Nullo il licenziamento di lavoratrice madre in caso di fallimento dell’azienda con continuazione di fatto dell’attività

In caso di fallimento dell’azienda, pur in assenza di un provvedimento di autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa, la prosecuzione dell’attività aziendale rende nullo il licenziamento irrogato alla lavoratrice madre.

Il principio è affermato dalla Suprema Corte con una recente pronuncia – Cassazione Sezione Lavoro 19.12.2023 n.35527.

L’articolo 54 del DLGS 151/2001 vieta il licenziamento della lavoratrice madre dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro e comunque sino al compimento di un anno di età del bambino.

La normativa prevede al comma 3 una serie di eccezioni tra le quali alla lettera b) il caso di cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta.

La Cassazione (Cassazione Sezione Lavoro 11.11.2021 n.33368 ) aveva già a suo tempo precisato come affinché tale eccezione si concretizzi debba verificarsi la totale cessazione dell’attività dell’azienda, trattandosi di norma che pone un’eccezione ad un principio di carattere generale (come il divieto di licenziamento di cui all’articolo 54 DLGS 151/2001) , essa non può essere di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica.

L’articolo 104 del RD 267/1942 (legge fallimentare) stabilisce come una volta dichiarato il fallimento, il Tribunale possa disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa.

Nel caso di specie come riferito nella sentenza che si annota, l’azienda nonostante il fallimento e la mancata autorizzazione alla prosecuzione dell’attività, continua a svolgere la propria attività.

Non si tratta quindi di cessione d’azienda o dell’operare di una nuova azienda, ma bensì di una prosecuzione di fatto sebbene non autorizzata dal Tribunale.

La Corte di Cassazione con la già accennata sentenza supera questo ostacolo in primo luogo escludendo che la deroga ad un principio generale ( divieto di licenziamento nel corso del periodo di maternità indicato dalla legge) mediante l’interpretazione estensiva o analogico dell’eccezione legale (cessazione dell’attività aziendale).

Essa opera inoltre un richiamo di carattere più generale in riferimento della necessità di sanzionare quei trattamenti penalizzanti che possono essere riservati alle donne coniugate, in gravidanza, o ancora con figli in età prescolare,  richiamandosi anche alla prima legge sulla parità di trattamento (L. n. 903 del 1977art. 1, comma 2), la quale vietava qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, per quanto riguarda l’accesso al lavoro, anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza, nonché , alla disciplina che vieta di licenziare la lavoratrice in stato di gravidanza dal momento del concepimento sino al compimento del primo anno di vita del bambino (regolato dapprima dalla L. n. 1204 del 1971, oggi trasfuso nel D.Lgs. n. 151 del 2001art. 54).

Ma il richiamo va pure alla disciplina generale del Codice delle pari opportunità, come riformato dal D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, il quale, nel recepire la Direttiva 2006/54/CE, relativa al principio di pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego, ha provveduto ad una parziale modifica del vigente Codice.

Fabio Petracci

Presentazione a Palazzo Madama del Magazine Spazio Imprese

Presentato a Palazzo Madama il numero zero della nuova rivista Spazio Imprese diretta dal dottor Antonio Grieci.

Il magazine si propone come uno strumento che vuole dare voce a Imprese e Lavoratori connettendoli in sinergia con le Istituzioni.

Con la delegazione di CIU Unionquadri presente pure l’avvocato Petracci che collabora con la rivista che nel corso del suo intervento ha ribadito l’importanza, accanto alle tematiche di ampio respiro, del ruolo di guida dell’informazione per lavoratori ed imprenditori sempre alla ricerca di orientamenti nel mondo produttivo.

Il video della presentazione da Radio Radicale

Green Pass, una guida operativa

Soggetti sottoposti all’obbligo.

Il decreto legge 21 settembre 2021 n.127 (decreto Green Pass) impone al personale del settore privato inclusi i lavoratori autonomi ed i familiari ed a chiunque in forza di un contratto entri in azienda dell’apposita certificazione COVID 19 (Green Pass), ivi compresi artigiani, agenti di commercio e fornitori.

L’obbligo si estende anche a chi acceda alla mensa aziendale ed a chi, pur operando in lavoro agile si debba recare per qualunque motivo in azienda.

Non sono tenuti all’obbligo coloro che siano in qualsiasi modo esenti dalla vaccinazione. Costoro dovranno presentare apposita certificazione al medico competente che ne darà comunicazione al datore di lavoro.

Le modalità di accertamento erano affidate sino al 30 settembre 2021 con successiva proroga al 30 novembre 2021, certificazioni cartacee secondo quanto previsto falla circolare 4.8.2021 del Ministero della Sanità

La durata dell’obbligo di presentazione del Green Pass  è fatta partire dal 15.10.2021 (venerdì) al 31.12.2021 data di scadenza del periodo emergenziale.

In ogni caso, per le esenzioni, datore di lavoro non è autorizzato al trattamento diretto di questo dato sanitario. Il certificato di esenzione alla vaccinazione dovrà essere fornito dal lavoratore al medico competente, il quale si limiterà a informare il datore circa i lavoratori ai quali non deve essere svolto il controllo del Green Pass, senza ulteriori trattamenti di dati sanitari degli interessati.

I controlli.

I controlli possono avvenire anche a campione sia precedentemente all’entrata in azienda che nell’ambito della stessa.

La verifica va effettuata mediante scansione del QR code del Green Pass mediante l’app VERIFICA C19

Sono preferibili i controlli preventivi che potranno avvenire a campione oppure estendersi a chiunque entri in azienda.

Quest’ultimo sistema appare preferibile in quanto permette un controllo generalizzato ed impedisce l’accertamento di situazioni di scopertura all’interno dell’azienda che comportano sanzioni e denunce al prefetto.

Quindi il sistema più semplice ed efficace sarebbe quello del controllo generalizzato in entrata.

Le modalità di controllo devono essere predefinite e notiziate ai lavoratori.

Con documento scritto dovranno essere identificate ed incaricate le persone addette ai controlli.

Si tratterà di adottare un atto formale contenente le istruzioni per la verifica.

I soggetti addetti al controllo possono essere sia dipendenti dell’azienda, o di società appaltatrici dei servizi di sicurezza.

Si suggerisce di inserire nella nomina dei soggetti incaricati anche l’autorizzazione al trattamento dei dati ai sensi degli articoli 29 e seguenti del GDPR – Regolamento UE 2016/679 e DLGS n.196/2003 (codice privacy).

Conseguenze.

Appena effettuati i controlli, i lavoratori che risultino privi della certificazione o dichiarino di non possederla, devono essere allontanati e considerati assenti ingiustificati, ma non va inflitta loro alcuna sanzione, semplicemente saranno privati della retribuzione e da ogni obbligo connesso (contributi), TFR, per tutto il periodo di assenza. Quindi non potranno mettersi in malattia o richiedere una volta assenti altre forme di aspettativa magari più vantaggiose, in quanto il rapporto di lavoro è in totale quiescenza)

Essi avranno diritto alla conservazione del posto di lavoro (come se fossero in aspettativa non retribuita).

