Le tutele previste per il lavoratore in caso di patto di prova nullo

Il recesso intimato in assenza di valido patto di prova equivale ad un ordinario licenziamento, assoggettato – nel regime introdotto dal Jobs Act – alla regola generale della tutela indennitaria: così afferma la sentenza n. 20239 del 14.07.2023 della Suprema Corte di Cassazione.

Nel dettaglio, nel caso affrontato una dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatole per mancato superamento del patto di prova.

Sul piano delle conseguenze connesse al licenziamento ad nutum intimato dal datore di lavoro in relazione ad un patto di prova nullo, è stato chiarito che la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966.

In presenza di un patto di prova invalido la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalla legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.

Per costante enunciato del giudice di legittimità, infatti, il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova (venuto invece a scadenza), si configura come licenziamento individuale non distinguibile da ogni altro licenziamento della stessa natura e regolato – ove intimato a carico di lavoratore fruente della tutela della stabilità del posto – dalla disciplina comune per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di legittimità e soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o del giustificato motivo (Cass. n. 16214 del 2016, Cass. n. 7921 del 2016, Cass. n. 21506 del 2008, Cass. n. 17045 del 2005, Cass. n. 2728 del 1994).

In base a tale ricostruzione, il potere esercitato dal datore di lavoro non risulta radicalmente insussistente ma è soggetto alle limitazioni connesse al principio di causalità e tipicità del licenziamento, non venendo in rilievo l’an ma solo il quomodo del relativo esercizio.

L’onere della prova del lavoratore con riferimento alla richiesta di risarcimento danni

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 21682/2023, si è espressa su un caso di richiesta di risarcimento danni (patrimoniale, non patrimoniale biologico, esistenziale e morale) formulata da un lavoratore a seguito di asserite condotte mobbizzante subite.

L’istruttoria svolta nelle fasi di merito ha tuttavia fatto emergere il mancato raggiungimento della prova da parte del lavoratore circa la ricostruzione fattuale in ordine alla sussistenza di condotte datoriali di natura vessatoria e persecutoria continuative, con conseguente assorbimento delle questioni attinenti a sussistenza e quantificazione dei danni.

Del pari è stata esclusa (in quanto non adeguatamente provata) la sussistenza di un comportamento illecito datoriale in nesso di causa con il danno denunciato, sulla base del materiale probatorio complessivamente valutato.

Precisa la Cassazione che in tema di onere della prova in riferimento al diritto al risarcimento dei danni in favore del lavoratore per violazione degli obblighi del datore di lavoro di sicurezza e di protezione della salute del lavoratore di cui all’art. 2087 c.c., non si tratta di ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro.

Invero, i rispettivi oneri di allegazione e prova sono articolati come segue: il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro svolto e il danno, mentre al datore di lavoro, in ragione del suo dovere di assicurare che l’attività lavorativa non risulti pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente, spetta dimostrare che la prestazione si è, invece, svolta secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili (Cass. n. 34968/2022; cfr. anche Cass. n. 10992/2020, n. 14064/2019, n. 8911/2019, n. 24742/2018).

Appunto poiché l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Neppure la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (così Cass. n. 2038/2013; cfr. anche Cass. n. 25151/2017).

Divieto di controllo a distanza – Tutela della privacy sul posto di lavoro.

Il provvedimento n.231 del 1 giugno 2023 del Garante. Testo integrale.

Nel caso di specie è sanzionata un’azienda che ha installato un sistema di allarme attivabile sulla base delle impronte digitali che rendeva così operativo un impianto di videosorveglianza ed un applicativo per la geolocalizzazione dei lavoratori.

In pratica, il Garante ha ritenuto come il provvedimento aziendale non appariva conforme alla normativa in materia vigente, riferendosi al Regolamento UE 679/2016 che consente il trattamento dei dati biometrici , intesi quali dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici, solo in caso di necessità per assolvere agli obblighi che incombono sul titolare del trattamento o dell’interessato in materia di lavoro nel limite di quanto consentito dai contratti collettivi o dalle norme di legge.

Nel caso di specie, il Garante accertava come non risultassero questi requisiti.

Rilevava inoltre il garante come anche il Regolamento della Privacy all’articolo 5 poneva dei limiti a tali trattamenti che devono essere ispirati a principi di liceità, correttezza, limitazione delle finalità, minimizzazione, integrità e riservatezza.

Notava inoltre il garante come la Società, violando gli articoli 5 e 13 del Regolamento, avesse omesso di fornire adeguata informativa

Era inoltre accertato come la società utilizzasse apposita applicazione sui telefoni mobili assegnati ai lavoratori per tracciarne mediante GPS la posizione.

L’illiceità dei controlli era dichiarata anche sulla base dell’articolo 4 della legge 300/70 (Statuto dei Lavoratori) che consente il trattamento dei dati personali nell’ambito del rapporto di lavoro solo se finalizzati per le finalità di gestione del lavoro stesso.

Per quanto riguarda l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, la norma al comma 1 prevede che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. Inoltre, la norma medesima prevede che in mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. In tal senso, la normativa di cui all’articolo 4 della legge 300/70 è stata modificata dal   DLGS 14/09/2015, n. 151.

Una recente innovazione comporta che le cautele appena accennate non trovano applicazione riguardo agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa ed agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

Due recenti decisioni della Suprema Corte, le nn. 25731 e 25732 del 2021, sono intervenute a chiarire alcuni aspetti controversi della normativa in materia di controlli a distanza all’esito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 151/2015 all’art. 4 Stat. lav. In particolare, chiamata a pronunciarsi sulla “sopravvivenza” dei c.d. controlli difensivi, finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale, e preso atto delle diverse conclusioni in proposito ravvisabili in dottrina e giurisprudenza, la Corte di cassazione introduce la distinzione fra controlli difensivi “in senso stretto” e “in senso lato”: i primi sono quelli ai quali il datore di lavoro dà corso “in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito” e hanno ad oggetto dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto, i secondi sono invece quelli posti in essere genericamente sull’attività del lavoratore, a prescindere dal fondato sospetto che egli abbia commesso un illecito. Mentre i primi, secondo la soluzione adottata dalla Suprema Corte, continuano ad essere estranei al “perimetro” di applicazione dell’art. 4 Stat. lav. e sono quindi legittimi anche in assenza delle condizioni ivi disciplinate, i secondi sono legittimi solo nei limiti e con il rispetto di tali condizioni. (Il lavoro nella giurisprudenza, n. 4, 1 aprile 2022, p. 365 Commento alla normativa di Luigi Andrea Cosattini, Avvocato in Bologna).

 

Di seguito, il provvedimento del garante.

Provvedimento:

Provvedimento del 1° giugno 2023 [9913830] VEDI ANCHE Newsletter del 26 luglio 2023 [doc. web n. 9913830] Provvedimento del’1° giugno 2023 Registro dei provvedimenti n. 231 del’1° giugno 2023

IL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI NELLA riunione odierna, alla quale hanno preso parte il prof. Pasquale Stanzione, presidente, la prof.ssa Ginevra Cerrina Feroni, vicepresidente, il dott. Agostino Ghiglia, componente e il cons. Fabio Mattei, segretario generale;

VISTO il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 (di seguito, “Regolamento”);

VISTO il Codice in materia di protezione dei dati personali, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento nazionale al Regolamento (UE) 2016/679 (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, di seguito “Codice”);

VISTA la segnalazione presentata nei confronti di Ew Business Machines S.p.A.; ESAMINATA la documentazione in atti;

VISTE le osservazioni formulate dal segretario generale ai sensi dell’art. 15 del regolamento del Garante n. 1/2000; RELATORE la prof.ssa Ginevra Cerrina Feroni;

