Utilizzo improprio dei permessi di cui alla legge 104/92 e licenziamento

L’utilizzo improprio dei permessi di cui alla legge 104/92 può giustificare il licenziamento del lavoratore.

È legittimo l’utilizzo dell’opera di un’agenzia investigativa qualora finalizzato a confermare i sospetti di un uso fraudolento dei permessi. Conferma questo orientamento una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 12/03/2024, n. 6468).

Cosa accade e cosa può fare il datore di lavoro di fronte ad un utilizzo dei permessi di cui alla legge 104/92 non coerente con le finalità della legge?

La fattispecie.

L’articolo 33 della legge 104/1992 comma 3 e 3 bis così stabilisce:

  1.   Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno, rispetto alla quale il lavoratore sia coniuge, parte di un’unione civile ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge, parente o affine entro il secondo grado. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un’unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità. Fermo restando il limite complessivo di tre giorni, per l’assistenza allo stesso individuo con disabilità in situazione di gravità, il diritto può essere riconosciuto, su richiesta, a più soggetti tra quelli sopra elencati, che possono fruirne in via alternativa tra loro. Il lavoratore ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone con disabilità in situazione di gravità, a condizione che si tratti del coniuge o della parte di un’unione civile di cui all’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, o del convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.

3-bis.    Il lavoratore che usufruisce dei permessi di cui al comma 3 per assistere persona in situazione di handicap grave, residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a quello di residenza del lavoratore, attesta con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell’assistito”.

Quindi la legge 104/92 impone al datore di lavoro un sacrificio ed un limite alla propria attività ed alla naturale corrispettività del rapporto di lavoro, sacrificio finalizzato a ragioni di solidarietà sociale a favore del lavoratore chiamato ad assistere un proprio familiare gravemente invalido.

In sostanza, l’assenza dal lavoro e la mancata prestazione trovano ragione e giustificazione in base alla stretta attinenza con tale finalità.

Al di fuori di tali limiti, si concretizza una condotta del lavoratore idonea a determinate condizioni di gravità a giustificare il licenziamento.

L’ipotesi disciplinare.

L’orientamento della Corte di Cassazione e dei giudici di merito è quello di ravvisare l’ipotesi disciplinare del licenziamento, ogniqualvolta non sussista uno stretto nesso causale tra l’attività svolta dal lavoratore nel corso del permesso e le necessità dell’assistito.

Ciò significa in primo luogo che non sussiste il nesso causale allorquando il lavoratore utilizzi il permesso per riposarsi dall’attività di assistenza prestata. Non è pertanto consentito un riposo che potrebbe definirsi “compensativo” dell’assistenza prestata in altri momenti, Non sussiste inoltre in tutti i casi in cui il lavoratore utilizzi il tempo concessogli per finalità che alcuna attinenza hanno con l’opera di assistenza.

Sussiste invece, il nesso e la giustificazione laddove il dipendente risulti assente per effettuare compere o commissioni per conto dell’assistito.

Non sussiste l’ipotesi disciplinare allorquando il lavoratore si sia momentaneamente assentato per una necessità urgente ed imprevista.

L’ipotesi di utilizzo fraudolento dei permessi qualora grave per durata o intenzionalità o reiterazione, giustifica il licenziamento per giusta causa.

Minimi discostamenti tra tempo di assistenza e durata del permesso ove contenuti e non reiterati possono dar luogo a sanzioni disciplinari minori.

Si fa presente che anche la mancata comunicazione dell’avvenuto ricovero dell’assistito che in base all’articolo 33 fa venir meno il diritto all’assistenza può costituire mancanza disciplinare che nei casi più gravi può dar luogo anche al licenziamento.

Come procedere.

L’accertamento.

L’onere di provare l’utilizzo improprio dei permessi grava sul datore di lavoro.

Normalmente gli accertamenti è consigliabile siano affidati ad una agenzia investigativa.

Sul punto meritano attenzione alcune cautele.

Se l’agenzia investigativa non può verificare e controllare l’effettuazione della prestazione del dipendente, essa può invece indagare condotte truffaldine che arrechino pregiudizio all’azienda.