Potranno rientrare in qualunque momento previa presentazione della certificazione richiesta.

In questo caso, per motivi organizzativi, si potrà richiedere agli stessi una comunicazione scritta di rientro con un termine per il datore di lavoro di almeno tre giorni per organizzare il posto di lavoro.

Diversa invece sarà la posizione di quanti presenti in azienda, nell’ambito di un controllo, saranno accertati privi del Green Pass.

In quest’ultimo caso, l’addetto ai controlli, dovrà segnalare il nominativo al prefetto per l’irrogazione al lavoratore medesimo di una sanzione amministrativa (da euro 600 a 1500) e potrà essere avviata contro i medesimi apposita procedura disciplinare con contestuale sospensione del rapporto senza retribuzione (provvedimento che non assume valenza disciplinare).

Sanzioni sono inoltre previste per i datori di lavoro che non ottemperano a queste disposizioni.

Dette sanzioni possono comportare misure interdittive e la chiusura dell’esercizio. Quindi converrà documentare adeguatamente l’attività di controllo svolta.

All’atto pratico, si consiglia di:

  1. Effettuare i controlli in massa e generalizzati prima dell’entrata in azienda-
  2. Nel caso di dipendente o addetto privo del Green Pass esso va allontanato, consegnandoli o inviandoli poi apposita nota con cui si comunica che egli sarà considerato assente ingiustificato sino alla cessazione del periodo di emergenza 31.12.2021, salvo proroghe senza retribuzione ed istituti connessi, ma senza che ciò costituisca illecito disciplinare.

Gli dovrà essere comunicato che potrà rientrare in azienda e riprendere l’attività lavorativa nel caso in cui risulti munito di Green Pass con un preavviso all’azienda di n.3 giorni per permettere la sua utile collocazione.

  1. Nel caso in cui il dipendente protesti o faccia resistenza, andrà valutata la portata del suo comportamento, nel caso in cui si limiti a protestare, converrà non dare seguito alla cosa, nel caso di resistenza o tentativo di forzare i controlli, sarà bene chiamare la forza pubblica e dar luogo a contestazione disciplinare.
  2. Nel caso in cui il dipendente sia collocato in malattia o in aspettativa prima della data del 15.10.2021, non si dovrà dare corso a provvedimento alcuno, sino al rientro in cui gli si chiederà il Green Pass.
  3. Se un dipendente senza nulla segnalare, non si presenterà alla data del 15.10.21 per il controllo, andrà contestata l’assenza ingiustificata e si procederà disciplinarmente.
  4. Qualora invece il dipendente segnali di non essere in possesso del Green Pass alla data del 15.10.2021 si darà corso all’assenza ingiustificata senza sanzione disciplinare e senza retribuzione, come accade per chi all’ingresso non sarà in possesso di valido Green Pass.
  5. Qualora invece, chi obbligato al Green Pass venga ne venga sorpreso privo in azienda, dovrà essere fatta immediata segnalazione al prefetto ed il soggetto dovrà essere in ogni caso allontanato. Contro il medesimo potrà aprirsi procedimento disciplinare.

 

Avvocato Fabio Petracci

LA RESPONSABILITÀ IN SEDE PENALE DEGLI ENTI – D.LGS 231/2001

 

  1. Premessa; 2. I soggetti destinatari; 3. La responsabilità, l’esonero e l’autonomia degli enti; 4. Le sanzioni amministrative; 5. La responsabilità amministrativa da reato; 6. La responsabilità patrimoniale dell’ente; 7. Aspetti processuali.

 

  1. PREMESSA

Il D.lgs 231/2001, recante “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la responsabilità in sede penale degli enti.

La ratio del decreto legislativo citato è quello di colmare l’impunibilità degli illeciti penali commessi da parte degli enti, aggiungendo a quella della persona fisica che ha realizzato materialmente il fatto illecito. Questo perché, nel nostro ordinamento giuridico, precisamente all’articolo 27.1 Cost., la responsabilità penale è personale, con la conseguenza che solo il soggetto agente risponde esclusivamente dell’illecito penale.

Si ricollega inoltre, al principio “societas delinquere non potest”, secondo cui il reato commesso da una persona fisica appartenente ad un ente o ad una persona giuridica non può sorgere anche una responsabilità in capo al secondo.

In sostanza, il D.lgs. 231/2001 ha introdotto un regime di responsabilità amministrativa a carico degli enti per alcuni reati commessi da persone fisiche che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione, anche all’interno di una sua unità organizzativa autonoma e da persone soggette a direzione e vigilanza.

 

  1. I SOGGETTI DESTINATARI

L’efficacia soggettiva del D.lgs 231/2001 si basa sull’ente, inteso come un’organizzazione collettiva dotata di una certa autonomia organizzativo. I criteri di individuazione dei soggetti possono essere ad esempio, lo scopo di lucro e la personalità giuridica.

Le disposizioni si applicano, ex articolo 1, comma 2 del citato decreto legislativo, “agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”; ci riferiamo ad esempio alle società di capitali, alle società di persone, alle società cooperative e alle mutue assicuratrici, ai consorzi con attività esterna, alle fondazioni o alle associazioni.

Il comma 3 invece, esclude l’ambito di applicazione allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli enti pubblici non economici, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ, L’ESONERO E L’AUTONOMIA DEGLI ENTI

Secondo quanto disposto dall’articolo 5 del D.lgs 231/2001, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso ovvero i c.d soggetti in posizione apicale; da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza ovvero i c.d soggetti sottoposti all’altrui direzione. Sempre nello stesso articolo, si precisa che l’ente non risponde se le persone sopracitate hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

Vi sono altri casi in cui l’ente viene esonerato dalla responsabilità, infatti l’articolo 6 prevede che, se il reato è stato commesso dalle persone disposte dall’articolo 5, l’ente non risponde se prova che: l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo stesso.

In sintesi, l’ente ha l’obbligo di provare che i reati imputati non siano ad esso ascrivibili, pertanto si è dinanzi ad un regime di responsabilità con l’inversione dell’onere della prova.

L’articolo 7 invece, precisa che l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, ma si esclude dall’inosservanza di quest’ultimi, se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Il modello richiamato deve “prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”.

Per quanto riguarda “l’efficace attuazione del modello, si richiede: una verifica periodica e l’eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività; un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello”.

Infine, sotto il profilo dell’autonomia delle responsabilità dell’ente, l’articolo 8 dispone che “la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

In ogni modo, non si procede nei confronti dell’ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l’imputato ha rinunciato alla sua applicazione, salvo diversamente disposta dalla legge. L’ente, tuttavia, può rinunciare all’amnistia.

 

  1. LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

Gli illeciti amministrativi dipendenti da reato sono contenuti nell’articolo 9 del D.lgs 231/2001 e sono di quattro tipi: la sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza.

Le sanzioni interdittive sono: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l ́eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Come disposto dall’articolo 11, “nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice determina il numero delle quote tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti”.

La sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento né superiore a mille. Una singola quota va da un minimo di 258,23 euro ad un massimo di 1.549,37 euro. In ogni modo, l’importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l ́efficacia della sanzione.

Vi è la possibilità infine, di ridurre la sanzione pecuniaria come previsto dall’articolo 12.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DA REATO

Oltre agli illeciti sopracitati, vi sono dei reati espressamente disciplinati dagli artt. 24-26 del D.lgs 231/2001, quali, ad esempio:

  1. reati contro la pubblica amministrazione (es. corruzione, concussione, induzione indebita);
  2. reati contro la fede pubblica (es. falsità in monete, contraffazione, alterazione o uso di marchi, di brevetti, modelli e disegni);
  3. reati contro l’ordine pubblico (es. associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso);
  4. reati contro la persona (es. omicidio o lesioni commessi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro);
  5. reati informatici (es. accesso abusivo a un sistema informatico, danneggiamento di programmi informatici);
  6. reati societari (es. aggiotaggio, false comunicazioni sociali);
  7. reati ambientali (es. disastro ambientale, traffico e abbandono di materiali ad alta radioattività).

La recente riforma dei reati tributari (L. 19 dicembre 2019, n. 157) ha inserito l’art. 25 quinquiesdecies del D.lgs 231/2001 in materia di delitti di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture, di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DELL’ENTE

L’ente risponde solo con il suo patrimonio o con il suo fondo comune dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, confermando ancora una volta l’autonomia della responsabilità amministrativa dell’ente, ex articolo 27 del D.lgs. 231/2001.

Tale previsione esclude ogni possibilità di rivalsa nei confronti del patrimonio dei soci e degli associati anche nel caso in cui questi rispondano solidalmente e illimitatamente.

Ne consegue che vi è una deroga alla regola generale ovvero non si ha più distinzione tra società di persone – in cui vige un’autonomia patrimoniale imperfetta, dove i creditori possono aggredire il patrimonio del singolo socio – e società di capitali – in cui vige invece, un’autonomia patrimoniale perfetta e la società risponde con il proprio patrimonio senza coinvolgere direttamente i singoli soci.

Sempre l’articolo 27, tuttavia, non esenta i soci dalle altre conseguenze patrimoniali derivanti dall’accertamento dei reati, come l’obbligo di risarcire il danno e la confisca del profitto.

Il 2 comma dello stesso assicura i crediti privilegiati ovvero quelli dello Stato per il pagamento della sanzione pecuniaria inflitta all’ente, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario, rispetto alle quali è previsto l’istituto del sequestro conservativo, ex articolo 54 del D.Lgs 231/2001.

 

  1. ASPETTI PROCESSUALI

L’articolo 34 del D.lgs. 231/2001 dispone che, nell’accertamento delle responsabilità delle imprese, si osservano le regole del processo penale.

L’articolo 35 estende l’ambito di applicazione delle disposizioni processuali relative all’imputato.

Per quanto riguarda “la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono”, ex articolo 36, comma 1.

“Per il procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente si osservano le disposizioni sulla composizione del tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende”, ex articolo 36, comma 2.

Inoltre, l’articolo 55 prevede l’annotazione dell’illecito amministrativo da parte del pubblico ministero nel registro delle notizie di reato e “se non procede alla contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59 – contestazione dell’illecito amministrativo – il pubblico ministero emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte d’appello. Il procuratore generale può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano le condizioni, contesta all’ente le violazioni amministrative conseguenti al reato entro sei mesi dalla comunicazione”, ex articolo 58.

 

 

Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste

LA RESPONSABILITÀ IN SEDE PENALE DEGLI ENTI – D.LGS 231/2001

  1. Premessa; 2. I soggetti destinatari; 3. La responsabilità, l’esonero e l’autonomia degli enti; 4. Le sanzioni amministrative; 5. La responsabilità amministrativa da reato; 6. La responsabilità patrimoniale dell’ente; 7. Aspetti processuali.

 

  1. PREMESSA

Il D.lgs 231/2001, recante “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la responsabilità in sede penale degli enti.

La ratio del decreto legislativo citato è quello di colmare l’impunibilità degli illeciti penali commessi da parte degli enti, aggiungendo a quella della persona fisica che ha realizzato materialmente il fatto illecito. Questo perché, nel nostro ordinamento giuridico, precisamente all’articolo 27.1 Cost., la responsabilità penale è personale, con la conseguenza che solo il soggetto agente risponde esclusivamente dell’illecito penale.

Si ricollega inoltre, al principio “societas delinquere non potest”, secondo cui il reato commesso da una persona fisica appartenente ad un ente o ad una persona giuridica non può sorgere anche una responsabilità in capo al secondo.

In sostanza, il D.lgs. 231/2001 ha introdotto un regime di responsabilità amministrativa a carico degli enti per alcuni reati commessi da persone fisiche che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione, anche all’interno di una sua unità organizzativa autonoma e da persone soggette a direzione e vigilanza.

 

  1. I SOGGETTI DESTINATARI

L’efficacia soggettiva del D.lgs 231/2001 si basa sull’ente, inteso come un’organizzazione collettiva dotata di una certa autonomia organizzativo. I criteri di individuazione dei soggetti possono essere ad esempio, lo scopo di lucro e la personalità giuridica.

Le disposizioni si applicano, ex articolo 1, comma 2 del citato decreto legislativo, “agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”; ci riferiamo ad esempio alle società di capitali, alle società di persone, alle società cooperative e alle mutue assicuratrici, ai consorzi con attività esterna, alle fondazioni o alle associazioni.

Il comma 3 invece, esclude l’ambito di applicazione allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli enti pubblici non economici, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ, L’ESONERO E L’AUTONOMIA DEGLI ENTI

Secondo quanto disposto dall’articolo 5 del D.lgs 231/2001, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso ovvero i c.d soggetti in posizione apicale; da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza ovvero i c.d soggetti sottoposti all’altrui direzione. Sempre nello stesso articolo, si precisa che l’ente non risponde se le persone sopracitate hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

Vi sono altri casi in cui l’ente viene esonerato dalla responsabilità, infatti l’articolo 6 prevede che, se il reato è stato commesso dalle persone disposte dall’articolo 5, l’ente non risponde se prova che: l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo stesso.

In sintesi, l’ente ha l’obbligo di provare che i reati imputati non siano ad esso ascrivibili, pertanto si è dinanzi ad un regime di responsabilità con l’inversione dell’onere della prova.

L’articolo 7 invece, precisa che l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, ma si esclude dall’inosservanza di quest’ultimi, se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Il modello richiamato deve “prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”.

Per quanto riguarda “l’efficace attuazione del modello, si richiede: una verifica periodica e l’eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività; un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello”.

Infine, sotto il profilo dell’autonomia delle responsabilità dell’ente, l’articolo 8 dispone che “la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

In ogni modo, non si procede nei confronti dell’ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l’imputato ha rinunciato alla sua applicazione, salvo diversamente disposta dalla legge. L’ente, tuttavia, può rinunciare all’amnistia.

