno nei termini di cui all’allora vigente articolo 32 comma 5 L.183/2010 ed attuale articolo 28 comma 2 del DLGS 165/2001 (da 2,5 a 12 mensilità).

La sentenza appare d’interesse in quanto oltre a considerare il predetto danno (danno comunitario) come non soggetto all’onere della prova, considera come possibile nel caso delle pubbliche amministrazioni, la sussistenza di un ulteriore danno, in merito al quale l’onere della prova incomberà sul lavoratore. La stessa sentenza inoltre meglio definisce e differenzia la natura del danno cosiddetto comunitario nel caso del dipendente privato e di quello pubblico, così testualmente affermando:

 “Ciò non dà luogo ad una posizione di favore del dipendente pubblico rispetto al lavoratore privato, atteso che per il primo l’indennità forfetizzata agevola l’onere probatorio del danno subito pur rimanendo salva la possibilità di provare un danno maggiore mentre per il lavoratore privato essa funge da limite al danno risarcibile, ma questa restrizione è bilanciata dal diritto alla conversione del rapporto di lavoro, insussistente nel lavoro pubblico”

La pronuncia qui menzionata trova le proprie ragioni nella precedente Cassazione n.3189/2019 e nella precedente autorevole pronuncia delle Sezioni Unite n.5072/2016.

 

 

 

Medici specializzandi obbligo di assicurazione INAIL

I medici specializzandi debbono essere assicurati presso l’INAIL e quindi l’Azienda Ospedaliera è destinataria dell’obbligo assicurativo.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n.443 del 13.1.2021.

Il DLGS 368/1999 all’articolo 41 prevede a carico dell’azienda sanitaria presso la quale il medico svolge la propria formazione l’onere della copertura assicurativa per i rischi professionali, per  la responsabilità civile verso terzi e gli infortuni connessi all’attività assistenziale, alle stesse condizioni dell’altro personale.

Il DLGS 368/1999 costituisce l’attuazione della direttiva comunitaria 93/16/CEE che impone uniformità di trattamento per i medici in formazione.

Sosteneva l’azienda sanitaria che la legge aveva previsto un generico obbligo assicurativo, ma non espressamente un obbligo di assicurazione all’INAIL non essendo i medici specializzandi neppure lavoratori subordinati. Sosteneva inoltre l’azienda sanitaria che i medici specializzandi non potevano neppure essere considerati studenti in base all’articolo 4 del DPR n.1124 del 1965.

La Corte di Cassazione ha smentito tale assunto difensivo, ritenendo come il dato testuale della legge di cui al DLGS 368/1999 articolo 4 impone per quanto riguarda la copertura antiinfortunistica l’uniformità di copertura riguardo al restante personale.

Pubblico Impiego. Festività soppresse e Ferie – monetizzazione.

E’ richiesto all’ARAN un parere in merito alla monetizzazione delle festività soppresse nell’ambito del comparto delle Amministrazioni Centrali (già Comparto Ministeri).

Nello specifico si chiede se sia possibile monetizzare le giornate di riposo ex L. n. 937/1977 nel caso di mancato godimento nell’anno di maturazione, precedente all’anno di cessazione del rapporto di lavoro, qualora non godute dal dipendente per causa diversa dai motivi di servizio (es. malattia o altro oggettivo impedimento)?

 

L’ articolo  28 del CCNL di comparto fa riferimento alle ferie ed al recupero delle festività soppresse, stabilendo che:

  1. Il dipendente ha diritto, in ogni anno di servizio, ad un periodo di ferie retribuito. Durante tale periodo al dipendente spetta la normale retribuzione ivi compresa l’indennità di posizione organizzativa, esclusi i compensi per le prestazioni di lavoro straordinario, nonché le indennità che richiedano lo svolgimento della prestazione lavorativa e quelle che non siano corrisposte per dodici mensilità.
  2. In caso di distribuzione dell’orario settimanale di lavoro su cinque giorni, la durata delle ferie è di 28 giorni lavorativi, comprensivi delle due giornate previste dall’ art. 1, comma 1, lettera “a”, della L. 23 dicembre 1977, n. 937.
  3. In caso di distribuzione dell’orario settimanale di lavoro su sei giorni, la durata del periodo di ferie è di 32 giorni, comprensivi delle due giornate previste dall’ art. 1, comma 1, lettera “a”, della L. 23 dicembre 1977, n. 937.
  4. Per i dipendenti assunti per la prima volta in una pubblica amministrazione, a seconda che l’articolazione oraria sia su cinque o su sei giorni, la durata delle ferie è rispettivamente di 26 e di 30 giorni lavorativi, comprensivi delle due giornate previste dai commi 2 e 3.
  5. Dopo tre anni di servizio, ai dipendenti di cui al comma 4 spettano i giorni di ferie stabiliti nei commi 2 e 3.
  6. A tutti i dipendenti sono altresì attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell’anno solare ai sensi ed alle condizioni previste dalla menzionata legge n. 937/77.
  7. Nell’anno di assunzione o di cessazione dal servizio la durata delle ferie è determinata in proporzione dei dodicesimi di servizio prestato. La frazione di mese superiore a quindici giorni è considerata a tutti gli effetti come mese intero.
  8. Il dipendente che ha usufruito dei permessi retribuiti di cui agli artt. 31 e 33 conserva il diritto alle ferie.
  9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile, non sono monetizzabili. Esse sono fruite, previa autorizzazione, nel corso di ciascun anno solare, in periodi compatibili con le esigenze di servizio, tenuto conto delle richieste del dipendente. Le ferie non possono essere fruite ad ore.
  10. L’amministrazione pianifica le ferie dei dipendenti al fine di garantire la fruizione delle stesse nei termini previsti dalle disposizioni contrattuali vigenti.
  11. Le ferie maturate e non godute per esigenze di servizio sono monetizzabili solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di legge e delle relative disposizioni applicative.
  12. Compatibilmente con le esigenze del servizio, il dipendente può frazionare le ferie in più periodi. Esse sono fruite nel rispetto dei turni di ferie prestabiliti, assicurando comunque, al dipendente che ne abbia fatto richiesta, il godimento di almeno due settimane continuative nel periodo 1 giugno – 30 settembre.
  13. Qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio, il dipendente ha diritto al rimborso delle spese documentate per il viaggio di rientro in sede e per quello di ritorno al luogo di svolgimento delle ferie. Il dipendente ha inoltre diritto al rimborso delle spese anticipate per il periodo di ferie non godute.
  14. In caso di indifferibili esigenze di servizio che non abbiano reso possibile il godimento delle ferie nel corso dell’anno, le ferie dovranno essere fruite entro il primo semestre dell’anno successivo.
  15. In caso di motivate esigenze di carattere personale e compatibilmente con le esigenze di servizio, il dipendente dovrà fruire delle ferie residue al 31 dicembre entro il mese di aprile dell’anno successivo a quello di spettanza.
  16. Le ferie sono sospese da malattie adeguatamente e debitamente documentate che si siano protratte per più di tre giorni o abbiano dato luogo a ricovero ospedaliero. E’ cura del dipendente informare tempestivamente l’amministrazione, ai fini di consentire alla stessa di compiere gli accertamenti dovuti.
  17. Fatta salva l’ipotesi di malattia non retribuita di cui all’art. 37, comma 2, il periodo di ferie non è riducibile per assenze dovute a malattia o infortunio, anche se tali assenze si siano protratte per l’intero anno solare. In tal caso, il godimento delle ferie deve essere previamente autorizzato dal dirigente in relazione alle esigenze di servizio, anche oltre i termini di cui ai commi 14 e 15.

 

Come è dato a vedere è espressamente il comma 6 che disciplina l’istituto delle festività soppresse di cui alla legge 937/1977.

Per il resto la clausola contrattuale si occupa dell’istituto delle ferie cui è attribuita natura irrinunciabile.

Il parere dell’ARAN osserva come, l’istituto delle festività soppresse di cui alla L. n. 937/1977 appare fondamentalmente equiparato a quello dei congedi ordinari (rectius, ferie) sin dalla nota sentenza del Consiglio di Stato del 20/10/1986 n. 802.

Osserva l’ARAN come in via preliminare tuttavia, permangano delle sostanziali differenze in ordine alla disciplina ad esse applicabile.

Il parere passa quindi ad esaminare il contenuto dell’articolo 28 del CCNL comparto Funzioni Centrali del 12/02/2018 che non ha operato una equiparazione piena tra il regime delle quattro giornate di festività soppresse e quello generale delle ferie, dato che questa è limitata solo ad alcuni particolari profili della disciplina (come ad es. la maturazione di giorni nel corso dell’anno e l’importo dovuto al lavoratore in caso di mancata fruizione).

Ne è riprova, a detta dell’ARAN, che il comma 6 stabilisce almeno in parte, una disciplina specifica laddove afferma che i giorni di riposo per festività soppresse sono: “…da fruire nell’anno solare ai sensi ed alle condizioni previsti dalla menzionata Legge n.973/77”.

Pertanto, ritiene l’ARAN nel suo parere, tale riferimento contrattuale consente di affermare che, in ossequio alla L. n. 937/1977, le giornate di riposo devono essere fruite esclusivamente nell’anno di riferimento e che, conseguentemente, non è possibile in alcun modo la trasposizione di quelle maturate in un determinato anno all’anno successivo a quello di maturazione. In aggiunta a ciò, rileva l’ARAN, la medesima disposizione di legge sancisce che la monetizzazione delle stesse può avvenire solo “per fatto derivante da motivate esigenze inerenti alla organizzazione dei servizi, …” (cfr. art. 1, comma 3, della citata legge).