Quindi ben potrà l’agenzia investigativa verificare la presenza e l’attività del lavoratore in permesso per fornire l’assistenza di cui alla legge 104/92.

Si ritiene però da molte parti che l’attività investigativa sia comunque soggetta alla disciplina in materia di trattamento dei dati e quindi, secondo quanto disposto dall’articolo 4 n.1 e 2 del Regolamento 679/2016 – GDPR, l’investigatore potrà agire solo sulla base di concreti sospetti.

Si consiglia pertanto di dare atto di un tanto nella lettera con la quale viene conferito l’incarico all’agenzia investigativa sulla base di rilevati e concreti sospetti.

Alla fine della propria attività, l’investigatore dovrà redigere una relazione con i nominativi degli accertatori che potranno essere indicati in qualità di testi nell’eventuale procedimento di impugnazione del licenziamento.

La contestazione.

La procedura disciplinare di licenziamento è imperniata sulla lettera di contestazione che in apertura del procedimento deve essere inviata all’incolpato.

Si ricorda che per la validità del procedimento, la contestazione di addebito deve individuare in maniera chiara e specifica il fatto in merito al quale il lavoratore è chiamato a discolparsi.

Quindi dovranno essere indicate le giornate e l’ora di assenza dagli incombenti di cui alla legge 104/92 e preferibilmente anche le attività svolte in luogo della dovuta assistenza.

Molta attenzione dovrà essere posta alle giustificazioni poste dal lavoratore per verificare se siano idonee o meno a smentire l’esito degli accertamenti svolti.

Fabio Petracci

CASSAZIONE: Rapporto di lavoro ed invenzioni: azione di indebito arricchimento da parte di consulente nei confronti della Pubblica Amministrazione.

La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 7178/2024 interviene sul caso di un medico che aveva maturato negli Stati Uniti adeguata competenza nel campo dell’informatica medica e svolgeva una collaborazione con la ASL n.6 di Palermo.

Contestualmente ed al di fuori dell’oggetto della consulenza, egli aveva realizzato per la ASL medesima un programma denominato Sistema Informativo 2004 – 2005.

Egli peraltro non aveva ricevuto formale incarico alcuno dall’amministrazione che riteneva di non dovergli compenso alcuno non risultando incarico alcuno formalizzato.

Il consulente quindi conveniva in giudizio l’amministrazione ritenendo sussistente un indebito arricchimento della medesima.

La domanda era accolta dal Tribunale di Palermo, ma successivamente, la Corte d’Appello in riforma della sentenza del Tribunale, rigettava la domanda.

Avverso quest’ultima sentenza era interposto ricorso innanzi alla Corte di Cassazione.

La suprema Corte individua il tema della decisione nel fatto che secondo la ASL sarebbe stato pattuito con il consulente un surplus di orario che avrebbe compensato l’opera resa in ambito informatico definibile come un’invenzione aziendale resa da un prestatore autonomo.

Secondo invece il consulente, l’opera sarebbe stata resa a seguito del conferimento di un diverso e complesso incarico professionale.

Premette la Cassazione che i rapporti con la Pubblica Amministrazione richiedono, per la loro instaurazione, la forma scritta che nel caso di specie risulta assente.

Nel caso di specie, l’opera di carattere informatico doveva ritenersi incompatibile con l’attività di medico di guardia a fronte della quale risultava erogato lo straordinario.

La difesa della ASL è inoltre incentrata sul fatto che il consulente avrebbe dovuto agire in forza dell’articolo 64 del DLGS 30/2005 che tutela le invenzioni nell’ambito del rapporto di lavoro.

La Cassazione sul punto dubita che un software possa considerarsi brevettabile.

Ritiene inoltre che altre normative concorrenti a tutela delle opere dell’ingegno non siano applicabili al caso di specie in quanto non trattasi di lavoro dipendente e non è accertato che l’opera fosse brevettabile.

Essa pertanto ritiene come l’unica azione esperibile sia nel caso di specie quella per ingiustificato arricchimento, in quanto l’azione teoricamente esperibile per l’inadempimento contrattuale trovava il proprio limite nella mancanza di forma scritta da parte della pubblica amministrazione.