 

  1. LE SANZIONI AMMINISTRATIVE

Gli illeciti amministrativi dipendenti da reato sono contenuti nell’articolo 9 del D.lgs 231/2001 e sono di quattro tipi: la sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza.

Le sanzioni interdittive sono: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l ́eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Come disposto dall’articolo 11, “nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice determina il numero delle quote tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti”.

La sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a cento né superiore a mille. Una singola quota va da un minimo di 258,23 euro ad un massimo di 1.549,37 euro. In ogni modo, l’importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l ́efficacia della sanzione.

Vi è la possibilità infine, di ridurre la sanzione pecuniaria come previsto dall’articolo 12.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DA REATO

Oltre agli illeciti sopracitati, vi sono dei reati espressamente disciplinati dagli artt. 24-26 del D.lgs 231/2001, quali, ad esempio:

  1. reati contro la pubblica amministrazione (es. corruzione, concussione, induzione indebita);
  2. reati contro la fede pubblica (es. falsità in monete, contraffazione, alterazione o uso di marchi, di brevetti, modelli e disegni);
  3. reati contro l’ordine pubblico (es. associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso);
  4. reati contro la persona (es. omicidio o lesioni commessi in violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro);
  5. reati informatici (es. accesso abusivo a un sistema informatico, danneggiamento di programmi informatici);
  6. reati societari (es. aggiotaggio, false comunicazioni sociali);
  7. reati ambientali (es. disastro ambientale, traffico e abbandono di materiali ad alta radioattività).

La recente riforma dei reati tributari (L. 19 dicembre 2019, n. 157) ha inserito l’art. 25 quinquiesdecies del D.lgs 231/2001 in materia di delitti di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture, di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.

 

  1. LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DELL’ENTE

L’ente risponde solo con il suo patrimonio o con il suo fondo comune dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, confermando ancora una volta l’autonomia della responsabilità amministrativa dell’ente, ex articolo 27 del D.lgs. 231/2001.

Tale previsione esclude ogni possibilità di rivalsa nei confronti del patrimonio dei soci e degli associati anche nel caso in cui questi rispondano solidalmente e illimitatamente.

Ne consegue che vi è una deroga alla regola generale ovvero non si ha più distinzione tra società di persone – in cui vige un’autonomia patrimoniale perfetta e la società risponde con il proprio patrimonio senza mai coinvolgere direttamente i singoli soci – e società di capitali – in cui vige invece, un’autonomia patrimoniale imperfetta, dove i creditori possono aggredire il patrimonio del singolo socio.

Sempre l’articolo 27, tuttavia, non esenta i soci dalle altre conseguenze patrimoniali derivanti dall’accertamento dei reati, come l’obbligo di risarcire il danno e la confisca del profitto.

Il 2 comma dello stesso assicura i crediti privilegiati ovvero quelli dello Stato per il pagamento della sanzione pecuniaria inflitta all’ente, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario, rispetto alle quali è previsto l’istituto del sequestro conservativo, ex articolo 54 del D.Lgs 231/2001.

 

  1. ASPETTI PROCESSUALI

L’articolo 34 del D.lgs. 231/2001 dispone che, nell’accertamento delle responsabilità delle imprese, si osservano le regole del processo penale.

L’articolo 35 estende l’ambito di applicazione delle disposizioni processuali relative all’imputato. Per quanto riguarda “la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono”, ex articolo 36, comma 1.

“Per il procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente si osservano le disposizioni sulla composizione del tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende”, ex articolo 36, comma 2.

Inoltre, l’articolo 55 prevede l’annotazione dell’illecito amministrativo da parte del pubblico ministero nel registro delle notizie di reato e “se non procede alla contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59 – contestazione dell’illecito amministrativo – il pubblico ministero emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte d’appello. Il procuratore generale può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano le condizioni, contesta all’ente le violazioni amministrative conseguenti al reato entro sei mesi dalla comunicazione”, ex articolo 58.

 

 

Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste

Cambio di appalto o trasferimento d’azienda?

Cassazione civile Sezione lavoro, Sentenza 31-01-2020, n. 2315.

La sentenza in esame stabilisce che in tema di appalto, l’art. 29, comma 3 del D.L.G.S. 10 settembre 2003, n. 276, va inteso nel senso che la mera assunzione, da parte del subentrante nell’appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo, per cui, se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l’azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall’art. 2112 c.c.

La Corte d’Appello di Torino con sentenza del 14 giugno 2018 aveva confermato l’ordinanza del Tribunale con la quale era stata dichiarata l’illegittimità di un licenziamento collettivo operato da una società subentrata ad altra nell’ambito di un appalto.

In pratica, il Tribunale e quindi la Corte d’Appello avevano riconosciuto sussistere nell’ambito del cambio d’appalto di un servizio di mensa, il trasferimento di un ramo d’azienda con il conseguente riconoscimento a favore dei lavoratori licenziati di una diversa e maggiore anzianità di servizio.

Della questione è investita la Suprema Corte la quale con la sentenza di cui in epigrafe, conferma la decisione dei giudici di merito.

Nel confermare la decisione della Corte d’Appello, la Corte di Cassazione forniva nel senso di cui sopra,  la propria autorevole interpretazione del nuovo testo del comma 3 dell’articolo 29 del DLGS 276/2003

La norma di legge cui si è fatto cenno è stata novellata dall’articolo 30, comma 1, della legge 7 luglio 2016 n.122 nei seguenti termini:

L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

In precedenza, lo stesso articolo escludeva che il cambio di appalto potesse configurare il trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda.

La Corte di Cassazione ha quindi precisato che la norma citata va intesa nel senso che la mera assunzione, da parte del subentrante nell’appalto, non integra di per se trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo”, per cui “se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l’azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall’art. 2112 c.c.

Contestualmente, la Corte di Cassazione precisa come però la norma non debba essere letta in modo da ritenere la coincidenza tra cambio di appalto e cessione di ramo d’azienda.

Nel caso di specie, la Cassazione confermava la giurisprudenza di merito che aveva ritenuto sussistere il trasferimento di ramo d’azienda sulla base della considerazione che il subentrante usava gli stessi mezzi di produzione.

La sentenza in proposito cita altri precedenti del giudice di legittimità, laddove il requisito del trasferimento del ramo d’azienda era però stato ritenuto sussistere in base a criteri maggiormente ampli.

Il riferimento va principalmente a Cassazione 12720 del 2017 laddove si precisa come il trasferimento della proprietà dei beni non debba essere considerato unico requisito indefettibile per trasformare il subentro nell’appalto nel trasferimento di ramo d’azienda.

La pronuncia fa riferimento al chiarimento proveniente in tal senso dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che con la sentenza del 15/12/2015 nei procedimenti riuniti C- 232/04 e C – 233/04, era stata chiamata ad interpretare l’articolo 1 della direttiva del Consiglio 2001/23.

Su tale base, si è potuto riconoscere che quando un’entità economica sia in grado, in determinati settori, di operare senza elementi patrimoniali significativi, materiali o immateriali, la conservazione della sua identità non può dipendere dalla cessione di tali elementi; nei settori in cui l’attività si fonda essenzialmente sulla mano d’opera in tal modo, un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un’attività comune può corrispondere ad un’entità economica.