PREMESSO

1. La segnalazione nei confronti della Società e l’esito degli accertamenti ispettivi. Con segnalazione presentata all’Autorità il 22 novembre 2019, è stato lamentato che Ew Business Machines S.p.A. (di seguito, la Società) avrebbe utilizzato, presso la propria sede, un sistema di videosorveglianza, con attiva la funzione di registrazione e in assenza di informativa, un sistema di rilevazione delle impronte digitali dei dipendenti e un sistema di rilevazione della posizione geografica dei dipendenti tramite applicativo installato sui cellulari degli stessi. Considerata la natura delle violazioni lamentate, l’Ufficio ha delegato al Nucleo speciale tutela privacy e frodi tecnologiche della guardia di finanza lo svolgimento dell’accertamento ispettivo che è stato effettuato, in data 21 e 22 giugno 2021, presso la sede legale della Società. In occasione dell’accertamento ispettivo la Società, attraverso il proprio legale rappresentante, ha rappresentato (v. verbale di operazioni compiute del 21 e 22 giugno 2021) che “a seguito di un accesso abusivo a scopo di furto subito a fine settembre 2019 si è deciso di sostituire il sistema di allarme, in quanto quello in uso non aveva rilevato l’effrazione avvenuta e con attivazione e disattivazione a mezzo impronta digitale; nonché di installare una telecamera interna, in corrispondenza della reception, in modo da poter rilevare eventuali accessi indesiderati nelle ore di chiusura degli uffici e poter, quindi, intervenire; […] il sistema di allarme è stato installato anche presso il magazzino, sito al piano -1 di questa scala, e presso i locali siti al 1° piano […], la telecamera, invece, è stata installata presso la reception in quanto, quest’ultima, è l’ambiente di raccordo con le altre stanze di questa unità immobiliare; relativamente alla posizione geografica dei tecnici, posso ipotizzare che si faccia riferimento agli smartphone in dotazione degli stessi sui quali è installata l’app […] di gestione delle chiamate e degli interventi controllati centralmente”. Durante il suddetto accertamento è emerso che: – “la parte, appena venuta a conoscenza del motivo della visita, ha mostrato l’app di gestione della […] telecamera, dalla quale si è potuto constatare che la stessa era disattiva”; – con riferimento al sistema di videosorveglianza era “presente una sola telecamera […], orientata verso l’area antistante il desk della reception, collegata alla rete elettrica; non è presente alcun cartello informativo, né esterno né interno, circa la presenza di detta telecamera, e non sono presenti altre telecamere presso i locali delle altre unità immobiliari in uso alla società”; – con riferimento all’impianto d’allarme “presso la reception sono installati la centrale e un rilevatore di impronte digitali, mentre, presso le altre due unità immobiliari, sono installati altri due rilevatori di impronte, uno per ogni unità immobiliare”; – relativamente alla “gestione della telecamera in argomento, la parte ha mostrato le funzionalità della relativa app installata sul proprio smartphone personale. […] da quanto mostrato e da quanto dichiarato è emerso che: – l’app utilizzata è denominata “Nest”; – l’app rileva anche immagini relative all’abitazione della parte; – la videocamera [presente presso la sede della Società] risulta spenta e attivabile tramite apposito pulsante; – l’account è associato al [rappresentante legale della Società]; – il sistema di videosorveglianza rilevato dall’app si compone di 5 telecamere domestiche e una installata presso l’ufficio”; “tra le impostazioni relative alla telecamera installata presso l’ufficio risulta attiva la funzione “registrazione video” al cui riguardo la parte ha fatto presente che il sistema effettua la registrazione nel momento in cui la telecamera viene accesa e al verificarsi di eventi (movimento e/o suoni); la telecamera consente di registrare anche suoni ed è dotata di speaker per la riproduzione di audio effettuati tramite la funzione “microfono” dell’app; – la sezione relativa alla videocamera offline è riferita alla telecamera installata presso il salotto dell’abitazione della parte; – al fine di constatare i tempi di conservazione delle immagini registrate, la parte ha mostrato lo storico delle registrazioni della telecamera relativa all’ambiente “terrazzo” (puntata sulla piscina), dal quale risulta la conservazione di 33 eventi nel periodo che va dal 2 maggio 2021 ad oggi; – attivando tramite la suddetta funzione la telecamera installata presso la reception, l’app ha restituito l’immagine live della stessa, riprendendo l’operatrice di servizio al desk, quest’ultima inquadrata di spalle”; “dalla funzione cronologia video, relativa alla telecamera “ufficio”, non sono risultati eventi salvati dal 22 maggio 2021 ad oggi, ad esclusione di quello in corso; – la telecamera è impostata per segnalare notifiche in merito a persone e non all’eventuale rilevamento di suoni/rumori”; “l’accesso al sistema è consentito a n. 4 account, dei quali uno risulta intestato alla moglie [del rappresentante legale della Società] in qualità di “proprietario” dell’abbonamento, uno [al rappresentante legale della Società] e due ai rispettivi figli”. La Società attraverso il rappresentante legale ha, inoltre, dichiarato che: – “la telecamera “ufficio” è stata acquistata in un secondo momento rispetto a quelle installate presso la mia abitazione e per praticità di gestione è stata aggiunta all’account […]: la stessa telecamera è sempre spenta ed è stata acquistata per poter essere utilizzata qualora si attivi il sistema di allarme per poter, eventualmente, visionare/registrare eventuali intrusioni in corso nonché per ammonire verbalmente, attraverso lo speaker della telecamera; ad oggi non si è verificato nessun episodio tale da richiedere l’utilizzo della telecamera”; – “titolare del trattamento dei dati personali effettuato tramite la videocamera “ufficio” […] è la società, nata nel 2008 come Ew Business Machines s.r.l. e, dal 2015, Ew Business Machines S.p.A. […]; considerato il non utilizzo della telecamera in parola se non a seguito di attivazione del sistema di allarme, non si è ritenuto di dover apporre alcun cartello informativo all’ingresso o nelle adiacenze della stessa telecamera, anche perché raramente i nostri clienti vengono in sede […]; per quanto riguarda i dipendenti, tengo ad evidenziare che il rapporto tra la società e gli stessi si svolge in un clima familiare risalente nel tempo, tale da informare esclusivamente a voce circa le finalità e l’utilizzo della telecamera”; – “non c’è alcun accordo sindacale in quanto non ci sono rappresentanze in azienda né l’autorizzazione preventiva della Direzione Territoriale del Lavoro circa l’installazione e l’utilizzo della telecamera in parola”. Con riferimento al sistema di rilevazione geografica dei tecnici -applicativo “eWBM AT”- è stato dichiarato che “l’app si interfaccia col sistema gestionale aziendale […], dal quale, a mezzo di web service dedicato, riceve informazioni circa gli interventi da assegnare al personale tecnico munito dell’app […]; l’esito dell’intervento, invece, non viene comunicato direttamente dall’app al gestionale bensì mediante email generata automaticamente dalla procedura, l’esito in parola viene comunicato al cliente, al gestionale […] nonché al tecnico operante; sia il database del gestionale che quello su cui si appoggia l’app “eWBM AT” sono ubicati all’interno dell’armadio server di questa sede”. L’operatore incaricato della gestione delle chiamate e degli interventi ha mostrato le funzionalità del gestionale aziendale, con particolare riferimento alla formulazione di una richiesta di intervento, da cui è emerso che “il gestionale non riporta alcuna informazione circa la posizione geografica dei tecnici a cui viene assegnato l’intervento”. È stato, inoltre, verificato che, nella stampa di una e-mail relativa a un intervento chiuso, fornita dall’operatore, non sono presenti “riferimenti relativi alla posizione geografica del tecnico”. Sono state acquisite evidenze circa “il primo record di funzionamento dell’app, risalente all’anno 2012, il primo record di acquisizione della posizione geografica, risalente all’anno 2014, stralcio del codice sorgente dell’app relativo alle funzioni di rilevazione della posizione geografica e identificativo dei tecnici interessati”. È stato, inoltre, dichiarato dalla Società che l’applicativo “non è commerciabile, ma è ad uso esclusivo interno” e che “la rilevazione della posizione geografica è stata implementata esclusivamente per convalidare che la chiusura dell’intervento tecnico avvenisse presso il cliente”. È stato rappresentato inoltre che è possibile l’implementazione dell’applicativo con ulteriori funzioni di rilevazione della posizione geografica, con frequenza maggiore e in momenti diversi da quello della chiusura dell’intervento tecnico, previa modifica del codice sorgente dell’applicativo. Con riferimento al sistema di rilevazione delle impronte digitali, la Società ha dichiarato che “il sistema di allarme si compone di una centrale e tre rilevatori di impronte utilizzati, esclusivamente, per attivare e disattivare il predetto sistema nonché di una scheda che funge da interfaccia tra i tre rilevatori e la centrale; ogni rilevatore consente, quindi, di gestire l’allarme nell’ambiente in cui è installato; tra i dipendenti ve ne sono alcuni abilitati a più rilevatori, di cui alcuni abilitati a tutti e tre (titolare, soci, ecc.)”. La Società ha fornito copia dell’e-mail, inviata alla società Teycos s.r.l., con cui richiedeva la relazione in merito al trattamento di dati biometrici, effettuato dal sistema di allarme e del riscontro. Durante gli accertamenti è stato effettuato l’accesso al sistema di rilevazione delle impronte digitali ed è emerso che: – relativamente alla centrale, “nella scheda utente sono indicati nome/nome e cognome del dipendente, numero della tessera utente (codice di riconoscimento), ambiente per il quale lo stesso è abilitato all’attivazione/disattivazione dell’impianto d’allarme e, solo per i tre soci, per necessità di notifica dell’eventuale allarme scattato, anche il recapito telefonico”; “sono presenti i log riferiti all’attivazione dell’allarme, alla sua disattivazione e i log di accesso al sistema”; – con riferimento al software dei rilevatori biometrici e, in particolare, all’ultima copia di backup delle informazioni presenti sui tre rilevatori e, a seguire, previo “upload” della copia di backup aggiornata è emerso che “sono presenti 27 impronte acquisite; è presente l’elenco dei 21 soggetti abilitati (per alcuni è stata rilevata l’impronta di più dita); per ognuno dei predetti utenti risulta la data di rilevazione dell’impronta, nome/nome e cognome, ambiente per cui è abilitata, immagine con l’indicazione del/delle dito/a rilevato/e”; – con riferimento a ogni singolo rilevatore di impronte, è emerso che “ogni rilevatore conserva le informazioni relative alla rilevazione delle impronte digitali di tutti i dipendenti censiti, indipendentemente dall’ambiente al quale sono abilitati; il numero delle impronte acquisite in ognuno di essi risulta essere pari a 27 e risultano presenti le medesime informazioni, come nella copia di backup aggiornata al momento”. La Società ha confermato che “ogni rilevatore conserva le informazioni di tutti gli utenti abilitati al sistema a prescindere dalle abilitazioni”. In sede di ispezione, inoltre, su richiesta dei verbalizzanti, sono stati estratti e forniti “i log di acceso al server contenente il database su cui appoggia l’app […] specificamente riferiti al periodo che va dalle ore 00:00 del 21 giugno alle ore 11:45:08 odierne. Detti log forniscono informazioni circa login e logout di tutti gli utenti a sistema con l’indicazione dell’IP di origine”. In merito al funzionamento dell’app “eWBM AT” e alle funzioni di sistema relative alla rilevazione della posizione geografica dei tecnici durante gli interventi, la Società ha provveduto a “mostrare la funzione del codice sorgente relativa alla rilevazione-tracciamento della posizione geografica dell’Iphone del tecnico al momento della chiusura della chiamata (conclusione dell’intervento); – effettuare una nuova simulazione di chiamata dal gestionale alla sua utenza e alla gestione/chiusura della stessa, previa attivazione della rilevazione della posizione geografica, impostandola in modalità “mentre usi l’app”, sia dalle impostazioni generali dell’Iphone che dalla stessa app; dalla predetta operazione è emerso che nella tabella “dbo.tab_gpstracking”, utilizzata per memorizzare i tracciamenti gps provenienti dagli utenti dell’app, è risultata tracciata in modo continuo la posizione dell’Iphone d[el’amministratore di sistema] (espressa in latitudine e longitudine), dall’accesso all’app alla chiusura della simulazione di chiamata, ad esclusione del periodo in cui l’app non è stata utilizzata; allo stesso modo, è risultata tracciata in modo continuo la posizione dell’iphone in dotazione ad un altro tecnico […], selezionato a campione, dalle ore 8:21:40 odierne al momento della verifica (12:56:49)”. La Società ha, inoltre, dichiarato che: – con specifico riferimento al trattamento del dato relativo alla posizione geografica, “il sistema traccia la posizione geografica dell’iPhone, previo accesso all’app, e a condizione che la stessa sia attiva; quindi in caso di app in background piuttosto che con smartphone in standby il sistema non effettua il tracciamento”; – con riferimento al sistema di allarme associato alla rilevazione delle impronte digitali, “in considerazione della relazione che ci è stata fornita dalla società Teycos s.r.l. e, quindi, da quanto riportato nella stessa con la frase “nessuna impronta in chiaro viene memorizzata nel terminale né tantomeno nella centrale di gestione”, non si è ritenuto di effettuare alcun trattamento di dati personali; pertanto i nostri dipendenti sono stati informati verbalmente circa la finalità e l’utilizzo del suddetto sistema, con l’indicazione specifica che nessun dato sarebbe rimasto in memoria; anche per questo non è stato inserito nel registro dei trattamenti dei dati personali”; – con riferimento ai trattamenti di dati personali relativi alla posizione geografica dei dipendenti, “i trattamenti di dati personali effettuati tramite l’app sono compresi tra quelli più generali del software di gestione [aziendale], quest’ultimo riportato nel registro dei trattamenti; per quanto concerne la specifica rilevazione della posizione geografica, non si era a conoscenza di un tracciamento continuo durante l’uso dell’app sugli Iphone in dotazione ai tecnici, ma eravamo al corrente della sola rilevazione all’atto della chiusura della chiamata […] e che è utile alla società per far fronte ad eventuali lamentele/contestazioni da parte dei clienti circa la durata dell’intervento tecnico: per queste ragioni non si è ritenuto di dover prendere in considerazione le previsioni di cui allo statuto dei lavoratori”; – “Teycos s.r.l. non è mai stata nominata responsabile del trattamento”. In data 7 luglio 2021, la Società ha inviato documentazione integrativa evidenziando che: – “Il [lavoratore che si occupa dello sviluppo e della manutenzione dell’app eWBm AT] è stato da noi nominato amministratore di sistema”; – “la nostra società dispone di diversi uffici a vari piani di uno stabile […] in Milano ma una sola telecamera è stata posizionata in ingresso […] con il solo scopo di individuare eventuali intrusi in orario extra-lavorativo… fortunatamente non è mai stata necessaria la sua accensione”; – “il nostro impianto di allarme (uno per piano) viene inserito o disinserito tramite lettura di impronta digitale dalla prima/ultima persona che entra/esce in/dall’ufficio… la persona non è mai la stessa, spessissimo sono i titolari stessi ad eseguire tale funzione e la nostra azienda […] non ha assolutamente accesso alle impronte digitali registrate nell’impianto (non sono nemmeno presenti le impronte di tutti i dipendenti ma solo di quelli che potrebbero avere necessità di inserire/disinserire l’impianto di allarme)”; – “la nostra app eWBM AT (interamente sviluppata internamente) ci permette di smistare le chiamate ricevute dai nostri clienti quasi in tempo reale ai nostri tecnici che pertanto hanno la possibilità di risolvere rapidamente i guasti delle apparecchiature da noi fornite”; – “una delle tipologie dei nostri interventi è quella a pagamento (ore del tecnico presso il cliente ed eventuali km percorsi dallo stesso per recarsi all’appuntamento) … si è pertanto reso necessario il tracciamento per poter dimostrare ai clienti quanto effettivamente fatturato. […] i nostri tecnici sono consapevoli che tale tracciamento è abilitato ad app accesa (quindi quando si trovano dal cliente) ed hanno sempre e comunque la possibilità di abilitare e disabilitare tale funzione”. In data 12 luglio 2021 la Società ha inviato un’ulteriore integrazione documentale. 