In tal senso, la Cassazione ha richiamato la sentenza delle Sezioni Unite della medesima Corte del 5 dicembre 2023 la quale ha affermato che “Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo”.

Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.

In tema di invenzioni nell’ambito del rapporto di lavoro si ricordano le disposizioni contenute nel codice civile e nelle leggi speciali.

Il primo accenno va all’articolo 2590 del codice civile laddove è stabilito che Il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro I diritti e gli obblighi delle parti relativi all’invenzione sono regolati da leggi speciali, il c.d. Codice della proprietà industriale (DLGS 30/2005).

La legge stabilisce inoltre che tale disposizione si applica a tutti i datori di lavoro sia privati che pubblici (vedasi articoli 64 – 65 del DLGS 30/2005).

Essa in base all’articolo 4 della legge 81/2017 trova applicazione anche al lavoro para – subordinato.

Le invenzioni debbono essere brevettabili.

Si distinguono per quanta riguarda le invenzioni da lavoro le invenzioni di servizio che costituiscono oggetto del contratto e conferiscono al datore di lavoro il diritto ad avvalersi dei benefici dell’invenzione stessa.

Per quanto riguarda invece le cosiddette invenzioni di azienda (invenzioni avvenute avvalendosi del ruolo e dell’attività aziendale, ma non oggetto di contratto) spetta al lavoratore un equo compenso, ma l’invenzione è acquisita dal datore di lavoro.

Le invenzioni cosiddette occasionali sono quelle realizzate in occasione del rapporto di lavoro, ma senza collegamento alcuno con l’attività lavorativa.

Al datore di lavoro è riconosciuto un diritto di opzione per l’uso esclusivo, con diritto per l’inventore di ottenere i diritti patrimoniali conseguenti allo sfruttamento economico dell’invenzione.

Fabio Petracci

Cassazione – Giustificato Motivo Oggettivo – Soppressione della posizione lavorativa – Obbligo di Repechage.

Incombe sul datore di lavoro, in quanto ormai facoltizzato a dequalificare il lavoratore nel caso di soppressione del posto di lavoro e delle mansioni svolte, di fornire la prova dell’impossibilità di procedere alla dequalificazione del medesimo allo scopo di mantenergli il posto di lavoro.

Il testo integrale della sentenza della Corte di Cassazione.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO LUCIA – Presidente

Dott. PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI – Consigliere

Dott. GARRI FABRIZIA – Consigliere

Dott. AMENDOLA FABRIZIO – Rel. Consigliere

Dott. CASO FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 12532-2020 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, Vi.Co. 2, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO AIELLO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGM S.R.L., già AGM S.A.S. di B.B. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA De.Tr. 8, presso lo studio degli avvocati MARCO MARAZZA, MAURIZIO MARAZZA, DOMENICO DE FEO, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 943/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/03/2020 R.G.N. 4181/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consigli del 29/11/2023 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA

Svolgimento del processo

RILEVATO CHE

  1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado resa all’esito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha respinto l’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato il 18 maggio 2016 a A.A. dalla AGM S.a.s. di B.B. & C.;
  2. la Corte, premesso che alla dipendente erano affidate le mansioni di centralinista e che gli ulteriori compiti alla stessa attribuiti rivestivano il carattere di residualità e di occasionalità, ha ritenuto che, “da un lato, l’introduzione del sistema automatico di risposta telefonica, sia stato posto legittimamente dalla società quale elemento organizzativo produttivo integrante l’ipotesi di motivo oggettivo del licenziamento intimato, posto che, all’evidenza l’attività di smistamento delle telefonate è divenuta per la società non più proficuamente utilizzabile e, dall’altro, che le mansioni residuali ben potessero essere redistribuite all’interno dell’Ufficio”;
  3. “quanto all’adempimento dell’obbligo del repechage”, la Corte ha affermato che, “se e vero che l’onere probatorio della impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni – anche diverse purchÈ© equivalenti a quelle precedentemente svolte – spetta al datore di lavoro, È anche vero che, trattandosi di prova negativa, la prova relativa non può che essere fornita mediante risultanze probatorie di natura presuntiva, come l’inesistenza all’epoca del recesso di vuoti di organico, in riferimento alle stesse mansioni o a quelle equivalenti, o la mancata assunzione successivamente al licenziamento e per un periodo congruo di altri dipendenti con la medesima qualifica”; ha aggiunto che incombe sul lavoratore “un onere di allegazione relativamente all’indicazione delle circostanze di fatto idonee a dimostrare, o a far presumere, l’esistenza, nell’ambito della struttura aziendale, di posti di lavoro in cui potrebbe essere utilmente adibito, ponendo in tal modo la parte datoriale nella condizione di poter dimostrare concretamente per quale motivo l’inserimento del lavoratore nelle posizioni lavorative evidenziate non era praticabile”; la Corte, quindi, sulla base degli elementi acquisiti al giudizio, ha ritenuto provata “la impossibilità di utilizzare l’attività lavorativa della Santi in altro settore con mansioni equivalenti”;
  4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con quattro motivi; ha resistito con controricorso la società;