Questo indirizzo era di seguito confermato da Cassazione 2793/2019 la quale affrontando un caso anteriore alla novella dell’articolo 29 del DLGS 276/2003, partiva dalla normativa comunitaria per affermare come anche il trasferimento coordinato ed organico di risorse umane poteva nel caso di cessione dell’appalto, configurare il trasferimento di ramo d’azienda.

Sussiste pertanto, almeno ad avviso di chi scrive, uno spazio interpretativo sul quale da parte della Suprema Corte non è stata posta ancora l’ultima parole e che potrebbe dar luogo o all’intervento delle Sezioni Unite oppure ad un rinvio alla Corte di Giustizia.

La questione va pertanto brevemente ricostruita per verificare tale ipotesi.

Alla data del 10.9.2003, allorquando entrava in vigore il DLGS 276/2003 (Biagi), il comma 3 dell’articolo 29 del DLGS 276/2003 testualmente prevedeva:

L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

Dunque la sussistenza dell’appalto genuino di cui all’articolo 1655 del codice civile automaticamente escludeva il sussistere di un trasferimento di ramo d’azienda con la conseguente applicazione dell’articolo 2112 del codice civile.

Nell’ordinamento comunitario la Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001 all’articolo 1b) fornisce la definizione di cessione d’azienda e di ramo d’azienda stabilendo che: ) Fatta salva la lettera a) e le disposizioni seguenti del presente articolo, è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria.

 

Di fronte alla disposizione di questa direttiva che ricomprende nella definizione di trasferimento d’azienda un fenomeno giuridico ed economico ben definito di carattere genera e privo di specifiche eccezioni, la norma atta ad escludere in ogni caso il trasferimento in caso di conferimento in appalto di una struttura imprenditoriale, non aveva più diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento.

 

Si rendeva quindi necessaria una norma di legge che ferma l’autonomia della successione imprenditoriale nell’appalto, non escludesse a priori anche il ricorrere della fattispecie del trasferimento d’azienda.

Si provvedeva così a novellare il testo del comma 3 dell’articolo 29 del DLGS 276/2003 per renderlo conforme alla normativa comunitaria.

Mediante l’articolo 30, comma 1 della legge 7 luglio 2016 n.122 era così introdotto il nuovo testo del comma 3 del DLGS 276/2003  che così  stabilisce: “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

La suddetta modifica è stata, come già accennato,  introdotta dal legislatore italiano al fine di evitare una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea, in quanto la previgente disciplina era in aperto contrasto con i principi della Direttiva n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti; in sostanza, secondo le Istituzioni Europee, la normativa italiana non poteva escludere l’applicazione della disciplina di tutela prevista per i lavoratori nelle ipotesi di trasferimento d’azienda a casistiche del tutto assimilabili, come nel caso specifico il cambio d’appalto.

Di conseguenza, in virtù del novellato testo normativo, due sono gli elementi necessari e qualificanti per escludere la sussunzione del subentro nell’appalto nell’ambito della nozione giuslavoristica di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.: le qualità soggettive del soggetto subentrante e l’oggettiva “discontinuità imprenditoriale”.

Il primo requisito sembra essere di agevole interpretazione, in quanto appare evidente il richiamo alla necessità che il soggetto subentrante sia dotato di una propria ed autonoma organizzazione imprenditoriale e produttiva, con assunzione del conseguente rischio d’impresa, di modo che si possano ragionevolmente escludere le fattispecie di illegittima interposizione di manodopera. Il richiamo è alla disciplina di cui al comma 1 dell’art. 29, D.Lgs. n. 276/2003, ed il contenuto del comma 3 novellato appare in tal senso come un corollario dello sforzo del legislatore di distinguere le fattispecie nelle quali legittimamente un imprenditore decide di affidare ad un diverso ed autonomo soggetto l’esecuzione di opere o servizi complementari o comunque funzionali al proprio ciclo produttivo da quelle di mera fornitura di manodopera.

Il secondo requisito, ovvero gli “elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa”, appare quello che presenta maggiori difficoltà interpretative.

Volendo, come sembra proporre la sentenza oggetto di commento,  ravvisare la discontinuità imprenditoriale nell’utilizzo di diversi mezzi di lavoro, di fronte ad un’ evoluzione dell’impresa verso forme sempre più dematerializzate di strutture e di produzione, si finisce col demandare la sussistenza o meno del trasferimento d’azienda ad un esame spesso insignificante di strumenti di lavoro, escludendo l’esame dell’organizzazione e del capitale umano.

In tal modo, lo spirito della direttiva comunitaria rischia di essere stravolto a favore di un’interpretazione quanto mai casuale ed oggettiva dei requisiti del trasferimento d’azienda.

Ritiene chi scrive come la lettura della precedente sentenza n.12720/2017 della Corte di Cassazione fornisca un approccio maggiormente aderente alla direttiva comunitaria.

Come già accennato questa pronuncia precisa come il trasferimento della proprietà dei beni non debba essere considerato unico requisito indefettibile per trasformare il subentro nell’appalto nel trasferimento di ramo d’azienda.

Si ritiene infatti che di fronte ad un identità di azienda volta sempre di più verso caratteristiche immateriali ed ove predomina il capitale umano ed organizzativo, il riferimento all’identità aziendale vada principalmente  riferito alla tipologia dell’attività svolta in esecuzione dell’appalto oggetto di successione; Dunque, ove le prestazioni richieste all’appaltatore subentrante siano sostanzialmente analoghe o sovrapponibili a quelle già svolte dall’appaltatore uscente, allora il requisito della “discontinuità d’impresa” non potrà dirsi sussistente e l’acquisizione del personale addetto all’appalto dovrà essere ricondotto alla disciplina del trasferimento d’azienda. Ove invece l’attività richiesta all’appaltatore subentrante, sia ontologicamente diversa anche sotto l’aspetto organizzativo e delle professionalità richieste, da quella precedentemente svolta dall’appaltatore uscente, allora il requisito della discontinuità risulterà essere presente e la fattispecie risulterà estranea al perimetro del trasferimento d’azienda.

Occorre quindi, a giudizio di chi scrive, verificare volta per volta se l’oggetto dell’appalto ovvero le concrete modalità di realizzazione dell’opera o del servizio sono a tal punto disomogenee e non sovrapponibili da poter affermare che si tratta di qualcosa di diverso rispetto a quanto in precedenza realizzato dall’appaltatore uscente.

E’ evidente che, per rispettare i principi della Direttiva 2001/23/CE e per non svuotare completamente di senso il recente intervento del legislatore, alla nozione di “discontinuità d’impresa”, debba essere interpretato in maniera adeguatamente ampia, al punto da ritenere sufficiente la sola diversità quantitativa o la sola modifica dell’organizzazione del personale, in quanto la finalità della norma è evidentemente quella di delimitare le ipotesi di esclusione dall’ambito di applicazione dell’articolo 2112 c.c.; e comunque, la discontinuità deve riguardare l’organizzazione imprenditoriale dell’attività.