2. L’avvio del procedimento e le deduzioni della Società. In data 29 novembre 2021, l’Ufficio ha effettuato, ai sensi dell’art. 166, comma 5, del Codice, la notificazione alla Società delle presunte violazioni del Regolamento riscontrate, con riferimento agli artt. 114 del Codice, 5, par. 1, lett. a), c), 6, 9, 13 e 88 del Regolamento. Con memorie difensive del 23 dicembre 2021, la Società ha dichiarato che: – “tanto dalla lettura del processo verbale che dalla notifica delle presunte violazioni emerge […] la particolarità del caso” (v. nota 23.12.2021 cit., p. 6); – “appare evidente la intrinseca buona fede che ha caratterizzato le scelte del Titolare del trattamento, seppur non sempre allineate in termini di accountability” (v. nota cit., p. 6); – “l’installazione della telecamera denominata “ufficio”, accessibile a mezzo applicativo, è conseguita alla necessità di mettere in sicurezza il patrimonio aziendale “in seguito ad un accesso abusivo a scopo di furto”, risalente al mese di settembre 2019″ (v. nota cit., p. 7); – “dal punto di vista squisitamente normativo, pertanto, non pare revocabile in dubbio che gli scopi perseguiti dal Titolare del trattamento fossero determinati, espliciti e legittimi. Egualmente dicasi del rispetto dei principi di liceità, necessità e proporzionalità” (v. nota cit., p. 7); – “nel commisurare la necessità di un sistema (composto, peraltro, da una sola telecamera) è stato valutato il grado di rischio presente in concreto, evitando la rilevazione di dati in aree, ovvero attività, che non sono soggette a concreti pericoli oppure per le quali non ricorre una effettiva esigenza di deterrenza. Al contrario, l’installazione è stata espressamente finalizzata alla protezione di beni aziendali, soprattutto in relazione ad episodi di furto tentato e combinata con altri idonei accorgimenti quali, per l’appunto, un rinnovato sistema di allarme abbinato a misure di protezione ed abilitazione agli ingressi” (v. nota cit., p. 7, 8); – “il Titolare del trattamento ha peccato di ingenuità – ritenendo di aver correttamente adempiuto al proprio obbligo di trasparenza nei confronti degli interessati, mediante comunicazione orale (e pur sempre nel rispetto delle previsioni di cui all’art. 12 GDPR) – quando, invece, avrebbe dovuto predisporre una modalità di comunicazione intellegibile, trasparente e facilmente accessibile” (v. nota cit., p. 8, 9); – “le condizioni generali vanno contestualizzate al caso di specie ed allora tre sono i rilievi che vanno tenuti in debito conto: i. in primo luogo, l’ambiente lavorativo estremamente familiare […] La circostanza – che non vuole assurgere ad esimente – ha certamente contribuito ad una gestione meno compliant degli adempimenti privacy; oltre al fatto che il sistema di videosorveglianza era stato originariamente pensato per un uso domestico e soltanto in un secondo momento si è provveduto all’acquisto della telecamera denominata “ufficio” che, per stessa ammissione del [rappresentante legale della Società], “(…) per praticità di gestione è stata aggiunta all’account” domestico, il cui accesso era, ovviamente, consentito all’intero nucleo familiare del legale rappresentante, nella (corretta) convinzione che il trattamento di dati personali, da parte di una persona fisica nel corso di una attività puramente personale o domestica, non rientra nell’ambito di applicazione del GDPR (art. 2, par. 2 lettera c GDPR). In realtà, tale c.d. “esenzione familiare”, nel contesto della videosorveglianza, si sarebbe dovuta interpretare in maniera maggiormente restrittiva, come relativa alle sole attività svolte nel corso della vita privata o familiare delle persone, anche se, giova rammentare che, nel caso di specie, il dato trattato non è stato reso accessibile ad alcuno” (v. nota cit., p. 9); – “massimo è stato lo spirito di collaborazione con l’Autorità da parte del Titolare del trattamento che, in seguito alla ispezione: a) in ossequio alle previsioni di cui al Provvedimento in materia di videosorveglianza – 08.04.2010 [1712680], ha predisposto un sistema di c.d. “pre-informativa”, tramite il quale è possibile garantire gli interessati circa la possibilità di essere informati nel momento in cui stanno per accedere ad una zona videosorvegliata. È stata, pertanto, predisposta una cartellonistica affissa in prossimità della telecamera denominata “ufficio”, recante le informazioni più utili ed immediate per gli individui. […] La predetta informativa è stata collocata prima del raggio di azione della telecamera; dunque, nelle sue immediate vicinanze. Essa risulta chiaramente visibile in ogni condizione di illuminazione ambientale ed ingloba un simbolo stilizzato di esplicita ed immediata comprensione per l’interessato. Laddove l’informativa c.d. semplificata da sola non dovesse essere sufficiente, il Titolare del trattamento, sin da ora, si rende disponibile a garantire la consultazione anche del testo completo dell’informativa, con tutte le precisazioni indicate dall’art. 13 GDPR, mediante affissione in apposita bacheca; […] si è attivato per integrare il sistema di gestione della protezione dei dati al fine di minimizzare e mitigare il rischio di violazioni ed incidenti sui dati personali trattati in Azienda ([…] estratto Registro trattamenti aggiornato, rispettivamente, alla data del 08.11.2021 e del 15.12.2021)” (v. nota cit., p. 9, 10); – in merito al sistema di rilevazione geografica “la questione […] si presenta altamente problematica dal momento che impone di bilanciare una serie di contrapposti interessi: quelli dell’azienda e quelli dei singoli lavoratori” (v. nota cit., p. 12); – “la condotta del Titolare – lungi dall’essere stata funzionale al controllo capillare del lavoratore – è dipesa, fondamentalmente, dalla necessità di contabilizzare la durata degli interventi tecnici presso la clientela, onde evitare contestazioni in sede di fatturazione. Ed è questa la ragione per cui […] questo modello sia riconducibile, de plano, alle particolari esigenze organizzative” (v. nota cit., p. 13); – “il Titolare, pur non avendo puntualmente osservato le garanzie previste in seno allo Statuto, si è adoperato al fine di predisporre apposite cautele volte a proteggere la vita privata dei lavoratori. […] a) il Titolare ha determinato le finalità da perseguire, cui è conseguita una configurazione del sistema applicativo che consentisse il trattamento dei dati in termini di proporzionalità e minimizzazione. La circostanza, poi, che il software GPS utilizzato fosse di “produzione propria” – in quanto ideato e progettato da una risorsa aziendale – ha consentito di non ricorrere a risorse esterne e di calibrare il proprio applicativo al trattamento, per impostazione predefinita, dei soli dati personali necessari alla specifica finalità del trattamento (esatta contabilizzazione delle prestazioni lavorative rese all’esterno); b) le uniche informazioni visibili, a mezzo applicativo, erano quelle riferite ai singoli interventi. La posizione geografica risulta tracciata solo ad applicativo attivato, tanto è vero che, da un controllo a campionatura in sede di ispezione, non è risultato alcuna irregolarità sull’utilizzo del dato posizionale del lavoratore; c) all’applicativo era preclusa la possibilità di accedere alla messaggistica personale del lavoratore” (v. nota cit., p. 13); – “certamente, anche in questo caso, il Titolare del trattamento ha peccato di ingenuità – ritenendo di aver correttamente adempiuto al proprio obbligo di trasparenza nei confronti degli interessati, mediante comunicazione orale (e pur sempre nel rispetto delle previsioni di cui all’art. 12 GDPR) – quando, invece, avrebbe dovuto predisporre una modalità di comunicazione intellegibile, trasparente e facilmente accessibile. Circostanza, quest’ultima, a cui è stato posto rimedio” (v. nota cit., p. 13, 14); – in merito al sistema di rilevazione delle impronte digitali “il Garante – con Provvedimento generale prescrittivo in tema di biometria del 12.11.2014 – ha fornito delle Linee Guida, con riferimento al corretto utilizzo delle c.d. tecniche biometriche […]. Le Linee Guida contemplano anche talune ipotesi di esonero da tale obbligo di verifica preliminare da parte del Garante” (v. nota cit., p. 16); – “in particolare, in tema di impronte digitali, il Provvedimento del Garante del 12.11.2014 di cui sopra, non richiede al datore di lavoro di ottenere il previo consenso, da parte dei lavoratori, per l’installazione di alcune tecnologie biometriche. Tuttavia, il datore di lavoro/Titolare del trattamento è, in ogni caso, tenuto a comunicare, ai propri lavoratori dipendenti, quali siano i loro diritti, le finalità sottese alla installazione dei suddetti strumenti e quali siano le modalità di trattamento dei dati biometrici raccolti” (v. nota cit., p. 17); – “le informazioni ai lavoratori in merito alla finalità ed alle modalità di trattamento del dato biometrico sono state rese anche se soltanto in forma orale, in virtù di quella familiarità dei rapporti che contraddistingue il lavoro in Ew Business […]; il Titolare non ha avuto mai accesso alle impronte digitali registrate a sistema; la mancata corrispondenza tra il numero di impronte rilevate (27) ed il numero dei soggetti abilitati (21) è dipesa dal fatto che alcuni lavoratori sono abilitati a diversi rilevatori; il Titolare del trattamento si è informato sulle modalità di trattamento del dato biometrico operato dalla Società Teycos S.r.l. […], ricevendone comunicazione dalla quale si evince che “(…) nessuna impronta in chiaro viene memorizzata nel terminale, né tanto meno nella centrale di gestione”” (v. nota cit., p. 17); -“quanto precede non vuole certamente costituire una esimente, per la EW Business, ma denota una necessità cui l’Azienda aveva, in realtà, già posto mano – e che prosegue anche nel mentre ci si accinge alla stesura delle presenti note – circa l’opportunità di coordinare la disciplina statutaria di cui alla Legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) con la normativa, comunitaria e nazionale, in tema di privacy” (v. nota cit., p. 18); – “già prima della notifica del Garante – il Titolare del trattamento si era attivato con la Società Teycos S.r.l. per l’adozione di sistemi alternativi a quello di rilevazione delle impronte digitali – ritenuto certamente necessario, ma al contempo foriero di criticità – di cui, peraltro, aveva finanche avviato la sperimentazione. Il riferimento è al “sistema di tag” installato in data 29.10.2021 che, nelle previsioni del Titolare del trattamento – e sempre subordinando le proprie valutazioni ai rilievi che il Garante vorrà svolgere al riguardo – dovrebbe andare a sostituire il rilevamento di impronte digitali associato al sistema di allarme […]. Sistema – quello di rilevazione delle impronte digitali – che, preso atto dei rilievi formulati in sede di ispezione, è stato oggetto di disinstallazione” (v. nota cit., p. 18); – “sicuramente, l’odierna esponente ha anche difettato nella adeguata informazione da fornire ai propri lavoratori dipendenti, ma con la medesima sicurezza può dirsi che la circostanza non è da ricondursi ad ipotetici intenti persecutori e/o di monitoraggio del lavoratore” (v. nota cit., p. 18); – “rileva, invece, individuare […] come l’Azienda odierna esponente abbia preso piena consapevolezza della criticità e si sia attivata nella direzione di garantire un processo di interazione continua (in senso bilaterale) tra la disciplina generale sul trattamento dei dati personali (anche particolari ex art. 9 GDPR) e quella specialistica dello Statuto dei Lavoratori” (v. nota cit., p. 18); – “si confida nella circostanza di aver correttamente adempiuto all’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza (art. 3 Legge n. 689/1981)” (v. nota cit., p. 20); – “nelle circostanze concrete del caso che qui occupa, le violazioni contestate non hanno creato un rischio significativo per i diritti degli interessati né, tanto meno, hanno inciso sull’essenza dell’obbligo in questione; […] non ricorre, nel caso di specie, un trattamento improntato al carattere doloso; il numero di interessati coinvolti è davvero esiguo; il grado di cooperazione garantito dal Titolare, al fine di porre rimedio alla violazione ovvero attenuarne i possibili effetti negativi, è stato (ed è) massimo; le misure adottate dal Titolare del trattamento per attenuare gli effetti eventualmente pregiudizievoli in danno degli interessati sono state oltremodo efficaci; non risulta l’irrogazione di precedenti provvedimenti ex art. 58, par. 2 GDPR, nei confronti del medesimo Titolare” (v. nota cit., p. 20, 21). 3. L’esito dell’istruttoria. All’esito dell’esame delle dichiarazioni rese all’Autorità nel corso del procedimento nonché della documentazione acquisita, risulta che la Società, in qualità di titolare, ha effettuato alcune operazioni di trattamento, riferite ai propri dipendenti, che risultano non conformi alla disciplina in materia di protezione dei dati personali, in particolare con riferimento al trattamento dei dati di geolocalizzazione, attraverso un applicativo installato sugli smartphone in uso agli stessi, quindi con riferimento al trattamento dei dati per mezzo di un sistema di videosorveglianza, nonché relativamente al trattamento dei dati biometrici (impronte digitali) per l’attivazione e la disattivazione di un sistema d’allarme. In proposito si evidenzia che, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, in un procedimento dinanzi al Garante, dichiara o attesta falsamente notizie o circostanze o produce atti o documenti falsi ne risponde ai sensi dell’art. 168 del Codice “Falsità nelle dichiarazioni al Garante e interruzione dell’esecuzione dei compiti o dell’esercizio dei poteri del Garante”. 3.1. Trattamento di dati biometrici. È stato accertato che la Società ha fatto installare, presso la propria sede legale, un sistema di allarme che si attiva e si disattiva attraverso l’uso di impronte digitali. Il predetto sistema è stato in funzione dal settembre 2019 fino al 29 ottobre 2021, data in cui è stato fatto installare un sistema alternativo (“sistema tag”) che non tratta dati biometrici ed è stato “cancellato il database di riferimento per attivazione/disattivazione impianto” (all. 4, 5 scritti difensivi 23.12.2021). È emerso, in particolare, che il predetto sistema è costituito da una centrale e da tre rilevatori di impronte digitali che consentono di gestire l’allarme nell’ambiente in cui è stato installato. Sulla base di quanto rilevato in occasione dell’accesso al sistema effettuato durante l’accertamento ispettivo, è risultato che nello stesso sono stati memorizzati i dati relativi alle impronte digitali di 21 soggetti abilitati (tra cui dipendenti della Società, di alcuni sono state rilevate più impronte digitali) e che sono registrati i log riferiti all’attivazione e disattivazione dell’allarme e di accesso al sistema. È stato anche accertato che per ogni utente in relazione al quale viene conservata l’impronta digitale sono indicati il nome, l’ambiente per cui è abilitato all’accesso e l’indicazione delle dita rilevate. A differenza di quanto sostenuto dalla Società, risulta accertato che quest’ultima ha trattato dati biometrici dei propri dipendenti, in assenza di un’idonea base giuridica, posto che, come chiarito dall’Autorità, vi è trattamento di tale tipologia di dati sia nella fase di registrazione (c.d. enrollment, consistente nella acquisizione delle caratteristiche biometriche – nella specie impronte digitali – dell’interessato; vi è trattamento di dati biometrici quando viene trattato il dato nella forma di campione biometrico nonché quando viene trattato in forma di modello biometrico; v. punti 6.1 e 6.2 dell’allegato A al provvedimento del Garante del 12 novembre 2014, n. 513, in www.garanteprivacy.it, doc. web n. 3556992), sia nella fase di riconoscimento biometrico, nel caso di specie all’atto dell’attivazione e della disattivazione del sistema d’allarme (v. anche punto 6.3 dell’allegato A al citato provvedimento). Ciò anche alla luce della definizione di dati biometrici fornita dal Regolamento (“dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici”, art. 4, n. 14, del Regolamento) che ha altresì inserito tale tipologia di dati tra i dati appartenenti a categorie particolari di dati (art. 9, par. 1 del Regolamento). In proposito si osserva che, in base alla disciplina posta in materia di protezione dei dati personali, il trattamento di dati biometrici (di regola vietato ai sensi del richiamato art. 9, par. 1 del Regolamento) è consentito esclusivamente qualora ricorra una delle condizioni indicate dall’art. 9, par. 2 del Regolamento e, con riguardo ai trattamenti effettuati in ambito lavorativo, solo quando il trattamento sia “necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato” (art. 9, par. 2, lett. b), del Regolamento; v. pure, art. 88, par. 1 e cons. 51-53 del Regolamento). Affinché, quindi, il trattamento dei dati biometrici, in ambito lavorativo, sia consentito, la fattispecie deve innanzitutto rientrare nelle ipotesi in cui il trattamento sia “necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro [e della sicurezza sociale e protezione sociale]” (v. pure art. 88, par. 1, Regolamento). Tale elemento non ricorre nel caso di specie, considerato che il trattamento dei dati biometrici era finalizzato all’attivazione e alla disattivazione di un sistema di allarme installato presso la sede legale della Società. Tra l’altro, si precisa che il trattamento dei dati biometrici è consentito solo “nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri […] in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato” (art. 9, par. 2, lett. b), e cons. nn. 51-53 del Regolamento). In tale quadro, affinché uno specifico trattamento avente a oggetto dati biometrici possa essere lecitamente iniziato è pertanto necessario che lo stesso trovi il proprio fondamento in una disposizione normativa che abbia le caratteristiche richieste dalla disciplina di protezione dei dati, anche in termini di proporzionalità dell’intervento regolatorio rispetto alle finalità che si intendono perseguire. Il quadro normativo vigente prevede, inoltre, che il trattamento di dati biometrici, per poter essere lecitamente posto in essere, avvenga nel rispetto di “ulteriori condizioni, comprese limitazioni” (cfr. art. 9, par. 4, del Regolamento). A tale disposizione è stata data attuazione, nell’ordinamento nazionale, con l’art. 2-septies (Misure di garanzia per il trattamento dei dati genetici, biometrici e relativi alla salute) del Codice. La norma prevede che è lecito il trattamento di tali categorie di dati al ricorrere di una delle condizioni di cui all’art. 9, par. 2, del Regolamento “ed in conformità alle misure di garanzia disposte dal Garante”, in relazione a ciascuna categoria dei dati. Il datore di lavoro, titolare del trattamento, è, in ogni caso, tenuto a rispettare i principi di “liceità, correttezza e trasparenza”, “limitazione delle finalità”, “minimizzazione” nonché “integrità e riservatezza” dei dati e “responsabilizzazione” (art. 5 del Regolamento). I dati devono, inoltre, essere “trattati in maniera da garantire un’adeguata sicurezza” degli stessi, “compresa la protezione, mediante misure tecniche e organizzative adeguate, da trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentali” (art. 5, par. 1, lett. f), e art. 32 del Regolamento). Alla luce del richiamato quadro normativo il trattamento di dati biometrici realizzato dalla Società risulta quindi essere stato effettuato in assenza di un’idonea base giuridica. Inoltre, sempre in merito al trattamento dei dati biometrici, è stato accertato che la Società non ha fornito un’idonea informativa agli interessati ai sensi dell’art. 13 del Regolamento. In proposito la Società ha dichiarato che “in considerazione della relazione che ci è stata fornita […] e, quindi, da quanto riportato nella stessa con la frase “nessuna impronta in chiaro viene memorizzata nel terminale né tantomeno nella centrale di gestione”, non si è ritenuto di effettuare alcun trattamento di dati personali; pertanto i nostri dipendenti sono stati informati verbalmente circa la finalità e l’utilizzo del suddetto sistema, con l’indicazione specifica che nessun dato sarebbe rimasto in memoria”. Tra l’altro la stessa Società ha dichiarato di avere “difettato nella adeguata informazione da fornire ai propri lavoratori dipendenti” (v. scritti difensivi nota cit., p. 18). Come chiarito dall’art. 12 del Regolamento “il titolare del trattamento adotta misure appropriate per fornire all’interessato tutte le informazioni di cui agli articoli 13 e 14 […] in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile […]. Le informazioni sono fornite per iscritto o con altri mezzi, anche se del caso, con mezzi elettronici”. Le informazioni possono essere fornite oralmente solo “se richieste dall’interessato”, circostanza che non ricorre nel caso di specie. La Società, per i motivi suesposti, ha pertanto violato gli artt. 5, par. 1, lett. a), 9, par. 2, lett. b) del Regolamento e dell’art. 13 del Regolamento dalla data di installazione e messa in funzione del sistema di allarme mediante trattamento dei dati biometrici, fino alla sua disinstallazione e sostituzione nel 29 ottobre 2021. Alla luce dei chiarimenti forniti, non si ritiene invece sussistente la violazione dell’art. 6 del Regolamento, contenuta nella notifica di violazione del 29 novembre 2021, che deve intendersi pertanto archiviata. 