entrambe le parti hanno comunicato memorie;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si È riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

Motivi della decisione

CONSIDERATO CHE

  1. il primo motivo di ricorso denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3della legge n. 604 del 1966(Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.). In ordine alla legittimità della scelta datoriale di perseguire un maggior profitto”; si critica l’orientamento di legittimità maturato a partire da Cass. n. 25201 del 2016;

il motivo non può trovare accoglimento; oltre al profilo di inammissibilità derivante dalla circostanza che la doglianza non si misura con l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, atteso che la Corte territoriale ha ritenuto giustificata la soppressione del posto di lavoro dovuta non ad una mera ricerca del profitto, bensì ad una modifica organizzativa scaturita da una innovazione tecnologica, la censura È comunque infondata alla luce di un oramai pluriennale orientamento di questa Corte, che va ribadito (tra le altre: Cass. n. 25201 del 2016Cass. n. 10699 del 2017Cass. n. 31158 del 2018Cass. n. 19302 del 2019Cass. n. 3908 del 2020Cass. n. 3819 del 2020Cass. n. 2234 del 2020Cass. n. 41586 del 2021Cass. n. 14840 del 2022Cass. n. 33892 del 2022; Cass. n. 37946 del 2022Nu Cass. n. 752 del 2023Cass. n. 1960 del 2023);

il Collegio non riscontra elementi per mutare il richiamato orientamento (cfr. art. 360 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.), atteso che, una volta che l’interpretazione della reguia iuris È stata enunciata con l’intervento nomofilattico della Corte regolatrice, essa “ha anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374 c.p.c.) e 2009 (art. 360 bis c.p.c., n. 1)” (Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011); invero, la ricorrente affermazione nel senso della non vincolatività del precedente deve essere armonizzata con l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale attraverso il ruolo svolto dalla Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014), atteso che, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, il quale influisce positivamente anche sulla riduzione del contenzioso, vi È l’esigenza, avvertita anche dalla dottrina, “dell’osservanza dei precedenti e nell’ammettere mutamenti giurisprudenziali di orientamenti consolidati solo se giustificati da gravi ragioni” (in termini: Cass. SS.UU. n. 11747 del 2019; conf. Cass. n. 2663 del 2022), nella specie non ravvisabili, tenuto altresì conto della primaria necessità di garantire – ai cittadini che si rivolgano al giudice per tutelare analoghe situazioni soggettive – delle condizioni di effettiva eguaglianza innanzi alla legge; ne consegue che, in mancanza di ragioni nuove e diverse da quelle disattese nei giudizi analoghi, deve operare il principio di fedeltà ai precedenti, come più volte ribadito da questa Corte sulla base delle considerazioni che precedono (cfr., tra innumerevoli, Cass. n. 14204 del 2023, in materia di interpretazione di contratti collettivi; Cass. n. 11938 del 2023, Cass. n. 9749 del 2023 e Cass. n. 6840 del 2023, in materia di prescrizione; Cass. n. 6668 del 2023 e Cass. n. 6653 del 2023, in materia di cd. “doppia retribuzione” conseguente a cessione di ramo d’azienda; Cass. n. 3868 del 2023, in materia di vittime del dovere; Cass. n. 22168 del 2022, in materia di decadenza ex art. 32, comma 4, lett. d) l. n. 183/2010Cass. n. 10729 del 2023, Cass. n. 35666 d 2021, Cass. n. 22249 del 2021, Cass. n. 18948 del 2021 e Cass. n. 7364 del 2021, in materia di art. 2112 c.c.; Cass. n. 21569 del 2019, in materia di indennità cd. “De Maria”; Cass. n. 6668 del 2019, in materia di somministrazione; Cass. n. 26671 del 2018, in materia di ammissione di crediti al passivo del fallimento);