Una simile lettura si accompagna alla nozione di contratto di appalto che origina dall’articolo 1655 del codice civile e si arricchisce della previsione contenuta al comma 1 dell’articolo 29 del medesimo decreto legislativo, dove si legge:

“1. Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa.”

 

Dunque anche al fine di verificare nella cessione dell’appalto il sussistere della fattispecie del trasferimento d’azienda, l’analisi deve essere estesa all’organizzazione dei mezzi e del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché nell’assunzione del rischio di impresa.

In presenza della ormai frequente dematerializzazione degli gli elementi che costituiscono la reale azienda appaltatrice includendovi i rapporti giuridici che connotano l’appalto e che divengono alla cessazione dello stesso oggetto di cessione, seppure in modulo trilatero.

Per tale motivo, l’appalto cosiddetto “labour intensive” può  spesso coincidere con l’essenza dell’azienda trasferita a seguito della sostituzione di altro soggetto contrattuale nel contratto di appalto.

Fabio Petracci.

 

 

 

 

 

 

 

 

CRISI DI IMPRESA E RIFLESSI SUL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO SECONDO IL NUOVO CODICE D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA (D.lgs n. 14/2019)

  1. Il lavoro subordinato ai tempi della nuova normativa (D.lgs n.14/2019); 2. Definizione di “crisi d’impresa” secondo Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I) e l’incidenza sul rapporto di lavoro subordinato; 3. Tra le novità più rilevanti del nuovo C.C.I.I: le procedure di allerta; 4. Le sorti del rapporto di lavoro in caso di liquidazione giudiziale; 5. Perdita involontaria dell’occupazione e trattamento NASpI; 6. Trasferimento d’azienda o di un ramo d’azienda.

 

  1. IL LAVORO SUBORDINATO AI TEMPI DELLA NUOVA NORMATIVA (D.LGS N.14/2019)

L’art. 2094 C.C. definisce la figura del prestatore di lavoro subordinato come colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Da tale nozione si ricava la struttura del rapporto di lavoro subordinato ovvero quando un soggetto (il lavoratore dipendente o prestatore di lavoro subordinato) svolge un’attività, stabilita per contratto, nell’interesse di un altro soggetto (il datore di lavoro o imprenditore), rispetto al quale si colloca in una posizione subordinata, in cambio della retribuzione.

Tutte le regole normative del rapporto tra lavoratori dipendenti e datore di lavoro sono contenute nel contratto di lavoro e nella legge, per cui si applicano le regole stabilite dal codice civile in materia di contratti in generale, nonché la specifica normativa del rapporto di lavoro, salvo diversamente disposto. Si ha quindi, un contratto individuale di lavoro, se il contratto è stipulato tra un datore di lavoro (persona fisica o persona giuridica) e un lavoratore (persona fisica). Contestualmente il rapporto può essere regolato anche da un contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) quando si aggiunge alla disciplina individuale, il contratto derivante da un accordo tra i sindacati maggiormente rappresentativi della categoria e le associazioni dei datori di lavoro.

Il contratto di lavoro è definito come un contratto di durata perché i suoi effetti ed obblighi sono destinati a perdurare per un certo lasso di tempo, quindi vi deve essere una continuità del rapporto, da non confondersi però con la continuità della prestazione lavorativa; spesso, quando si parla di lavoro subordinato, ci si riferisce generalmente a un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato (che non prevede pertanto una scadenza), ma di per sé la prestazione non è continua in senso assoluto in quanto destinata a soste ed interruzioni che fanno comunque restare in vita il rapporto.

Può accadere quindi, nel corso dell’esecuzione e quindi della durata del contratto, e delle relative obbligazioni, che l’impresa si trovi in difficoltà nel mantenere la continuità del rapporto. In altre parole, può verificarsi la crisi dell’impresa. La situazione di difficoltà economica può essere tale da comportare in extremis la cessazione dell’attività dell’impresa con la conseguente crisi dei rapporti di lavoro, o addirittura con l’espulsione dell’impresa dal mondo produttivo, con la conseguenza che il lavoratore dipendente rischia di ritrovarsi senza occupazione. Le sorti dei  di rapporti di lavoro ancora pendenti o meglio in forse non era contempla in maniera adeguata dalle vigenti normative in tema di crisi di impresa.

In sostanza, il diritto fallimentare non aveva adeguati ed espliciti collegamenti con il diritto del lavoro.

Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I), introdotto dal D.lgs n.14/2019, ha finalmente previsto una disciplina ad hoc per le procedure concorsuali, la quale che sostituito la preesistente legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), raccordando così la disciplina dell’insolvenza con quella del rapporto di lavoro.

Prima di arrivare alla cessazione dell’attività, la quale deve rappresentare come ultimo strumento a cui ricorrere, il nuovo Codice crea un sistema atto a prevenire lo stato di crisi dell’azienda con il risultato di sviluppare un meccanismo di monitoraggio dall’interno dell’impresa, infatti tra le novità più rilevanti vi è l’introduzione delle procedure di allerta.

In questa prospettiva, viene formulata una nuova definizione di “crisi d’impresa”, ex art. 2, lett. a) C.C.I.I definita come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore”. Una definizione che ha lo scopo di prevenire la crisi, cercando il più possibile di conservazione l’attività aziendale e quindi di conseguenza l’occupazione.

Per una maggiore tutela dei lavoratori dipendenti coinvolti nella crisi, uno degli articoli fondamentali è l’articolo 189 C.C.I.I, il quale dispone che “l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro, non costituisce di per sé motivo di licenziamento”. La ratio è quella di mantenere i rapporti di lavoro pendenti, ma solo nel caso di subentro ovvero ove sia possibile la prosecuzione o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, diversamente è previsto che il curatore può procedere al recesso dei rapporti di lavoro pendenti.

In quest’ultimo caso, il lavoratore dipendente che perde l’occupazione è comunque tutelato dalla nuova normativa, infatti l’art. 189 e l’art. 190 C.C.I.I riconoscono al lavoratore il c.d. contributo NASpI, previsto dall’art. 2, comma 31, L. n. 92/2012 che è dovuto anche in caso di risoluzione di diritto, in quanto ci troviamo di fronte ad una perdita involontaria dell’occupazione dovuta all’apertura della liquidazione giudiziale.

 

  1. DEFINIZIONE DI “CRISI D’IMPRESA” SECONDO LA NUOVA NORMATIVA (D.lgs n. 14/2019) E L’INCIDENZA SUL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO

Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (C.C.I.I) è stato emanato con il D.lgs n. 14/2019 e porta con sé una riforma organica per quanto concerne la disciplina delle procedure concorsuali, la quale era contenuta nella preesistente legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267).

A differenza della legge precedente, la quale disciplinava il fallimento  in un’accezione prevalentemente punitiva in quanto l’imprenditore dichiarato fallito doveva essere estromesso dal mercato, con la  conseguente  liquidazione della sua attività, la riforma del 2019 invece è maggiormente orientata a una definizione finanziaria prospettica o preventiva di crisi, con il fine  di individuare prontamente l’eventuale “stato di insolvenza futuro” (rectius crisi) per consentire un intervento risolutivo, volto in primo luogo alla conservazione dell’attività produttiva.