3.2. Trattamento di dati relativi alla posizione geografica. È risultato, inoltre, che la Società richiede, al proprio personale tecnico (quantomeno nel numero di 6 tecnici al momento dell’accertamento ispettivo, v. all. 3 ai verbali di operazioni compiute), di utilizzare l’applicativo “eWBM AT”, installato sugli smartphone in dotazione ai lavoratori quando svolgono l’attività lavorativa all’esterno della sede aziendale. Attraverso il predetto applicativo è risultata tracciata, tramite GPS, la posizione del dispositivo mobile sul quale viene scaricato l’applicativo predetto, in modo continuativo quando il tecnico usa l’applicativo (quindi non quando l’applicativo non è attivo o quando è in background, v. dichiarazione dell’amministratore di sistema secondo cui “il sistema traccia la posizione geografica dell’Iphone, previo accesso all’app, e a condizione che la stessa sia attiva; quindi, in caso di app in back ground piuttosto che con smartphone in standby il sistema non effettua il tracciamento”, v. verbale operazioni compiute del 22.6.2021), comunque all’interno del periodo temporale compreso dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 18. Oltre al dato relativo alla posizione geografica, risultano essere stati raccolti anche il dato relativo all’ora e alla data della rilevazione della posizione stessa, tra l’altro anche dati relativi a periodi molto risalenti nel tempo (2014). È stato inoltre accertato che la Società raccoglie anche gli specifici dati relativi alla posizione geografica, alla data e all’ora della chiusura dell’intervento svolto dal tecnico. In tal modo risulta tracciata, in modo continuativo, la posizione del lavoratore nello svolgimento della propria attività lavorativa quando l’applicativo risulta in uso. Tale condotta si pone in contrasto con la disciplina di settore in materia di controlli a distanza (cfr. artt. 5, par. 1, lett. a) del Regolamento in relazione agli artt. 114 del Codice e 4, legge 20.5.1970, n. 300). Questa disciplina infatti, pure a seguito delle modifiche disposte con l’art. 23 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, non consente l’effettuazione di attività idonee a realizzare il controllo massivo, prolungato e indiscriminato dell’attività del lavoratore (v. Provvedimento generale in materia di localizzazione dei veicoli aziendali cit., spec. par. 3; si vedano anche Article 29 Working Party, Opinion 2/2017 on data processing at work, WP 249, spec. n. 5.7. e Consiglio di Europa, Raccomandazione del 1 aprile 2015, CM/Rec(2015)5, spec. n. 16). In particolare, i trattamenti di dati personali effettuati nell’ambito del rapporto di lavoro, se necessari per la finalità di gestione del rapporto stesso (v. artt. 6, par. 1, lett. c); 9, par. 2, lett. b) del Regolamento), devono svolgersi nel rispetto dei principi generali indicati dall’art. 5 del Regolamento, ed in particolare del principio di liceità, in base al quale il trattamento è lecito se è conforme alle discipline di settore applicabili (art. 5, par. 1, lett. a) del Regolamento). Coerentemente con tale impostazione, l’art. 88 del Regolamento ha fatto salve le norme nazionali di maggior tutela (“norme più specifiche”) volte ad assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei lavoratori. Il legislatore nazionale ha approvato, quale disposizione più specifica, l’art. 114 del Codice che tra le condizioni di liceità del trattamento ha stabilito l’osservanza di quanto prescritto dall’art. 4, legge 20 maggio 1970, n. 300. La violazione del richiamato art. 88 del Regolamento è soggetta, ricorrendone i requisiti, all’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 83, par. 5, lett. d) del Regolamento. In base al richiamato art. 4 della l. n. 300 del 1970, gli strumenti dai quali derivi “anche la possibilità di controllo a distanza” dell’attività dei dipendenti, “possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale” e la relativa installazione deve, in ogni caso, essere eseguita previa stipulazione di un accordo collettivo con la rappresentanza sindacale unitaria o con le rappresentanze sindacali aziendali o, ove non sia stato possibile raggiungere tale accordo o in caso di assenza delle rappresentanze, solo in quanto preceduta dal rilascio di apposita autorizzazione da parte dell’Ispettorato del lavoro. L’attivazione e la conclusione di tale procedura di garanzia è dunque condizione indefettibile per l’installazione di sistemi di videosorveglianza. La violazione di tale disposizione è penalmente sanzionata (v. art. 171 del Codice). Il sistema utilizzato viola, inoltre, il principio di minimizzazione dei dati, enunciato dall’art. 5, par. 1, lett. c) del Regolamento, considerato che, in base allo stesso, il titolare del trattamento deve trattare dati “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati”. La Società, in proposito, ha infatti dichiarato che “non si era a conoscenza di un tracciamento continuo durante l’uso dell’app sugli [smartphone] in dotazione ai tecnici, ma eravamo al corrente della sola rilevazione all’atto della chiusura della chiamata […] e che è utile alla società per far fronte ad eventuali lamentele/contestazioni da parte dei clienti circa la durata dell’intervento tecnico; per queste ragioni non si è ritenuto di dover prendere in considerazione le previsioni di cui allo Statuto dei lavoratori” (v. verbale operazioni compiute 22.6.2021), e che il trattamento dei dati relativi alla posizione geografica deriva “dalla necessità di contabilizzare la durata degli interventi tecnici presso la clientela, onde evitare contestazioni in sede di fatturazione” (v. scritti difensivi del 23.12.2021). Le stesse dichiarazioni della Società confermano la sproporzione dei dati trattati relativamente alla rilevazione della posizione geografica (unitamente alla data e all’ora della rilevazione) rispetto alla finalità per la quale vengono raccolti gli stessi. Il dato relativo alla posizione geografica, infatti, non risulta raccolto solo nel momento della “chiusura della chiamata”, come la Società ha dichiarato di ritenere e del quale ha bisogno per esigenze organizzative e produttive, ma per tutto il tempo in cui l’applicativo risulta attivo e il tecnico risulta avere acceduto allo stesso (in ogni caso all’interno del periodo temporale compreso dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 18). Inoltre, con riferimento a questo specifico trattamento, non risulta neanche essere stata fornita un’idonea informativa agli interessati, in violazione di quanto previsto dall’art. 13 del Regolamento. In proposito non si può ritenere sufficiente, infatti, la laconica indicazione presente nell’app (v. screenshot acquisiti in sede di ispezione) in base alla quale viene precisato che “questa app traccia la posizione dell’utente ai fini di gestione e controllo aziendale. La tracciatura avviene dal lun al ven, dalle 8.00 alle 18.00” e ancora che l’opzione “posizione esatta” “consente all’app di utilizzare la tua posizione esatta. Quando l’opzione non è attiva, le app potranno determinare soltanto la posizione approssimativa”. La stessa Società ha in proposito dichiarato di avere “peccato di ingenuità – ritenendo di aver correttamente adempiuto al proprio obbligo di trasparenza nei confronti degli interessati, mediante comunicazione orale (e pur sempre nel rispetto delle previsioni di cui all’art. 12 GDPR) – quando, invece, avrebbe dovuto predisporre una modalità di comunicazione intellegibile, trasparente e facilmente accessibile” (v. scritti difensivi 23.12.2021, p. 13, 14). Non si ritiene, inoltre, sia stato dato adempimento all’obbligo di fornire un’adeguata informativa in merito al trattamento dei dati relativi alla posizione geografica, neanche successivamente all’accertamento ispettivo, considerato che la documentazione fornita con gli scritti difensivi (v. all. 3 agli scritti difensivi del 23.12.2021), datata 9 dicembre 2021, non può considerarsi conforme a quanto prescritto dall’art. 13 del Regolamento; nella stessa documentazione, infatti, risulta solo precisato che “come già comunicatole verbalmente al momento della messa in funzione dell’APP di gestione assistenza tecnica, si conferma che la geolocalizzazione, necessaria alla fatturazione degli interventi tecnici eseguiti, dovrà essere da voi spenta tramite apposito flag al termine della normale giornata lavorativa”. Alcuna informazione specifica in merito al trattamento dei dati relativi alla posizione geografica è stata fornita. Nell’ambito del rapporto di lavoro l’obbligo di informare il dipendente è altresì espressione del dovere di correttezza ex art. 5, par. 1, lett. a) del Regolamento. Per le ragioni indicate, la condotta tenuta dalla Società comporta la violazione degli artt. 114 del Codice, 5, par. 1, lett. a), c), 13 e 88 del Regolamento. 3.3. Trattamento di dati mediante un sistema di videosorveglianza. Con riferimento al sistema di videosorveglianza installato presso la sede della Società, è stato accertato che, dall’uso del predetto sistema, può derivare un controllo a distanza dell’attività lavorativa: in particolare, è stato accertato che il legale rappresentante della Società, attraverso il proprio smartphone, può visionare, in diretta, quanto ripreso dalla telecamera che inquadra la postazione adibita a reception, quindi l’attività dei lavoratori che lavorano e transitano nell’area ripresa. Nonostante ciò, la Società ha dichiarato “che non c’è alcun accordo sindacale in quanto non ci sono rappresentanze in azienda né l’autorizzazione preventiva della Direzione Territoriale del Lavoro circa l’installazione e l’utilizzo della telecamera” (v. verbale di operazioni compiute 21.6.2021). È stato altresì verificato che il sistema può captare anche i suoni, oltre alle immagini, e consente la registrazione di quanto ripreso. Attraverso l’applicativo è infatti possibile “ammonire verbalmente, attraverso lo speaker della telecamera”. È stato inoltre accertato che l’accesso al sistema di videosorveglianza è consentito a quattro account, dei quali uno risulta intestato alla moglie del rappresentante legale della società, uno al rappresentante legale della Società e due ai figli di quest’ultimo. Non sono stati riscontrati cartelli contenenti la c.d. informativa breve nei pressi del raggio di azione della telecamera citata, né risulta essere stata fornita ai lavoratori un’informativa completa. La Società, in proposito, ha dichiarato di avere fornito oralmente un’informativa sul trattamento dei dati mediante il sistema di videosorveglianza, senza essere tuttavia in grado di comprovare questa affermazione. Ciò risulta in contrasto con quanto prescritto dall’art. 114 del Codice (che richiama l’art. 4 della L. 20.5.1970, n. 300 che disciplina i c.d. controlli a distanza), considerato che, nel caso di installazione di un impianto di videosorveglianza dal quale derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, è necessario il rispetto della specifica procedura descritta normativamente volta ad ottenere, in caso di assenza di rappresentanze sindacali aziendali, il rilascio di una apposita autorizzazione da parte dell’Ispettorato del lavoro. Tale disciplina lavoristica costituisce una delle norme del diritto nazionale “più specifiche per assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti di lavoro” individuate dall’art. 88 del Regolamento. La condotta tenuta dalla Società configura pertanto la violazione del principio di liceità del trattamento (art. 5, par. 1, lett. a) del Regolamento in relazione all’art. 114 del Codice) e dell’art. 88 del Regolamento quanto alla disciplina applicabile in materia. Il non avere, inoltre, rispettato l’obbligo di fornire un’adeguata informativa agli interessati in merito al trattamento effettuato attraverso l’impianto di videosorveglianza costituisce violazione di quanto disposto dall’art. 13 del Regolamento: in base a tale norma il titolare è tenuto a fornire preventivamente all’interessato tutte le informazioni relative alle caratteristiche essenziali del trattamento. Nell’ambito del rapporto di lavoro l’obbligo di informare il dipendente è altresì espressione del dovere di correttezza ex art. 5, par. 1, lett. a) del Regolamento. Con riferimento al nuovo cartello informativo di cui è stata inviata la relativa documentazione fotografica con gli scritti difensivi del 23.12.2021, si osserva quanto segue. Considerato che sul predetto cartello viene precisato che “la telecamera risulta sempre spenta – non verranno effettuate registrazioni durante l’orario di lavoro”, “sarà attivata per visione dei luoghi nel caso di allarme per tentativo di furto” (all. 1 scritti difensivi del 23.12.2021), si osserva come, quanto nello stesso dichiarato, non risulti supportato da evidenze in merito alla effettiva limitazione della funzionalità del sistema di videosorveglianza esclusivamente in orario non lavorativo, né da evidenze relative alle modalità specifiche attraverso le quali l’attivazione della stessa avvenga solo in occasione di un tentativo di furto. 4. Conclusioni: dichiarazione di illiceità del trattamento. Provvedimenti correttivi ex art. 58, par. 2, Regolamento. Per i suesposti motivi l’Autorità ritiene che le dichiarazioni, la documentazione e le ricostruzioni fornite dal titolare del trattamento nel corso dell’istruttoria non consentono di superare i rilievi notificati dall’Ufficio con l’atto di avvio del procedimento e risultano pertanto inidonee a consentire l’archiviazione del presente procedimento, non ricorrendo peraltro alcuno dei casi previsti dall’art. 11 del Regolamento del Garante n. 1/2019. Il trattamento dei dati personali effettuato dalla Società e segnatamente il trattamento dei dati biometrici, di quelli relativi alla posizione geografica, nonché dei dati dei dipendenti attraverso il sistema di videosorveglianza risulta infatti illecito, nei termini su esposti, in relazione agli artt. 114 del Codice, 5, par. 1, lett. a), c), 9, 13 e 88 del Regolamento. La violazione, accertata nei termini di cui in motivazione, non può essere considerata “minore”, tenuto conto della natura, della gravità e della durata della violazione stessa, del grado di responsabilità e della maniera in cui l’autorità di controllo ha preso conoscenza della violazione (cons. 148 del Regolamento). Pertanto, visti i poteri correttivi attribuiti dall’art. 58, par. 2 del Regolamento, alla luce del caso concreto: – per quanto riguarda il sistema di videosorveglianza: si dispone il divieto del trattamento effettuato mediante il sistema di videosorveglianza (art. 58, par. 2, lett. f), Regolamento); – per quanto riguarda il sistema di rilevamento della posizione geografica del lavoratore: si dispone il divieto di monitoraggio continuo della posizione del lavoratore (art. 58, par. 2, lett. f), Regolamento); – si dispone l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 83 del Regolamento, commisurata alle circostanze del caso concreto (art. 58, par. 2, lett. i) Regolamento). Resta fermo che laddove la Società ritenesse di installare un sistema di videosorveglianza, per scopi di tutela del patrimonio e di sicurezza anche dei lavoratori, dovrà conformarsi alle procedure di garanzia previste dall’art. 4 l. n. 300 del 1970, richiamato dall’art. 114 del Codice, prima dell’attivazione del sistema nonché configurare il sistema di videosorveglianza in modo da consentire l’accesso allo stesso, solo a soggetti autorizzati, escludendo la funzione di captazione dell’audio, a meno che non vi siano specifiche ragioni particolari, adeguatamente documentate; ciò avendo cura di posizionare le telecamere in modo da minimizzare l’inquadramento del lavoratore addetto alla reception; qualora si proceda all’attivazione di un sistema di videosorveglianza, la Società dovrà anche adeguare l’informativa. Resta inoltre fermo che laddove la Società ritenesse di utilizzare un sistema di rilevazione della posizione geografica del lavoratore per finalità organizzative e produttive, dovrà conformarsi alle procedure di garanzia previste dall’art. 4 l. n. 300 del 1970, richiamato dall’art. 114 del Codice, prima dell’attivazione del sistema; qualora si proceda all’attivazione di un sistema di rilevamento della posizione geografica del lavoratore, la Società dovrà conformare al Regolamento i propri trattamenti con riferimento alla corretta predisposizione dei documenti contenenti l’informativa. 5. Adozione dell’ordinanza ingiunzione per l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria e delle sanzioni accessorie (artt. 58, par. 2, lett. i), e 83 del Regolamento; art. 166, comma 7, del Codice). All’esito del procedimento, risulta accertato che Ew Business Machines S.p.A. ha violato gli artt. artt. 114 del Codice, 5, par. 1, lett. a), c), 9, 13 e 88 del Regolamento. Per la violazione delle predette disposizioni è prevista l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 83, par. 5, lett. a), b), d) del Regolamento, mediante adozione di un’ordinanza ingiunzione (art. 18, l. 24.11.1981, n. 689). Ritenuto di dover applicare il paragrafo 3 dell’art. 83 del Regolamento laddove prevede che “Se, in relazione allo stesso trattamento o a trattamenti collegati, un titolare del trattamento […] viola, con dolo o colpa, varie disposizioni del presente regolamento, l’importo totale della sanzione amministrativa pecuniaria non supera l’importo specificato per la violazione più grave”, l’importo totale della sanzione è calcolato in modo da non superare il massimo edittale previsto dal medesimo art. 83, par. 5. Con riferimento agli elementi elencati dall’art. 83, par. 2 del Regolamento ai fini della applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria e la relativa quantificazione, tenuto conto che la sanzione deve “in ogni caso [essere] effettiva, proporzionata e dissuasiva” (art. 83, par. 1 del Regolamento), si rappresenta che, nel caso di specie, sono state considerate le seguenti circostanze: a) in relazione alla natura, gravità e durata della violazione, è stata considerata rilevante la natura della violazione che ha riguardato i principi generali del trattamento; le violazioni hanno riguardato anche la disciplina di settore in materia di controlli a distanza nonché il trattamento di dati appartenenti a categorie particolari di dati; b) con riferimento al carattere doloso o colposo della violazione e al grado di responsabilità del titolare, è stata presa in considerazione la condotta della Società e il grado di responsabilità della stessa che non si è conformata alla disciplina in materia di protezione dei dati, relativamente a una pluralità di disposizioni riguardanti anche i principi generali del trattamento nonché la disciplina di settore in materia di controlli a distanza; c) a favore della Società si è tenuto conto della cooperazione con l’Autorità di controllo e della assenza di precedenti violazioni pertinenti. Si ritiene inoltre che assumano rilevanza nel caso di specie, tenuto conto dei richiamati principi di effettività, proporzionalità e dissuasività ai quali l’Autorità deve attenersi nella determinazione dell’ammontare della sanzione (art. 83, par. 1, del Regolamento), in primo luogo le condizioni economiche del contravventore, determinate in base ai ricavi conseguiti dalla Società con riferimento al bilancio abbreviato d’esercizio per l’anno 2021. Da ultimo si tiene conto dell’entità delle sanzioni irrogate in casi analoghi. Alla luce degli elementi sopra indicati e delle valutazioni effettuate, si ritiene, nel caso di specie, di applicare nei confronti di Ew Business Machines S.p.A. la sanzione amministrativa del pagamento di una somma pari ad euro 20.000 (ventimila). In tale quadro si ritiene, altresì, in considerazione della tipologia delle violazioni accertate che hanno riguardato i principi generali del trattamento, la disciplina di settore in materia di controlli a distanza nonché il trattamento di dati appartenenti a categorie particolari di dati, che ai sensi dell’art. 166, comma 7, del Codice e dell’art. 16, comma 1, del Regolamento del Garante n. 1/2019, si debba procedere alla pubblicazione del presente provvedimento sul sito Internet del Garante. Si ritiene, altresì, che ricorrano i presupposti di cui all’art. 17 del Regolamento n. 1/2019.