  1. il secondo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3della legge n. 604 del 1966(Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) per la possibilità di utilizzo parziale della prestazione lavorativa della ricorrente con modalità part time”;

la doglianza non può essere condivisa; non È in discussione che, ai fini della configurabilità della ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante il giustificato motivo oggettivo di recesso, non È necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, nel senso della loro assoluta e definitiva eliminazione nell’ottica dei profili tecnici e degli scopi propri dell’azienda di appartenenza, atteso che le stesse ben possono essere soltanto diversamente ripartite e attribuite nel quadro del personale già esistente, secondo insindacabili e valide, o necessitate, scelte datoriali relative ad una ridistribuzione o diversa organizzazione imprenditoriale, senza che detta operazione comporti il venir meno della effettività di tale soppressione (in questo senso costante giurisprudenza risalente, tra cui v. Cass. n. 8135 del 2000Cass. n. 13021 del 2001Cass. n. 21282 del 2006, citate anche da Cass. n. 11402 del 2012, richiamata da parte ricorrente a sostegno del gravame);

si È pure affermato che la soppressione parziale del posto presuppone ed implica ex se che ci sia una (maggiore o minore) attività residuale che il lavoratore licenziato potrebbe continuare a svolgere per il solo fatto che già la espletava in precedenza; ed allora il datore di lavoro non può senz’altro respingere questa parziale utilità residuale della prestazione lavorativa, ma deve prima verificare la residuale concreta utilità della prestazione lavorativa del dipendente eventualmente in part time, nel senso che la redistribuzione delle mansioni tra altri dipendenti rimarrà pur sempre possibile, ma solo dopo che sia stata esclusa, per ragioni tecnico-produttive, la possibilità di espletamento, ad opera del lavoratore solo parzialmente eccedentario, della parte di prestazione lavorativa liberatasi per effetto della parziale soppressione del posto ricoperto (cfr. Cass. n. 6229 del 2007);

È tuttavia successivamente precisato che, al fine di ritenere la possibilità di un utilizzo parziale del lavoratore nella medesima posizione lavorativa, se del caso ridotta con l’adozione dei part time, è necessario che le mansioni diverse da quelle soppresse rivestano, nell’ambito del complesso dell’attività lavorativa svolta, una loro oggettiva autonomia, non risultino cioè intimamente connesse con quelle (prevalenti) soppresse, in modo che possa ritenersi che il residuo impiego, anche part time, nelle mansioni non soppresse, non finisca per configurare la creazione di una diversa ed autonoma posizione lavorativa, con indebita alterazione dell’organizzazione produttiva; in altri termini l’attività – pur minoritaria – non oggetto di soppressione dovrebbe qualificarsi in termini di effettiva autonomia, sÌ da poter ritenere che la posizione lavorativa fosse connotata in termini di affiancamento di diverse mansioni, ciascuna delle quali indipendente e distinta – anche in termini logistici e temporali – dallo svolgimento dell’altra e non già intimamente connesse fra loro, come dovrebbe invece ritenersi laddove le mansioni non soppresse fossero svolte in via sostanzialmente ausiliaria o complementare di quelle oggetto di soppressione (in termini, Cass. n. 11402/2012 cit.); evidentemente, il necessario carattere di oggettiva autonomia del complesso delle mansioni non soppresse, al fine di non configurare la creazione di una diversa ed autonoma posizione lavorativa, con indebita alterazione dell’organizzazione produttiva, deve essere escluso non solo allorché risultino intimamente connesse con quelle (prevalenti) soppresse, ma anche quando – come nella specie stato accertato dalla Corte territoriale – abbiano un carattere residuale non quantitativamente rilevante, occasionale, promiscuo e ancillare rispetto ai compiti di altri dipendenti;