In conclusione, ribadisce l’ARAN, l’eventuale monetizzazione delle festività in parola (il cui importo rimane quello indicato dall’art. 1, comma 3, della L. n. 937/1977) potrà ammettersi solo nei ristretti e precisi limiti consentiti.

Sul punto giova citare il discorso dell’irrinunciabilità delle ferie e del diritto alla relativa indennità sostitutiva.

In proposito si è di recente pronunciata la Corte di Cassazione con l’ordinanza n.13613 del 2 luglio 2020 laddove in conformità a due pronunce della Corte di Giustizia Europea , la Cassazione ritiene che affinchè si determini la perdita del diritto alla monetizzazione, il datore di lavoro, nell’inerzia del lavoratore, è tenuto ad invitarlo, anche formalmente al godimento delle ferie.

Pubblico Impiego Sanità. La remunerazione delle guardie mediche spetta anche al personale non appartenente al Servizio di Pronto Soccorso

Viene posto all’ARAN il quesito se la remunerazione prevista per i medici di guardia al Servizio di Pronto Soccorso in base all’articolo 26, comma 5 del CCNL dell’Area Sanità, spetti pure al personale medico di altri reparti adibiti al turno di pronto soccorso.

 

Ritiene l’ARAN, interpellata, che il comma 5 dell’articolo 26 non fa riferimento alcuno alla struttura di appartenenza del dirigente medico chiamato a coprire il turno di guardia, riferendosi esclusivamente al turni nei servizio di pronto soccorso.

 

Per completezza, viene trascritta di seguito la citata normativa contrattuale.

 

Art. 26 Servizio di guardia 1.Nelle ore notturne e nei giorni festivi, la continuità assistenziale e le urgenze/emergenze dei servizi ospedalieri e, laddove previsto, di quelli territoriali, sono assicurate tenuto conto delle diverse attività di competenza della presente area dirigenziale nonché dell’art. 6 bis, comma 2 (Organismo paritetico), mediante: a) il dipartimento di emergenza, se istituito, eventualmente integrato, ove necessario da altri servizi di guardia o di pronta disponibilità; b) la guardia di unità operativa o tra unità operative appartenenti ad aree funzionali omogenee e dei servizi speciali di diagnosi e cura; c) la guardia nei servizi territoriali ove previsto. 2. Il servizio di guardia è svolto all’interno del normale orario di lavoro. E’ fatto salvo quanto previsto dal presente CCNL in materia di prestazioni aggiuntive di cui all’art. 115 comma 2 (Tipologie di attività libero professionale intramuraria). Di regola, sono programmabili non più di 5 servizi di guardia notturni al mese per ciascun dirigente. 3.Il servizio di guardia è assicurato da tutti i dirigenti esclusi quelli di struttura complessa. 4. Le parti, a titolo esemplificativo, rinviano all’allegato n. 2 del CCNL 3.11.2005 dell’Area IV e III con riferimento alla sola dirigenza sanitaria e delle professioni sanitarie per quanto attiene le tipologie assistenziali minime nelle quali dovrebbe essere prevista la guardia di unità operativa.

  1. La remunerazione delle guardie notturne e/o festive svolte in Azienda o Ente dopo aver detratto da quelle fuori dell’orario di lavoro il numero, non superiore al 12%, delle guardie complessive retribuibili ai sensi dell’art. 115 comma 2 bis (Tipologie di attività libero professionale intramuraria) è stabilita in € 100,00 per ogni turno di guardia notturno e/o festivo in orario e fuori dell’orario di lavoro e in € 120,00 per i medesimi turni nei servizi di pronto soccorso. Tale compenso, che è corrisposto a decorrere dal mese successivo alla data di entrata in vigore del presente CCNL, comprende ed assorbe l’indennità prevista dall’art. 98, comma 1, (Indennità per servizio notturno e festivo) che pertanto non compete per i soli turni di guardia. 44 Qualora si proceda al pagamento delle ore di lavoro straordinario per l’intero turno di guardia notturno e/o festivo prestato fuori dell’orario di lavoro, non si dà luogo all’erogazione del suddetto compenso. Detto compenso compete, invece, per le guardie fuori dell’orario di lavoro che diano luogo al recupero dell’orario eccedente.
  2. Per la corretta determinazione dei turni di guardia notturni da calcolare si rinvia all’allegato 1 del CCNL del 5.7. 2006 dell’Area IV e III con riferimento alla sola dirigenza sanitaria e delle professioni sanitarie. Resta fermo che la prestazione di turni di guardia notturna fuori dell’orario di lavoro dovrà avvenire nel rispetto, tra l’altro, della normativa vigente in materia di riposo giornaliero di cui in particolare al D.Lgs. n. 66/2003 e s.m.i.