TUTTO CIO’ PREMESSO

IL GARANTE rileva l’illiceità del trattamento effettuato da Ew Business Machines S.p.A., in persona del legale rappresentante, con sede legale in Viale Andrea Doria, n. 17 (MI), C.F. 06172060961, ai sensi dell’art. 143 del Codice, per la violazione degli artt. 114 del Codice, 5, par. 1, lett. a), c), 9, 13 e 88 del Regolamento;

DETERMINA di archiviare ai sensi dell’art. 11 comma 1 lett. b) del regolamento interno n. 1 del 2019 la contestazione adottata nei confronti di Ew Business Machines S.p.A., in persona del legale rappresentante, con atto del 29 novembre 2021, limitatamente alla violazione dell’art. 6 del Regolamento;

DISPONE ai sensi dell’art. 58, par. 2, lett. f) del Regolamento, a Ew Business Machines S.p.A. il divieto del trattamento effettuato mediante il sistema di videosorveglianza nonché il divieto di monitoraggio continuo della posizione del lavoratore nei termini indicati in motivazione;

INGIUNGE a Ew Business Machines S.p.A. dipagare la somma di euro 20.000 (ventimila), secondo le modalità indicate in allegato, entro 30 giorni dalla notifica del presente provvedimento, pena l’adozione dei conseguenti atti esecutivi a norma dell’art. 27 della legge n. 689/1981. Si ricorda che resta salva la facoltà per il trasgressore di definire la controversia mediante il pagamento – sempre secondo le modalità indicate in allegato – di un importo pari alla metà della sanzione irrogata, entro il termine di cui all’art. 10, comma 3, del d. lgs. n. 150 dell’1.9.2011 previsto per la proposizione del ricorso come sotto indicato (art. 166, comma 8, del Codice);

ORDINA ai sensi dell’art. 58, par. 2, lett. i) del Regolamento a Ew Business Machines S.p.A. di pagare la predetta somma di euro 20.000 (ventimila) a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria per le violazioni indicate nel presente provvedimento;

DISPONE la pubblicazione del presente provvedimento sul sito web del Garante ai sensi dell’art. 166, comma 7, del Codice e dell’art. 16, comma 1, del Regolamento del Garante n. 1/20129, e ritiene che ricorrano i presupposti di cui all’art. 17 del Regolamento n. 1/2019. Richiede a Ew Business Machines S.p.A. di comunicare quali iniziative siano state intraprese al fine di dare attuazione a quanto disposto con il presente provvedimento e di fornire comunque riscontro adeguatamente documentato ai sensi dell’art. 157 del Codice, entro il termine di 90 giorni dalla data di notifica del presente provvedimento; l’eventuale mancato riscontro può comportare l’applicazione della sanzione amministrativa prevista dall’art. 83, par. 5, lett. e) del Regolamento.

Ai sensi dell’art. 78 del Regolamento, nonché degli articoli 152 del Codice e 10 del d.lgs. n. 150/2011, avverso il presente provvedimento può essere proposta opposizione all’autorità giudiziaria ordinaria, con ricorso depositato al tribunale ordinario del luogo individuato nel medesimo art. 10, entro il termine di trenta giorni dalla data di comunicazione del provvedimento stesso, ovvero di sessanta giorni se il ricorrente risiede all’estero. Roma, 1° giugno 2023

IL PRESIDENTE Stanzione

IL RELATORE Cerrina Feroni

IL SEGRETARIO GENERALE Mattei

 

SENTENZA – RIDERS, ammessa l’azione per condotta antisindacale.

Articolo 28 condotta antisindacale, applicabilità anche in assenza di subordinazione. Articolo 2 comma 1 DLGS 81/2015.

Tribunale Palermo, Sez. lavoro, Sent., 03/04/2023, n. 14491

La pronuncia che si annota pare rilevante in quanto ammette l’azione per condotta antisindacale ex articolo 28 legge 300/70 nell’ambito di un rapporto di lavoro che, anziché presentare i tratti della subordinazione, pare rientrare nella fattispecie di cui all’art. 2 comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2015 a tenore del quale “A far data dal 1gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione, sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.”.

Ritiene il Tribunale di Palermo come il lavoro dei cosiddetti Riders, ben possa inserirsi in detta fattispecie legale, cui per legge vanno applicate le tutele previste per i lavoratori subordinati.

Ha sostenuto il Tribunale come, analizzando il meccanismo di funzionamento dell’app che gestisce le prestazioni lavorative dei riders è emerso come il modello organizzativo fosse standardizzato per tutte le società interessate e corrispondente a quello tutelato dall’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2015, che prevede, appunto, le tutele del lavoro subordinato.

Giova quindi rilevare, ha sottolineato la sentenza in esame, come la giurisprudenza di merito, concordando pressoché costantemente sull’inquadramento della prestazione resa dai riders nell’alveo dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81 del 2015, abbia ritenuto applicabile l’art. 28 L. n. 300 del 1970 a fattispecie analoghe a quella in esame (Trib. Bologna 2021 n. 2170, Trib. Milano 28.3.2021, Trib. Bologna 12.1.2023).

Le considerazioni espresse non si basano soltanto sull’equiparazione legale del trattamento della prestazione resa da questa specifica categoria di lavoratori al lavoro subordinato, ma anche su argomenti maggiormente complessi.

Sostiene il giudice del lavoro palermitano come al  riguardo devono richiamarsi, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att., le argomentazioni espresse dal Tribunale di Milano nel decreto n. 889/2021 secondo cui “la norma, invero, parla di “datore di lavoro”, figura che, certamente non si rinviene nell’ambito di un rapporto in cui il lavoratore è un prestatore d’opera occasionale e non un lavoratore subordinato.

Ciò posto, si potrebbe obbiettare che, mentre l’art. 414 c.p.c. non riserva la propria operatività a determinate ipotesi soggettive, la lettera dell’art. 28 St. Lav., invece, pare delimitare la sua sfera di applicazione alle condotte antisindacali poste in essere da un datore di lavoro, quindi, nell’ambito di una subordinazione.

Aggiunge la sentenza di cui in epigrafe come occorra, tuttavia, considerare che la disposizione si colloca in un momento temporale e storico non recente e che, dal 1970, vi sono stati numerosi interventi legislativi, da ultimo l’art. 2D.Lgs. n. 81 del 2015. (…) La disposizione si colloca all’interno di una serie di interventi legislativi (decreti attuativi del JOB Act) con i quali si è inteso prendere consapevolezza delle numerose innovazioni, anche di carattere tecnologico che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato il mondo del lavoro introducendo figure di lavoratori prima sconosciuti e forme di rapporti diversi da quelli tradizionali.

In questo stesso senso, anche il Tribunale di Firenze ha affermato: “È principio giurisprudenziale acquisito quello secondo cui l’art. 2 comma 1 del D.Lgs. n. 81 del 2015 ha riconosciuto alle collaborazioni organizzate dal committente ‘una protezione equivalente’ a quella dei lavoratori subordinati con ‘applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato’ (cfr. Cass. Sez. L -, Sentenza n. 1663 del 24/01/2020), nella quale sono compresi i diritti affermati nello Statuto dei lavoratori.