  1. col terzo mezzo si lamenta la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3della legge n. 604 del 1966(Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) e dell’art. 2103 c.c. In ordine alla mancata prova del repechage”; si censura la sentenza impugnata per l’erroneo riparto degli oneri di allegazione e prova del repechage, imponendo alla lavoratrice un onere di allegazione non dovuto; si eccepisce che, in ragione del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., in seguito alle modifiche introdotte dall’art. 3 del D.Lgs. n. 81 del 2015, “l’ampiezza dell’obbligo di repechage abbraccia tutte quelle posizioni lavorative che siano riconducibili allo stesso livello e categoria possedute dal lavoratore passibile di licenziamento”;

con l’ultimo motivo si denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 (Art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) e dell’art. 2103 c.c. In ordine al repechage in mansioni inferiori”; si eccepisce che, nonostante la questione fosse stata posta sin dall’atto introduttivo del giudizio e coltivata nel suo seguito, “la Corte romana non si sia curata della necessaria allegazione e prova della possibilità di repechage in mansioni inferiori”;

  1. il Collegio reputa fondati tali motivi di ricorso, da valutare congiuntamente per reciproca connessione;

4.1. l’affermazione dei giudici d’appello secondo cui incomberebbe sul lavoratore un onere di allegazione circa “l’esistenza, nell’ambito della struttura aziendale, di posti di lavoro in cui potrebbe essere utilmente adibito” contrasta con una oramai consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (ab imo: Cass. n. 5592 del 2016);

4.2. parimenti, la sentenza impugnata mostra di ritenere come riportato nello storico della lite – che l’onere di prova l’impossibilità di ricollocare il lavoratore da licenziare sia limitato alla possibilità che quest’ultimo possa svolgere mansioni comunque equivalenti a quelle precedentemente espletate, trascurando che, per condivisa giurisprudenza di questa Corte, l’indagine va estesa anche all’impossibilità di svolgere mansioni anche inferiori (da ultimo v. Cass. n. 31561 del 2023, cui si rinvia per ogni ulteriore aspetto, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.);

invero, sin da Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998, È stato sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; l’arresto riposa sull’assunto razionale dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto; il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, È stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (Cass. n. 21579 del 2008Cass. n. 4509 del 2016Cass. n. 29099 del 2019Cass. n. 31520 del 2019); È stato, così, affermato che il datore, prima di intimare il licenziamento, È tenuto a ricercare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore (cfr. Cass. n. 10018 del 2016; v. pure Cass. n. 23698 del 2015, Cass. n. 4509 del 2016Cass. n. 29099 del 2019);

  1. la sentenza impugnata sulla violazione dell’obbligo di repechage non si È attenuta ai richiamati principi, per cui, respinti i primi due motivi di ricorso, devono essere accolti gli altri, con cassazione della pronuncia in relazione alle censure ritenute fondate e rinvio alla Corte indicata in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, regolando anche le spese del giudizio di legittimità;

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo ed il quarto motivo di ricorso e rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese.

Conclusione

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 29 novembre 2023.

Depositatao in Cancelleria il 30 gennaio 2024.

Decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in corso di rapporto di lavoro

Con la sentenza 36197/2023, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite è chiamata a pronunciarsi sui seguenti quesiti:

  1. se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto, a termine o a tempo indeterminato, o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell’ultimo, come accade nel lavoro privato;
  2. se, nell’eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita da stabilizzazione presso la stessa P.A. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione;

L’attualità del tema è data dall’entrata in vigore della legge 92 del 2012 e quindi del DLGS n.23/2015 che in caso di licenziamento illegittimo nella maggioranza dei casi hanno fatto venir meno l’ipotesi della conseguente reintegra.

Di seguito, la Corte di Cassazione con la sentenza n.26246 del 2022 ha stabilito che, in assenza della tutela reale, poteva in ogni caso ritenersi incombente sul lavoratore il timore della conseguente reazione datoriale e quindi la prescrizione doveva ritenersi operante a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ora lo stesso tema si pone nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato.