Si comprende come la cessazione dell’attività debba rappresentare l’ultimo strumento a cui ricorrere, solo quando non vi sono altri rimedi possibili. Si sostituisce infatti il termine “fallimento” con quello nuovo ovvero “liquidazione giudiziale”, non solo, ma oggi abbiamo una nuova nozione di “stato di crisi” , ex art. 2, lett. a) C.C.I.I, è “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” , differenziandosi pertanto dall’insolvenza ossia (ex art. 5 L.F., ora art. 2 del D.lgs n.14/2019), quello stato che “si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

Il carattere preventivo del richiamato decreto è il punto chiave della riforma ovvero la conservazione dell’attività aziendale che determina grazie anche al collegamento normativo previsto dall’articolo 189  C.C.I.I ,  una maggiore tutela dei lavoratori coinvolti nella crisi.

Sono infatti,  proprio gli articoli 189, 190 e 191 C.C.I.I. che affrontano i riflessi della liquidazione giudiziale e del trasferimento dell’azienda sui rapporti di lavoro.

Per raggiungere tale obiettivo, tra le novità più rilevanti, vi è l’introduzione delle c.d procedure di allerta. Oltre ad esse, vi sono ulteriori modifiche agli strumenti di risoluzione della crisi già esistenti con l’intento del legislatore di facilitarne l’accesso. L’obiettivo del nuovo codice è, inoltre, quello di adeguare il nostro Paese alle norme di altri Stati europei, cercando di fornire strumenti adeguati ad anticipare l’eventuale crisi aziendale e limitarne il più possibile il suo aggravarsi.

 

  1. TRA LE NOVITÀ PIÙ RILEVANTI DEL NUOVO C.C.I.I: LE PROCEDURE DI ALLERTA

Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza introduce le c.d procedure di allerta.

In tali procedure, sia gli organi di controllo societario sia i creditori pubblici qualificato hanno l’obbligo di segnalare, ex art 13 C.C.I.I, “gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i 6 mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale…” allo scopo di rilevare tempestivamente lo stato di crisi.

Nella fase interna della procedura, si cerca di creare un sistema capace di prevenire lo stato di crisi dell’azienda, mediante una maggiore responsabilizzazione del debitore e degli organi di governance, dando così all’azienda in difficoltà, la possibilità di evitare la crisi. Il risultato è lo sviluppo di un meccanismo di monitoraggio dall’interno dell’impresa.

Nella fase esterna invece, qualora non si riesca ad adottare misure riorganizzative dell’impresa per superare la crisi dall’interno, nonostante le segnalazioni degli organi di controllo e dei creditori pubblici qualificati, ci si rivolge all’Organismo per la Composizione assistita della Crisi aziendale (OCRI) per l’avvio della procedura di composizione assistita della crisi.

Gli organi di controllo societario, ossia il revisore contabile o la società di revisione, hanno l’obbligo di segnalare immediatamente all’organo amministrativo della società l’esistenza di fondati indizi della crisi.

Entro 30 giorni, l’organo amministrativo deve, a sua volta, sottoporre agli organi di controllo le soluzioni individuate e le iniziative intraprese per il superamento della crisi. Nel caso in cui gli amministratori, nei successivi 60 giorni non forniscano risposta o una inadeguata o ancora, non adottino i provvedimenti individuati per il superamento della crisi, gli organi di controllo hanno l’obbligo di rivolgersi all’Organismo per la Composizione della Crisi aziendale (OCRI) per l’avvio della procedura di composizione assistita della crisi.

I creditori pubblici qualificati, ossia Agenzia delle Entrate, INPS e l’Agente della riscossione delle imposte, hanno l’obbligo di comunicare al debitore che la sua esposizione ha superato determinate soglie di rilevanza, invitandolo a regolarizzare o sanare l’esposizione debitoria nei 90 giorni successivi. Decorso i 90 giorni, se l’esposizione debitoria rimane rilevante, i creditori pubblici qualificati hanno l’obbligo di segnalare all’OCRI. Qualora i creditori pubblici non adempiano all’obbligo di comunicazione posto a loro carico, per l’agenzia delle entrate e Inps determina la perdita del titolo di prelazione spettante sui crediti di cui sono titolari e, per l’Agente della riscossione delle imposte, l’inopponibilità del credito per spese ed oneri di riscossione.

Da segnalare che l’imprenditore deve sostanzialmente dotarsi di un efficace sistema di controllo di gestione interno, altrimenti, egli rischia di essere imputato del c.d reato di “bancarotta da aggravamento” introdotto dalla nuova disciplina. In altre parole, si va a punire penalmente il titolare reputato inerte in quanto non ha adottato un assetto organizzativo, amministrativo e contabile capace di rilevare tempestivamente gli indizi di crisi e di prevenirne.

Infine, se è l’impresa in crisi a presentare l’istanza di composizione assistita della crisi, il referente dell’OCRI ne dà notizia agli organi di controllo dell’impresa in crisi e ai creditori pubblici qualificati della loro mancata segnalazione, esonerandoli dall’obbligo di segnalazione per tutta la durata del procedimento di composizione assistita della crisi.

Sempre nell’articolo 13 C.C.I.I, sono contenuti gli appositi indicatori di crisi dell’impresa e si delega il CNDCEC (Consiglio Naz. Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili) di individuarli tenendo conto della migliore prassi nazionale ed internazionale. Nel caso in cui un’impresa dovesse ritenere inadeguati gli indici elaborati dal CNDCEC può specificare le ragioni nella nota integrativa al bilancio di esercizio, indicandone invece quelli più idonei a far ragionevolmente presumere la sussistenza del suo stato di crisi. Un professionista indipendente attesta l’adeguatezza di tali indici in base alle caratteristiche specifiche dell’impresa.

In ogni modo l’avvio del meccanismo di allerta non costituisce una causa di risoluzione dei contratti pendenti e dunque neppure di quello di lavoro.

 

  1. LE SORTI DEL RAPPORTO DI LAVORO IN CASO DI LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

Uno dei punti chiavi, concernenti i riflessi della liquidazione giudiziale sul rapporto di lavoro, è, come abbiamo già notato, l’art. 189 C.C.I.I, il quale l dispone che “l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro, non costituisce di per sé motivo di licenziamento. I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa vengono sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”.

In altre parole, i rapporti di lavoro potranno proseguire, ma solo nel caso in cui sia possibile la prosecuzione con la curatela o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo. Siamo dinanzi a un caso di subentro che ha efficacia dalla relativa comunicazione al lavoratore. Qualora non sia possibile subentrare nel rapporto di lavoro in essere, il curatore può procedere al recesso dei rapporti di lavoro pendenti. In quest’ultimo caso, il recesso ha efficacia retroattiva, pertanto produce i suoi effetti dalla data di apertura della liquidazione giudiziale.