Va in tema di fattorini che eseguono le consegne a domicilio, citata Cassazione Sezione Lavoro 24.1.2020 n.1663 ha ritenuto che ai fattorini che effettuano consegna dei pasti a domicilio a seguito di un contratto di collaborazione stipulato con un’impresa che ne gestisce il rapporto attraverso una piattaforma digitale può trovare applicazione l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015, laddove l’eterorganizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente. L’art. 2 rappresenta infatti non un tertium genus compreso tra subordinazione e autonomia, ma una norma di disciplina volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato.

La stessa sentenza ha inoltre chiarito come ai rapporti di collaborazione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, in un’ottica sia di prevenzione sia “rimediale”, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato quando la prestazione del collaboratore sia esclusivamente personale, venga svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi ed al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente, senza che il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta sia tenuto a compiere ulteriori indagini, né possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento dal giudizio qualificatorio di sintesi.

La sentenza è seguita da un’interessante nota di Giuseppe Antonio Recchia, Il Lavoro nella giurisprudenza n.3, 1 marzo 2020, p.239.

SENTENZA – RIDERS, Articolo 28 condotta antisindacale, applicabilità anche in assenza di subordinazione.

Articolo 2 comma 1 DLGS 81/2015.

Tribunale Palermo, Sez. lavoro, Sent., 03/04/2023, n. 14491

La pronuncia che si annota pare rilevante in quanto ammette l’azione per condotta antisindacale ex articolo 28 legge 300/70 nell’ambito di un rapporto di lavoro che, anziché presentare i tratti della subordinazione, pare rientrare nella fattispecie di cui all’art. 2 comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2015 a tenore del quale “A far data dal 1gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione, sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.”.

Ritiene il Tribunale di Palermo come il lavoro dei cosiddetti Riders, ben possa inserirsi in detta fattispecie legale, cui per legge vanno applicate le tutele previste per i lavoratori subordinati.

Ha sostenuto il Tribunale come, analizzando il meccanismo di funzionamento dell’app che gestisce le prestazioni lavorative dei riders è emerso come il modello organizzativo fosse standardizzato per tutte le società interessate e corrispondente a quello tutelato dall’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 2015, che prevede, appunto, le tutele del lavoro subordinato.

Giova quindi rilevare, ha sottolineato la sentenza in esame, come la giurisprudenza di merito, concordando pressoché costantemente sull’inquadramento della prestazione resa dai riders nell’alveo dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81 del 2015, abbia ritenuto applicabile l’art. 28 L. n. 300 del 1970 a fattispecie analoghe a quella in esame (Trib. Bologna 2021 n. 2170, Trib. Milano 28.3.2021, Trib. Bologna 12.1.2023).

Le considerazioni espresse non si basano soltanto sull’equiparazione legale del trattamento della prestazione resa da questa specifica categoria di lavoratori al lavoro subordinato, ma anche su argomenti maggiormente complessi.

Sostiene il giudice del lavoro palermitano come al  riguardo devono richiamarsi, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att., le argomentazioni espresse dal Tribunale di Milano nel decreto n. 889/2021 secondo cui “la norma, invero, parla di “datore di lavoro”, figura che, certamente non si rinviene nell’ambito di un rapporto in cui il lavoratore è un prestatore d’opera occasionale e non un lavoratore subordinato.

Ciò posto, si potrebbe obbiettare che, mentre l’art. 414 c.p.c. non riserva la propria operatività a determinate ipotesi soggettive, la lettera dell’art. 28 St. Lav., invece, pare delimitare la sua sfera di applicazione alle condotte antisindacali poste in essere da un datore di lavoro, quindi, nell’ambito di una subordinazione.

Aggiunge la sentenza di cui in epigrafe come occorra, tuttavia, considerare che la disposizione si colloca in un momento temporale e storico non recente e che, dal 1970, vi sono stati numerosi interventi legislativi, da ultimo l’art. 2D.Lgs. n. 81 del 2015. (…) La disposizione si colloca all’interno di una serie di interventi legislativi (decreti attuativi del JOB Act) con i quali si è inteso prendere consapevolezza delle numerose innovazioni, anche di carattere tecnologico che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato il mondo del lavoro introducendo figure di lavoratori prima sconosciuti e forme di rapporti diversi da quelli tradizionali.

In questo stesso senso, anche il Tribunale di Firenze ha affermato: “È principio giurisprudenziale acquisito quello secondo cui l’art. 2 comma 1 del D.Lgs. n. 81 del 2015 ha riconosciuto alle collaborazioni organizzate dal committente ‘una protezione equivalente’ a quella dei lavoratori subordinati con ‘applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato’ (cfr. Cass. Sez. L -, Sentenza n. 1663 del 24/01/2020), nella quale sono compresi i diritti affermati nello Statuto dei lavoratori.

Va in tema di fattorini che eseguono le consegne a domicilio, citata Cassazione Sezione Lavoro 24.1.2020 n.1663 ha ritenuto che ai fattorini che effettuano consegna dei pasti a domicilio a seguito di un contratto di collaborazione stipulato con un’impresa che ne gestisce il rapporto attraverso una piattaforma digitale può trovare applicazione l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015, laddove l’eterorganizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente. L’art. 2 rappresenta infatti non un tertium genus compreso tra subordinazione e autonomia, ma una norma di disciplina volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato.

La stessa sentenza ha inoltre chiarito come ai rapporti di collaborazione di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, in un’ottica sia di prevenzione sia “rimediale”, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato quando la prestazione del collaboratore sia esclusivamente personale, venga svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi ed al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente, senza che il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta sia tenuto a compiere ulteriori indagini, né possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento dal giudizio qualificatorio di sintesi.

La sentenza è seguita da un’interessante nota di Giuseppe Antonio Recchia, Il Lavoro nella giurisprudenza n.3, 1 marzo 2020, p.239.

Fabio Petracci

CASSAZIONE – Infortunio sul lavoro. Omissione di soccorso per mancato tempestivo intervento del datore di lavoro.

Commette omissione di soccorso il datore di lavoro che, verificatosi un infortunio di una certa gravità, non provvede tempestivamente al trasporto in ospedale dell’infortunato.

La Corte di Cassazione Sezione Penale conferma la pena inflitta ad un datore di lavoro che aveva omesso di prestare soccorso all’infortunato che aveva subito nell’ambito del cantiere un grave incidente.

Da quanto si desume dalla sentenza in esame, il datore di lavoro incriminato e condannato si era limitato a dare notizia dell’infortunio al committente.

In tal modo, l’infortunato rimaneva in attesa per oltre quaranta minuti prima di essere trasportato all’ospedale.

Secondo la Corte d’Appello che aveva emesso la condanna poi confermata dalla Corte di Cassazione,  le modalità dell’infortunio e l’evidente sofferenza dell’infortunato, avrebbero dovuto consigliare il datore di lavoro ad attivarsi per l’immediato soccorso, realizzandosi così la fattispecie penale di cui all’articolo 593, comma 2 del codice penale.

Fabio Petracci

Di seguito la sentenza della Corte di Cassazione.

 

Cassazione Sezione Penale sentenza n.47322 del 14.12.2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZAZA Carlo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere –

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 23/03/2021 della CORTE APPELLO di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALFREDO GUARDIANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore OLGA MIGNOLO che ha concluso chiedendo.

udito il difensore.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Torino riformava parzialmente in favore dell’imputato, limitatamente alla dosimetria della pena, la sentenza con cui il tribunale di Cuneo, in data 7.1.2019, aveva condannato A.A. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato ex art. 593, comma 2, c.p., in rubrica ascrittog li.

In particolare al A.A. viene addebitato, in concorso con B.B., di avere omesso di prestare la necessaria assistenza alla persona offesa C.C., dipendente della ditta individuale del B.B., con la qualifica di muratore, vittima di un grave incidente nel cantiere allestito presso la sede della ditta committente dei lavori, il “Caseificio A.A. Srl “, di cui il ricorrente era il legale rappresentante, e di dare immediato avviso alla competente autorità di quanto era accaduto.

Il C.C., infatti, mentre era intento con altri lavoratori a sostituire il manto di copertura di un fabbricato, posto a circa 2,9 metri di altezza, era caduto nel locale sottostante, attraverso una botola non adeguatamente protetta o segnalata, riportando le lesioni personali gravi indicate nel capo n. 3) dell’imputazione.

Secondo l’impianto accusatorio, fatto proprio dai giudici di merito, il A.A., invece di prestare immediato soccorso al lavoratore infortunato, aveva informato innanzitutto il B.B., assente dal cantiere nel momento del verificarsi del sinistro, attendendo per circa quaranta minuti l’arrivo di quest’ultimo, senza allertare le autorità sanitarie, limitandosi a caricare il C.C. sul furgone della ditta, con cui, poi l’infortunato, una volta giunto in loco il B.B., sarebbe stato accompagnato presso l’ospedale di (Omissis).

Ad avviso della corte territoriale, le modalità della caduta, tenuto conto dell’altezza di circa tre metri da cui la vittima era precipitata, e l’evidente sofferenza della persona offesa, che, quando il A.A. era intervenuto, si trovava ancora per terra, sia pure appoggiato a un muro, attorniato dagli altri operai, “erano palesemente tali da destare preoccupazione e giustificare da parte del A.A. la richiesta di immediato soccorso da parte delle Autorità Sanitarie o, al più, l’effettuazione di un immediato trasporto al vicino nosocomio, senza indugiare nell’attesa del datore di lavoro” (cfr. pp.11-13 della sentenza oggetto di ricorso).

  1. Avverso la sentenza della corte di appello, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando 1) vizio di motivazione, in quanto, premesso che il reato di cui all’art. 593, c.p., non si configura come un reato proprio, la corte territoriale ha omesso di indicare le ragioni, per cui, accertata la presenza di una serie di soggetti diversi dal A.A. nel momento del verificarsi dell’incidente di cui fu vittima la persona offesa, solo quest’ultimo sia stato ritenuto, in qualità di committente dei lavori, l’unico responsabile del dovere di prestare assistenza, la cui violazione integra il reato di cui all’art. 593, c.p.; 2) manifesta illogicità della motivazione, in quanto la corte territoriale ha desunto la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui si discute, che si atteggia in termini di dolo, secondo un ragionamento deduttivo, incentrato sulla natura delle lesioni, emersa solo ex post, grazie all’accertamento operato dal consulente tecnico del pubblico ministero, tipico della ricostruzione dell’elemento soggettivo nei reati colposi, omettendo di considerare che risponde dell’omissione solo chi voglia non compiere un’azione che sa di dover compiere.
  2. Con requisitoria scritta del 29.7.2022, depositata sulla base della previsione del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137art. 23, comma 8, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.

Con conclusioni scritte del 13.9.202, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia dell’imputato, avv. Giuseppe Sandri, insiste per l’accoglimento del ricorso.

  1. Il ricorso va dichiarato inammissibile.

4.1. Con particolare riferimento al primo motivo di ricorso non può non rilevarsene la manifesta infondatezza, posto che la presenza di più persone, diverse dall’imputato, quando si verificò il sinistro di cui si discute e nei momenti immediatamente successivi a esso, non esonera da responsabilità il A.A..

Come è noto l’art. 593, c.p., che disciplina la fattispecie di omissione di soccorso, recita testualmente: “Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a duemilacinquecento Euro.

Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata”.

Orbene, il reato di cui all’art. 593, c.p., sia nell’ipotesi di cui al comma 1, che in quella di cui al comma 2 (contestata al A.A.), non si configura come reato proprio, non richiedendo la fattispecie incriminatrice tra i suoi elementi costitutivi una particolare qualità personale del soggetto attivo, che può essere chiunque, anche se, come è stato fatto notare, posto che per la sussistenza del reato è necessario che sussista un contatto materiale, attraverso gli organi sensoriali, tra l’agente e la persona oggetto del ritrovamento (cfr. Sez. 5, n. 20480 del 15/03/2002, Rv. 221916), sarebbe opportuno qualificare il reato come proprio, in ragione del rapporto materiale che deve necessariamente legare l’autore con il soggetto passivo.

Proprio la particolare natura del reato di cui si discute, comporta che, in presenza di una persona in stato di presunto o accertato pericolo, l’obbligo di assistenza diretta o indiretta imposto dalla norma, in cui si concretizza, come sottolineato da autorevole dottrina, l’adempimento sul terreno penalistico dei doveri inderogabili di solidarietà sociale di cui all’art. 2, Cost., incombe su tutti coloro che entrano in contatto con il soggetto bisognoso di assistenza, indipendentemente dalla qualità dei soggetti obbligati.

Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità con orientamento risalente nel tempo, ma non formante oggetto di rivisitazione critica nel corso degli anni, in tema di omissione di soccorso, il termine “trovare” deve intendersi nel senso di “imbattersi”, “venire in presenza di”, e implica un contatto materiale diretto, attraverso gli organi sensoriali, con l’oggetto del ritrovamento. Non importa perciò la distanza fra l’agente e il soccorrendo, purchè essa sia tale che il primo possa percepire lo stato di pericolo in cui versa il secondo, cosi come pure è irrilevante la presenza in loco dell’agente prima che il pericolo sorga, non potendo escludersi l’obbligo del soccorso sol perchè il contatto sensoriale fra agente e soccorrendo si verifica non a causa di una condotta posta in essere dal primo ma a causa di una condotta dello stesso soccorrendo o di terzi (cfr. Sez. 5, n. 6339 del 31/01/1978, Rv. 139066).

Del pari da tempo la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come il reato di omissione di soccorso posto a carico di un soggetto, non può venir meno in caso di possibile intervento di terze persone (cfr. Sez. 6, n. 11148 del 04/03/1988, Rv. 179741).

In altri termini l’affermazione della responsabilità del A.A. trova la sua giustificazione nella violazione del dovere di assistenza previsto dall’art. 593, comma 2, c.p., che, pur in presenza di altre persone del pari astrattamente destinatarie del medesimo dovere, comunque incombeva su di lui, non in qualità di committente dei lavori o di datore di lavoro della persona offesa, ma di soggetto entrato in contatto diretto con la persona pericolante, vale a dire bisognosa di assistenza, dopo il verificarsi del sinistro, in ragione delle conseguenze riportate a causa della caduta da un’altezza di circa tre metri.