Va notato in proposito che dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali con l’articolo 21 del decreto Madia era affermata nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni la piena applicabilità della legge sui licenziamenti nel testo originale che prevedeva la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo per il personale non dirigente e dirigente.

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, è chiamata ad affrontare il tema che già sul presupposto della confermata stabilità del posto di lavoro pubblico in base all’articolo 21 del decreto Madia dovrebbe trovare soluzione nel senso di consentire il decorrere della prescrizione in corso di rapporto di lavoro.

La Corte affronta però il tema della decorrenza della prescrizione nel caso di reiterazione di contratti a termine nell’ambito del settore pubblico.

Essa ribadisce per il pubblico impiego, la regola già vigente della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro in nome della peculiarità tuttora persistente tra lavoro alle dipendenze dei privati e delle pubbliche amministrazioni anche in forza dei principi fondamentali contenuti nell’articolo 97 della Costituzione.

Secondo le Sezioni Unite “La privatizzazione non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato. In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell’impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (D.Lgs. n. 165 del 2001art. 51, comma 2 e, all’attualità, D.Lgs. cit., art. 63, comma 2), che, in punto di eccezionalità del lavoro a termine (secondo la disciplina speciale dell’art. 36 D.Lgs. cit.)…” (Cass. 19 novembre 2021, n. 35676, in motivazione sub p.to 42, così, massimata: “In tema di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorre in costanza di rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela”).

Fabio Petracci

Il termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento del procedimento disciplinare

Con l’ordinanza n. 33382/2023 la Corte di Cassazione in tema di procedimento disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, ha ritenuto che il termine di 120 giorni tassativamente prescritto per concludere a pena di decadenza il procedimento disciplinare decorra dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione che coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia medesima è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora”.

Ove non sia possibile individuare un dirigente o un responsabile dell’Ufficio interessato competente, il termine per concludere il procedimento disciplinare non può che decorrere, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001art. 55 bis, comma 4, secondo e terzo periodo, dalla data in cui la notizia dell’illecito è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari.

La pronuncia prende in esame un caso verificatosi in data anteriore al DLGS 75/2017 (Riforma Madia) che ha apportato importanti innovazioni all’impianto disciplinare del pubblico impiego, modificando sensibilmente l’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 che scandisce i termini del procedimento disciplinare.

A seguito della riforma Madia, solo i termini di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare sono perentori, mentre la violazione di altri termini nell’ambito del procedimento, non comportano la decadenza dall’azione disciplinare, a meno che non ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente.

La nuova normativa che va ad innovare l’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 prevede che, nel caso in cui il fatto addebitato abbia una conseguenza disciplinare superiore al rimprovero verbale, il Responsabile della struttura entro dieci giorni, segnala il fatto all’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UDP) e quindi quest’ultimo con immediatezza e comunque non oltre trenta giorni dal ricevimento della segnalazione , provvede a trasmettere la contestazione scritta dell’addebito al dipendente, convocandolo con un preavviso di dieci giorni per l’audizione disciplinare.

Quindi, l’UDP conclude il procedimento con l’atto di archiviazione o con l’irrogazione della sanzione, entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito.

A questo punto, dopo la riforma attuata con il decreto legislativo Madia DLGS 75/2017, gli unici due termini tassativamente previsti a pena di decadenza sono il termine di avvio del procedimento ( invio all’Ufficio Disciplinare 10 giorni) ed il termine di conclusione del procedimento 120 giorni dall’avvio dee contestazione.

Quindi, a seguito della riforma Madia,  il termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare non è più ancorato alla data della prima acquisizione della notizia dell’infrazione, come precedentemente stabilito al vecchio testo dell’articolo 55 bis DLGS 165/2001, ma è riferito ad una data più chiara e facilmente individuabile data dalla “contestazione dell’addebito fatta dall’UPD” al lavoratore.