L’189, comma 3, C.C.I.I affronta pure l’ipotesi di una eventuale inerzia del curatore, prevedendo una ipotesi di risoluzione di diritto dei rapporti di lavoro, infatti esso dispone che “decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato, che non siano già cessati, si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”.

Qualora il curatore ritenga che vi siano invece delle possibilità di ripresa o trasferimento a terzi dell’azienda o di un suo ramo, può proporre istanza al giudice delegato, per chiedere una proroga del termine di quattro mesi. Tale istanza può essere presentata anche dai singoli lavoratori, ma in tal caso la proroga ha effetto solo nei confronti dei lavoratori istanti. In ogni modo, il giudice delegato non può assegnare al curatore un termine superiore a otto mesi per comunicare le sue decisioni.

Scaduto il termine prorogato, ove il curatore non proceda al subentro o al recesso, i rapporti di lavoro subordinato ancora pendenti, si intendono risolti di diritto, con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. In questo caso, è prevista in favore del lavoratore il diritto ad ottenere un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due e non superiore a otto mensilità per ogni anno di servizio. Indennità che è ammessa al passivo come credito successivo all’apertura della liquidazione giudiziale, pertanto si configura come credito prededucibile.

 

  1. PERDITA INVOLONTARIA DELL’OCCUPAZIONE E TRATTAMENTO NASpI

L’art. 189, comma 5, C.C.I.I prevede che, trascorsi 4 mesi dall’apertura della liquidazione giudiziale, le eventuali dimissioni rese dal lavoratore si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 C.C. con effetto dalla data di apertura della liquidazione.

Nel caso di recesso del curatore, di licenziamento, dimissioni o risoluzione di diritto, l’art. 189 C.C.I.I riconosce in ogni caso al lavoratore con rapporto a tempo indeterminato l’indennità di mancato preavviso e il trattamento di fine rapporto (TFR). Essi sono riconosciuti come crediti anteriori all’apertura della liquidazione giudiziale ai fini dell’ammissione al passivo, pertanto si configurano come crediti privilegiati ex art. 2751-bis C.C. e non come crediti successivi ossia crediti prededucibili.

L’art. 189 e l’art. 190 C.C.I.I riconoscono al lavoratore il c.d. contributo NASpI, previsto dall’art. 2, comma 31, L. n. 92/2012 che è dovuto anche in caso di risoluzione di diritto.

Si precisa però, ex art. 189, comma 8, C.C.I.I che il contributo NASpI è ammesso al passivo come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale ai fini dell’ammissione al passivo.

La cessazione del rapporto di lavoro in caso dell’apertura della liquidazione giudiziale costituisce perdita involontaria dell’occupazione, ex art. 190 C.C.I.I, pertanto il lavoratore ha il diritto al trattamento NASpI, ma devono sussistere i requisiti elencati dal D.lgs. n. 22/2015.

 

  1. TRASFERIMENTO D’AZIENDA O DI UN RAMO D’AZIENDA

Da un punto visto giuslavoraristico, il trasferimento dell’azienda in crisi è sempre stato una materia complessa. Per una sua comprensione, in linea generale, è bene partire dalle fonti normative principali che lo riguardano: l’art. 2112 C.C. disciplina in modo generale la fattispecie; l’art. 47 della l. n. 428/1990 adatta la disciplina generale nel caso del trasferimento dell’azienda in crisi e l’introduzione con l. n. 166/2009 del comma 4 – bis nell’art. 47  definisce condizioni e casi di deroga alla disciplina dell’art. 2112 C.C. da parte di accordi sindacali stipulati per far fronte a qualificate situazioni di difficoltà delle aziende.

L’articolo 47 della legge 29.12.1990 n.428 prevede al comma 4 – bis che sarà sostituito dal nuovo testo quanto segue:

4-bis. Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende:

  1. a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisiaziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675;
  2. b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività 

b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo;

b-ter) per le quali vi sia stata l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti .

  1. Qualora il trasferimento riguardi o impresenei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codicecivile, salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante .
  2. I lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione l’articolo 2112 del codicecivile.”

Proprio questo testo del  comma 4 – bis ha sollevato dubbi sulla sua conformità con la direttiva 2001/23/CE, la quale è diretta a proteggere i lavoratori, promuovendo il ravvicinamento, senza però un’armonizzazione completa, delle legislazioni nazionali al fine di assicurare il mantenimento dei loro diritti in caso di trasferimento d’impresa, salvo i casi in cui non ricadono in una delle eccezioni espressamente previste dalla stessa direttiva.

A tale riguardo, il nuovo Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, meglio conosciuto come D.lgs 12/01/2019 n. 14, ha introdotto l’art. 368, comma 4, lett. b) che regolerà la materia esaminata a partire dal 1 settembre 2021.

Due saranno le innovazioni previste dal nuovo Codice rispetto all’attuale comma 4 – bis: la prima prevede delle modifiche all’elencazione delle situazioni in cui l’azienda deve trovarsi perché l’accordo sindacale sia legittimato a prevedere deroghe alla disciplina dettata dall’art. 2112 C.C.; la seconda riguarda gli effetti destinati ad accompagnare l’accordo raggiunto a conclusione della consultazione sindacale.

In pratica, come vedremo, le deroghe all’applicazione integrale dell’articolo 2112 del codice civile sono graduate progressivamente nei singoli comma in crescendo con la natura liquidatoria della procedura.

Il comma 4 bis stabilisce che qualora si raggiungano accordi sindacali oer la salvaguardia dell’occupazione e quindi in caso di apertura di concordato preventivo, omologazione di accordi per la ristrutturazione di debiti, amministrazione straordinaria e quindi procedure non aventi carattere liquidatorio rimane fermo in caso di cessione di azienda il trasferimento dei rapporti di lavoro ex articolo 2112 del codice civile con possibilità di derogare al 2112 mediante accordi sindacali per quanto attiene le condizioni di lavoro.

Quindi, il comma 4-bis precisa espressamente che rimane fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, e non si applicano le deroghe dell’art. 2112 C.C. per quanto riguarda la continuità dei rapporti in capo all’azienda cessionaria; mentre è possibile derogare la disciplina dell’art. 2112 C.C.  per le condizioni di lavoro dei dipendenti, come l’anzianità o i trattamenti retributivi.

Si comprende che la ratio del comma 4 – bis è quella di limitare le deroghe all’articolo 2112 codice civile mediante gli accordi sindacali, al fine di operare in linea con le regole della direttiva 2001/23/CE.

Il successivo comma 5 riguarda le procedure aventi carattere liquidatorio  e qui nel caso di cessione di azienda in tal caso mediante accordi collettivi, possono essere derogati i commi 1,3 e 4 del codice civile, con possibilità di deroga anche tramite  accordi individuali

Il comma 5 ter invece, riguarda le aziende sottoposte ad amministrazione straordinaria , senza continuazione dell’attività, allorquando sia  raggiunto un accordo anche parziale per il mantenimento dell’occupazione  ai lavoratori il cui rapporto continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile.

 

Lili Liu – studentessa Facoltà di Giurisprudenza Università di Trieste