Tale dovere egli ha violato, quanto meno non avvisando immediatamente, cioè senza alcuna dilazione non indispensabile, le autorità sanitarie e di polizia (cfr. Sez. 5, n. 3397 del 14/12/2004, Rv. 231409) dell’incidente verificatosi presso la sede del suo caseificio, attendendo, piuttosto, l’arrivo del B.B., senza che ve ne fosse ragione ai fini del soccorso, per accompagnare il C.C. presso il nosocomio di (Omissis).

4.2. Manifestamente infondato e generico appare il secondo motivo di ricorso, con il quale, in definitiva, il ricorrente reitera acriticamente le doglianze rappresentate nell’atto di appello in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui di discute, che si atteggia in termini di dolo generico (integrato dalla consapevolezza della necessità del soccorso e dell’omissione: cfr. Sez. 5, n. 4003 del 14/12/1977, Rv. 138535, nonchè Sez. 5, n. 13310 del 14/02/2013, Rv. 254983), senza confrontarsi con la motivazione della sentenza della corte di appello.

Al riguardo si osserva come, secondo un condivisibile arresto della giurisprudenza di questa Corte, in tema di omissione di soccorso, lo stato di pericolo è elemento costitutivo delle diverse ipotesi di reato previste nel primo e comma 2 dell’art. 593, c.p., e in quest’ultima fattispecie – a differenza della prima nella quale il pericolo è “presunto” in presenza delle situazioni descritte – lo stato di pericolo deve essere accertato, in base agli elementi che caratterizzano il reato, con valutazione “ex ante” e non “ex post” (cfr. Sez. 4, n. 36608 del 19/09/2006, Rv. 235424).

Orbene la corte territoriale ha fatto buon governo di tale principio, evidenziando che proprio le modalità dell’incidente e la condizione di oggettiva sofferenza dell’infortunato immediatamente percepibili e percepite dall’imputato quando entrò in contatto diretto con il C.C., consentivano al ricorrente di avere piena consapevolezza dell’esistenza di una condizione di pericolo quanto meno per l’integrità fisica dell’infortunato, che richiedeva un soccorso immediato attraverso la subitanea allerta delle competenti autorità sanitarie, per cui l’omesso adempimento del dovere di soccorso correttamente è stato ritenuto frutto di una consapevole e volontaria scelta del A.A., sulle cui motivazioni, inoltre, la corte territoriale si sofferma specificamente (cfr. pp. 13-14).

In questa prospettiva gli esiti della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero sulla natura e gravità delle lesioni patite dalla persona offesa non integrano una valutazione “ex post” della situazione di pericolo, ma solo un ulteriore approfondimento degli esiti dell’incidente, foriero di un evidente pericolo per il C.C. già nel momento del suo verificarsi.

  1. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3000,00 a favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2022

Pubblica Amministrazione. I requisiti per gli incarichi esterni.

Il presente scritto riguarda la materia concernente l’affidamento di incarichi a liberi professionisti da parte di enti pubblici, al di fuori delle fattispecie dell’appalto e del lavoro dipendente.

Sarà quindi dato rilievo alla normativa fondamentale che disciplina il conferimento di incarichi da parte della pubblica amministrazione.

Esamineremo innanzitutto l’articolo 7 del DLGS 165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego) che pone le condizioni di legittimità perché una pubblica amministrazione possa instaurare con un soggetto un rapporto di lavoro autonomo.

Come potremo vedere l’articolo 7 è stato oggetto di numerosi interventi restrittivi per eliminare gli abusi ed i reali pericoli di alimentare il precariato.

Il concetto che in primo luogo se ne ricava anche a fissarne la differenziazione dal lavoro subordinato è che debba trattarsi effettivamente di una prestazione individuale i cui termini di prestazione non debbono essere organizzati dalla pubblica amministrazione.

Deve trattarsi inoltre di un estrema ed ultima risorsa per la pubblica amministrazione che normalmente dovrebbe prevedere la presenza delle risorse umane per ogni necessità.

Se almeno all’apparenza ricorrono questi elementi, sarà opportuno confrontarli con la normativa che segue, per un esame di ammissibilità.

  1. Il testo unico del pubblico impiego

L’articolo 7 del DLGS 165/2001 costituisce la base cui riferirsi allorquando deve trattarsi della disciplina del conferimento di incarichi professionali da parte delle pubbliche amministrazioni.

Normalmente l’attività della pubblica amministrazione è svolta per il tramite di lavoratori dipendenti sottoposti a peculiari forme di assunzione e di trattamento contemplate dal DLGS 165/2001 Testo Unico del Pubblico Impiego e contestualmente per gli enti locali dal DLGS 267/2000 Testo Unico dell’ordinamento degli enti locali.

Per incarichi professionali invece intendiamo delle prestazioni che si pongono al di fuori del lavoro dipendente in un contesto di autonomia che va dalle prestazioni coordinate continuative, al lavoro organizzato dal committente e quindi assimilato in quanto al trattamento giuridico al lavoro dipendente sino alle vere e proprie forme di lavoro autonomo e professionale, anche regolamentato dalle norme ordinistiche.

Nell’ultimo periodo, abbiamo assistito al varo di normative volte a diminuire la spesa pubblica e d’altro canto a ridurre in favore della tipologia della subordinazione le varie forme di lavoro para subordinato spesso al limite della legalità.

Da una parte, interveniva in funzione di razionalizzare la Pubblica Amministrazione e contenerne i costi, il decreto Madia DLGS 75/2017 e dall’altra a ridurre le diverse alternative al lavoro subordinato il  il Jobs Act Dlgs 81/2015.

Ne ha risentito anche la materia degli incarichi professionali, laddove l’articolo 7 imponeva restrizioni alla materia degli incarichi professionali esterni.

Quando i contratti di collaborazione con le pubbiche amministrazioni sono vietati.

Il Testo Unico del Pubblico Impiego, D. Lgs. n. 165/2001, all’art. 7, comma 5-bis, prevede il divieto – a far data dal 1 luglio 2019 – per le amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

Pertanto, da tale data non sono più utilizzabili nelle pubbliche amministrazioni i contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

I limitati casi di ammissibilità

Il successivo comma 6 dell’art. 7 prevede tuttavia che per specifiche esigenze cui non possano far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire esclusivamente incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo (artt. 2222 e ss. del codice civile), ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità:

“a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente;

  1. b) l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
  2. c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata;
  3. d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione; non è ammesso il rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell’incarico, oggetto e compenso della collaborazione.”

E’ possibile prescindere dal requisito della comprovata specializzazione universitaria, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore, nel caso di conferimento di incarichi per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell’arte, dello spettacolo dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro.

Ancora, l’eventuale ricorso ai contratti di lavoro autonomo (c.d. incarichi) per lo svolgimento di funzioni ordinarie dell’Amministrazione e l’eventuale utilizzo dei soggetti incaricati con modalità tali da costituire lavoro subordinato sono cause di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti.

In sostanza, lo scopo dell’attribuzione degli incarichi è quello di reperire all’esterno dell’organizzazione dell’Amministrazione risorse che permettano di soddisfare esigenze dell’Ente connotate da carattere temporaneo e per le quali è necessaria un’elevata professionalità, senza dover ricorrere ad assunzioni di personale di ruolo.

L’opportunità di creare un apposito regolamento

Infine, il comma 6-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 165/2001 prevede che le amministrazioni pubbliche debbano disciplinare e rendere pubbliche, secondo i propri ordinamenti, le procedure comparative per il conferimento degli incarichi.

Il divieto di instaurare CO.CO.CO come e da quando opera

Scatta così il divieto di instaurare nell’ambito del pubblico impiego le prestazioni coordinate e continuative.

Dopo alcune proroghe, dal 1 luglio 2019, gli enti pubblici non potranno più stipulare collaborazioni coordinate e continuative, l’ultima proroga era stata prevista dall’articolo 1, comma 131 della legge 145/2018.

In realtà, l’articolo 7 del DLGS 165/2001 al comma 5 bis fa divieto alle pubbliche amministrazioni di stipulare collaborazioni coordinate continuative o a progetto, ma qualsiasi forma di collaborazione non genuinamente autonoma e dove intervenga l’organizzazione della stessa da parte dell’ente anche in relazione al tempo ed al luogo di lavoro.

In sostanza l’ente pubblico può ricorrere a liberi professionisti, laddove le risorse interne non permettano di sopperire a talune esigenze istituzionali dell’ente medesimo.

Le sanzioni

Sanzioni sono previste per il mancato rispetto della norma.

In primo luogo, il contratto stipulato in violazione di legge dovrà considerarsi nullo e naturalmente il dipendente non potrà pretendere il riconoscimento della subordinazione e la stabilizzazione del rapporto. Di conseguenza esso verrà meno, il dipendente non sarà tenuto in forza dell’articolo 2126 del codice civile a restituire quanto percepito ed otterrà comunque se il periodo sarà riconosciuto come subordinato il pagamento dei contributi. Nel caso sia invece instaurato un rapporto di lavoro autonomo comunque in violazione dell’articolo 7 del DLGS 165/2001 ad esempio in quanto nell’ambito dell’ente sussistevano le professionalità necessarie, il professionista potrà agire per il risarcimento del danno ex articolo 2043 del codice civile. Le conseguenti spese andranno quindi a carico del dirigente che ha instaurato indebitamente il rapporto.

Altre sanzioni di natura aministrativa contabile e disciplinare attendono inoltre il dirigente che abbia operato in violazione dell’articolo 7 del DLGS 165/2001 .

I casi che legittimano l’instaurazione di contratti di lavoro autonomo – le ipotesi tassative

Ma quando allora le pubbliche amministrazioni possono ricorrere alle collaborazioni esterne, tenuto presente il divieto di instaurare collaborazioni continuative ed organizzate dall’ente datore di lavoro?

Le collaborazioni lecite debbono rispondere ai seguenti requisiti:

  • Il collaboratore esterno deve identificarsi in un esperto di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria e l’incarico deve essere in linea con la specializzazione del soggetto e corrispondere o servire all’oggetto delle competenze istituzionali dell’amministrazione;
  • L’amministrazione deve quindi aver preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare per lo scopo propri dipendenti;
  • La prestazione deve essere di natura temporanea;
  • Devono essere preventivamente determinati la durata l’oggetto ed i compensi.

Si fa presente che si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria per le prestazioni da effettuarsi da professionisti iscritti ad ordini o albi e per soggetti che operino nel campo dell’arte e dello spettacolo, per mestieri artigianali, per l’attività informatica  e per i servizi di orientamento e collocamento.

Ciò in concreto significa che ogni affidamento di incarico professionale nelle amministrazioni pubbliche andrà preceduto da uno delibera che evidenzi il sussistere di tutti i requisiti di liceità dell’affidamento.

Nella successiva lezione, evidenzieremo specificamente il ricorrere di tutte le condizioni di ammissibilità cui ora abbiamo fatto cenno.

  1. Il Codice degli Appalti

 Nel 2016 è entrato in vigore il D. Lgs. n. 50/2016, c.d. Codice degli Appalti o dei contratti pubblici, che disciplina i contratti di appalto e di concessione delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori aventi ad oggetto l’acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere, nonché i concorsi pubblici di progettazione.

Quivi, l’art. 17 precisa a quali appalti e concessioni di servizi non si applicano le disposizioni del Codice agli appalti ed alle concessioni di servizi, ovvero quelli:

“a) aventi ad oggetto l’acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni;

  1. b) aventi ad oggetto l’acquisto, lo sviluppo, la produzione o coproduzione di programmi destinati ai servizi di media audiovisivi o radiofonici che sono aggiudicati da fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici, ovvero gli appalti, anche nei settori speciali, e le concessioni concernenti il tempo di trasmissione o la fornitura di programmi aggiudicati ai fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici. Ai fini della presente disposizione il termine «materiale associato ai programmi» ha lo stesso significato di «programma»;
  2. c) concernenti i servizi d’arbitrato e di conciliazione;
  3. d) concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi legali:

1) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, e successive modificazioni:

1.1) in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato membro dell’Unione europea, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o conciliativa internazionale;

1.2) in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro dell’Unione europea o un Paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali;

2) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei procedimenti di cui al punto 1), o qualora vi sia un indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento, sempre che la consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, e successive modificazioni;

3) servizi di certificazione e autenticazione di documenti che devono essere prestati da notai;

4) servizi legali prestati da fiduciari o tutori designati o altri servizi legali i cui fornitori sono designati da un organo giurisdizionale dello Stato o sono designati per legge per svolgere specifici compiti sotto la vigilanza di detti organi giurisdizionali;

5) altri servizi legali che sono connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri;

  1. e) concernenti servizi finanziari relativi all’emissione, all’acquisto, alla vendita e al trasferimento di titoli o di altri strumenti finanziari ai sensi del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, servizi forniti da banche centrali e operazioni concluse con il Fondo europeo di stabilità finanziaria e il meccanismo europeo di stabilità;
  2. f) concernenti i prestiti, a prescindere dal fatto che siano correlati all’emissione, alla vendita, all’acquisto o al trasferimento di titoli o di altri strumenti finanziari;
  3. g) concernenti i contratti di lavoro;
  4. h) concernenti servizi di difesa civile, di protezione civile e di prevenzione contro i pericoli forniti da organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro identificati con i codici CPV 75250000-3, 75251000-0, 75251100-1, 75251110- 4, 75251120-7, 75252000-7, 75222000-8; 98113100-9 e 85143000-3 ad eccezione dei servizi di trasporto dei pazienti in ambulanza;
  5. i) concernenti i servizi di trasporto pubblico di passeggeri per ferrovia o metropolitana;
  6. l) concernenti servizi connessi a campagne politiche, identificati con i codici CPV 79341400-0, 92111230-3 e 92111240-6, se aggiudicati da un partito politico nel contesto di una campagna elettorale per gli appalti relativi ai settori ordinari e alle concessioni”.

Con specifico riferimento al settore dei servizi legali, sono state approvate dall’ANAC (Autorità Nazionale Anti Corruzione) le Linee Guida n. 12, con delibera n. 907 del 24/10/2018.

Quando l’affidamento di servizi legali deve essere trattato come appalto?

Nelle citate Linee Guida viene precisato che l’affidamento dei servizi legali costituisce appalto qualora la stazione appaltante affidi la gestione del contenzioso in modo continuativo o periodico al fornitore nell’unità di tempo considerata (di regola il triennio); il singolo incarico conferito ad hoc costituisce invece un contratto d’opera professionale, consistendo nella trattazione della singola controversia o questione, ed è sottoposto al regime di cui all’articolo 17 del D. Lgs. n. 50/2016 (contratti esclusi dall’applicazione del Codice degli Appalti).

Con riferimento ai contratti esclusi dall’applicazione delle disposizioni previste dal Codice degli Appalti, l’art. 4 del D. Lgs. n. 50/2016 precisa che l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture debba in ogni caso avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità e tutela dell’ambiente ed efficienza energetica.

La differenza tra appalto di servizi e contratto d’opera

Resta intesa, come rilevante la differenziazione tra appalto di servizi e contratto d’opera.

La Corte dei Conti Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia con deliberazione n.178 del 15 maggio 2014 in un parere reso ad un Comune della Provincia di Milano, delimita il confine tra la fattispecie dell’appalto di servizi e l’affidamento di un incarico professionale – contratto d’opera.

La Corte dei Conti, richiamando anche la sentenza n.2730/2012 del Consiglio di Stato ritiene che l’elemento qualificante dell’appalto di servizi sia dato dal fatto che l’affidatario di un appalto di servizi necessiti per l’espletamento dello stesso, di apprestare una specifica organizzazione finalizzata a soddisfare i bisogni dell’ente.

Conclude la Corte dei Conti che il codice dei contratti pubblici adotti una nozione più ampia di appalto di servizi, ma solo al fine di individuare l’applicabilità della disciplina di affidamento.

Rimane ferma però, a detta della Corte dei Conti, la nozione di appalto di servizi  così come delineata dal codice civile, che presuppone che la prestazione oggetto dell’obbligazione sia caratterizzata dalla sussistenza di una specifica organizzazione che possa garantire l’adempimento di una prestazione caratterizzata dalla complessità dell’oggetto e dalla predeterminazione della durata”.

In ogni caso, a prescindere da tali differenze la stipula di un contratto d’opera da parte della pubblica amministrazione, va preceduta dai seguenti requisiti:

  • l’affidamento dell’incarico deve essere preceduto da un accertamento reale sull’assenza di servizi o di professionalità, interne all’ente, in grado di adempiere l’incarico;
  • Va espletata una procedura di selezione comparativa, adeguatamente pubblicizzata, finalizzata ad assicurare alla P.A. la migliore offerta da un punto di vista qualitativo e quantitativo;
  • Deve essere acquisito il parere obbligatorio del Collegio dei revisori dell’ente ai sensi dell’art. 1, comma 42 della L. n. 311/2004;
  • Vanno  rispettati gli obblighi di comunicazione e pubblicità: il conferimento dell’incarico va comunicato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica ai sensi dell’articolo 53, comma 14, secondo periodo, del d.lgs. 165/2001 e ne deve essere curata la pubblicazione sul sito web ai sensi dall’art. 15, comma 2 del d.lgs. 33/2013.
  1. Le ultime novità dal punto di vista giurisprudenziale

La Corte dei Conti Sezione Campania, con la sentenza n.88/2018, ha ritenuto che l’Amministrazione, pur seguendo le procedure in materia di appalti, nel caso di specie avesse in realtà conferito un incarico individuale ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs. n. 165/2001.

Nello specifico, un tanto era affermato in quanto risultava evidente che nella fattispecie oggetto d’esame fosse prevalente il “carattere personale o intellettuale della prestazione” nella persona del professionista di riferimento, anziché quello imprenditoriale in cui assume rilievo, assieme al requisito della gestione a proprio rischio, la qualità di imprenditore commerciale (art. 2195 cod. civ.), ovvero l’organizzazione dei mezzi necessari.

Ne conseguiva che la dichiarazione ai fini fiscali di aver fornito “servizi di impresa” risultava del tutto irrilevante rispetto alla fattispecie lavorativa prestata e alle sue caratteristiche oggettive che doveva invece essere qualificata come affidamento di incarico di un contratto d’opera intellettuale (artt. 2222 e 2229 c.c.). Invero, anche la necessità di utilizzare, da parte di un professionista, mezzi compresi tra gli ordinari strumenti cognitivi ed operativi a disposizione di qualunque lavoratore del settore, non può essere sufficiente a far ritenere che il contratto debba essere inquadrato nell’appalto di servizi.

Quindi, la Corte dei Conti confermava che la fattispecie in esame rientrasse nell’ipotesi dei c.d. “servizi esclusi” del codice dei contratti pubblici, trovando applicazione in ogni caso i principi dettati dall’art. 4 del D. Lgs. n. 50/2016.

Quanto invece alla distinzione tra incarico legale ed appalto di servizi legali, già la Sentenza del Consiglio di Stato n. 2730/2012 aveva delineato che l’appalto costituisce qualcosa in più rispetto ad un singolo incarico di patrocinio legale: l’appalto è configurabile quando il servizio legale viene prestato per un determinato arco temporale ed in ragione di un predeterminato corrispettivo.

Ciò appare peraltro confermato dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 6 giugno 2019 (C264/2018). La Corte di Giustizia ha infatti ribadito che gli incarichi legali sono esclusi dalla normativa generale sugli appalti in quanto diversi da ogni altro contratto, perché le relative prestazioni possono essere rese solo in ragione di un ambito fiduciario tra l’avvocato ed il cliente, peraltro caratterizzato dalla massima riservatezza.

In ogni caso, ciascuna amministrazione ben può organizzare, se lo ritiene opportuno, una apposita procedura selettiva tesa a comparare tra loro più professionisti per individuare lo specifico professionista da incaricare.

In merito, anche con riferimento ai principi generali del codice dei contratti pubblici, l’ANAC ha suggerito – senza obbligo alcuno di conformazione – alle amministrazioni di predisporre degli “elenchi” di avvocati ai quali eventualmente attingere per affidare eventuali incarichi.

Ancora, la Corte dei Conti, sezione d’Appello, con sentenza n. 155/2019, ha riformato la sentenza di condanna in primo grado per alcuni dirigenti di un Ente per aver dato luogo a rapporti di collaborazione esterna con alcuni professionisti senza aver svolto un effettivo e concreto accertamento sul personale interno da eventualmente utilizzare per rendere il servizio oggetto di incarico esterno.

Le motivazioni degli appellanti sono state accolte in quanto è stato ritenuto che i dirigenti fossero esenti da responsabilità per mancanza della colpa grave, in considerazione non solo delle gravi carenze degli organici, ma soprattutto della tempestiva attivazione di concorsi pubblici per la dotazione delle professionalità richieste per l’Ente.

Da ultimo, risulta opportuno ricordare anche la recente sentenza n. 11410/2019 del TAR Lazio, relativa alla legittimità di un avviso pubblico del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che intendeva ricercare un supporto tecnico ad elevato contenuto specialistico di professionalità altamente qualificate per svolgere consulenze a titolo gratuito.

Il TAR ha valutato che, date le caratteristiche indicate dall’avviso – che riguardava una consulenza eventuale ed occasionale nell’arco temporale di due anni – la consulenza non poteva essere qualificata come contratto di lavoro autonomo, ex art. 7, commi 6 e 6 bis, del D. Lgs n. 165/2001 e che non si trattava neppure di servizio il cui affidamento sarebbe stato sottoposto alla disciplina del Codice degli Appalti, considerata l’assenza della previsione del numero ben definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché di una selezione per l’aggiudicazione.

Per tali ragioni, il carattere gratuito della consulenza è stato ritenuto legittimo, in quanto nel nostro ordinamento non si rinviene alcun divieto in tal senso.

Da ultimo, la legge delega 21.6.2022 n.78 in tema di contratti pubblici , esclude la gratuità degli stessi salvo motivate eccezioni.

Fabio Petracci

CASSAZIONE – Impugnazione dei contratti a termine in sequela.

Articolo 32 legge n.183/2010

Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., 23/09/2022, n. 27970

In tema di successione di contratti di lavoro a termine in somministrazione, l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa, poichè l’inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro (il quale potrà determinarsi solo ex post, a seguito dell’eventuale accertamento della illegittimità del termine apposto) comporta la necessaria conseguenza che a ciascuno dei predetti contratti si applichino le regole inerenti la loro impugnabilità” (Cass. n. 30134 del 2018Cass. n. 32702 del 2018Cass. n. 24356 del 2019Cass. n. 5037 del 2020; da ultimo, Cass. n. 11001 del 2021);

 

CASSAZIONE – Avvocato non iscritto alla Cassa Forense deve pagare la contribuzione alla Gestione Separata INPS.

Mancata compilazione denuncia parametri per contribuzione – non è occultamento doloso del debito – prescrizione decorrenza.

Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., 03/11/2022, n. 32424.

L’oggetto della controversia.

La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l’opposizione proposta da A.A., nel contraddittorio dell’I.N.P.S. e dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, avverso l’avviso di addebito con il quale era stato preteso dalla predetta il pagamento della contribuzione dovuta alla gestione separata, quale avvocato, per l’anno 2009.

Inoltre , la Corte territoriale riteneva sussistente il debito contributivo ed infondata l’eccezione di prescrizione, in quanto nel presentare la dichiarazione dei redditi la ricorrente aveva omesso di compilare il quadro riguardante i parametri rilevanti rispetto alla sua denuncia (c.d. quadro RR) e ciò comportava la sospensione del termine prescrizionale per occultamento doloso del debito.

Sintesi della decisione.

La Corte di Cassazione con la sentenza di cui in epigrafe ha ritenuto sussistere il debito previdenziale ritenendo che, gli avvocati iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie che, svolgendo attività libero professionale priva del carattere dell’abitualità, non hanno – secondo la disciplina vigente “ratione temporis“, antecedente l’introduzione dell’automatismo della iscrizione – l’obbligo di iscrizione alla Cassa Forense, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui alla L. n. 335 del 1995art. 2, comma 26, secondo cui l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale.

Precisa la Corte che “l’obbligo di iscrizione alla gestione separata è genericamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante dall’esercizio abituale (anche se non esclusivo) ma anche occasionale – in questo caso se siano superati i limiti di cui al D.L. n. 269 del 2003art. 44, comma 2, n.d.r. – di un’attività professionale per la quale è prevista l’iscrizione ad un albo”, se il corrispondente reddito non sia già oggetto di obbligo assicurativo presso la cassa di riferimento.

In merito alla mancata decorrenza della prescrizione a seguito del doloso occultamento del debito.

Precisa la Corte che, se è pur vero che la giurisprudenza di legittimità,  ha ritenuto che l’apprezzamento in ordine alla possibilità di ricondurre la mancata compilazione del quadro RR ad una fattispecie di doloso occultamento del debito non è avvenuto ad opera del giudice del merito.

Precisa la Corte che il dolo che impedisce il decorso della prescrizione non consiste nella sola intenzionalità di non dichiarare una situazione rilevante a fini contributivi, ma deve altresì essere tale da impedire al creditore di esercitare il proprio diritto, profilo che la Corte territoriale non ha in alcun modo indagato e che, tenuto conti dei poteri ispettivi degli enti previdenziali e dei profili di evidenza esterna, anche formale (iscrizione all’albo etc.) della professione forense, non possono certamente essere presunti.

CASSAZIONE Rapporto di lavoro extraistituzionale di dipendente part.time.

Corte di Cassazione 18 luglio 2022 n.22497.

Il DPR n.3 del 1957 all’articolo 60 stabiliva il principio dell’esclusività della prestazione lavorativa, stabilendo che L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, nè alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.

La ratio di tale divieto risiede nell’articolo 97 della Costituzione che vuole l’imparzialità della Pubblica Amministrazione e più specificamente dell’articolo 98 Costituzione che segue e stabilisce che i pubblici dipendenti sono al servizio esclusivo della nazione.

Di seguito il rapporto di pubblico impiego era sempre meno ispirato da principi autoritativi ed il rapporto di lavoro iniziava a collocarsi su di un piano contrattuale.

Quindi, il principio di esclusività era mitigato con il DLGS 165/2001 e già in precedenza con il DLGS n.29/2003 che consentivano al pubblico dipendente previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza di svolgere incarichi conferiti da altre amministrazioni o soggetti privati anche retribuiti, purchè non incompatibili.

In precedenza con l’entrata in vigore della legge 662/1996 l’articolo 1 ai commi 57 e 62 consentiva ai dipendenti pubblici, tranne il personale militare le Forze di Polizia ed i vigili de fuoco, di instaurare rapporti di lavoro a tempo parziale.

L’instaurazione del rapporto di lavoro a tempo parziale consente poi al dipendente pubblico l’instaurazione di un secondo rapporto di lavoro che l’amministrazione non ritenga incompatibile.

Stabilisce la norma appena citata che il secondo rapporto di lavoro non può intercorrere con altra amministrazione.

E’ previsto inoltre che i dipendenti degli enti locali possano svolgere prestazioni per conto di altri enti, previa autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza.

La sanzione è rappresentata dal comma 61 dell’articolo 1 che stabilisce come la violazione del divieto di cui al comma 60 e la mancata comunicazione di cui al comma 58 determinano la risoluzione del rapporto per giusta causa.

Nel caso di specie, però, ritiene la Corte di Cassazione, come l’articolo 53 comma 1 del DLGS non trovi applicazione all’articolo 1, comma 56 della legge 662/1996 che esclude l’applicazione della normativa concernente l’autorizzazione al secondo lavoro ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno”.

Ne deriva, secondo la pronuncia in esame della Corte di Cassazione che il regime dei “dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno” non è interessato dalla regolamentazione introdotta dal D.Lgs. n. 165 del 2001art. 53, comma 1, e, quindi, dal richiamo ivi contenuto alla L. 23 dicembre 1996, n. 662art. 1, commi 57 e ss.” (con l’unica eccezione di quanto stabilito dal comma 58-bis, su cui si tornerà in seguito).

Non a caso, ritiene la Cassazione, il DLGS. n. 165 del 2001art. 53, comma 6, stabilisce, per quel che qui interessa, che “I commi da 7 a 13 del predetto articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, compresi quelli di cui all’art. 3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.

Fabio Petracci.