Fabio Petracci

Posizioni organizzative per la copertura di posizioni dirigenziali: la normativa contrattuale trova applicazione parziale

La Cassazione civile, Sez. lavoro, con sentenza 30 ottobre 2023, n. 30097, cassa una sentenza di appello che aveva ritenuto illegittima la decurtazione dell’indennità di posizione in un ente privo di dirigenza, ritenendo che la decurtazione fosse illegittima in quanto il relativo decreto sindacale non era stato preceduto da concertazione con le OOSS e che i motivi addotti non fossero validi (ente di piccole dimensioni, minore carico di lavoro del dipendente e difficile situazione finanziaria dell’ente).

I giudici di legittimità osservano come la Corte territoriale non abbia tenuto conto delle disposizioni del contratto collettivo applicabili. In particolare, osserva la Suprema Corte che  “per i Comuni di minori dimensioni demografiche non si procede dunque alla formazione del Fondo di cui all’art. 10, e gli oneri della retribuzione di posizione sono determinati nell’ambito delle risorse finanziarie previste dai medesimi Comuni a carico dei rispettivi bilanci; ne consegue che nel caso in cui il Comune versi in una situazione deficitaria è giustificata la riduzione della retribuzione di posizione, purché tale riduzione avvenga nel rispetto dei limiti minimi”. Inoltre, precisa la Suprema Corte, “l’art. 16 del CCNL 31 marzo 1999 non si applica dunque ai Comuni di piccole dimensioni, per i quali non si procede alla formazione del Fondo di cui all’art. 10”; gli oneri della retribuzione di posizione “sono determinati nell’ambito delle risorse finanziarie previste dai Comuni di minori dimensioni demografiche a carico dei rispettivi bilanci”.

In pratica, nel caso in cui un comune di piccole dimensioni voglia sostituire un dirigente con una posizione organizzativa, la comune normativa contrattuale che prevede il concorso di apposito fondo e la concertazione con le organizzazioni sindacali, trova delle rilevanti eccezioni che andremo ad esaminare.

Il CCNL del 1999 per le funzioni locali relativo al sistema di classificazione del personale all’articolo 9 prevede l’istituzione delle “posizioni organizzative” definite come posizioni di lavoro che richiedono assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato.

Non si tratta quindi di un diverso inquadramento, ma di una funzione che pur appartenendo sempre all’area apicale, implica l’assunzione di maggiore responsabilità.

Il successivo articolo 9 del medesimo contratto collettivo (Conferimento e revoca degli incarichi per le posizioni organizzative) stabilisce le modalità per il conferimento della posizione organizzativa prevedendo come le posizioni organizzative siano conferite dai dirigenti per un periodo non superiore a cinque anni (quindi a termine) previa determinazione di criteri generali da parte degli enti, con atto scritto e motivato.

Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi.

Il successivo articolo 10 stabilisce invece il trattamento economico che spetta a chi è attribuita la posizione organizzativa.

E’ previsto che Il trattamento economico accessorio del personale della categoria D titolare delle posizioni di cui all’art. 8 è composto dalla retribuzione di posizione e dalla retribuzione di risultato. Il trattamento è omnicomprensivo in quanto esso assorbe tutte le competenze accessorie e le indennità previste dal vigente contratto collettivo nazionale, compreso il compenso per il lavoro straordinario.

Per quanto riguarda la retribuzione di posizione, essa varia da un minimo di L. 10.000.000 ad un massimo di L. 25.000.000 annui lordi per tredici mensilità. E’ previsto come ciascun ente stabilisce la graduazione della retribuzione di posizione in rapporto a ciascuna delle posizioni organizzative previamente individuate.

L’importo della retribuzione di risultato varia da un minimo del 10% ad un massimo del 25% della retribuzione di posizione attribuita. Essa è corrisposta a seguito di valutazione annuale.

Il tema affrontato dall’ordinanza della Corte di Cassazione trova riscontro nel successivo articolo 11 (Disposizioni in favore dei Comuni di minori dimensioni demografiche) dove è previsto che i comuni privi di posizioni dirigenziali nell’ambito delle risorse finanziarie previste dai rispettivi bilanci applicano la disciplina delle posizioni organizzative ai dipendenti ai quali, in assenza della dirigenza, sia attribuita la responsabilità degli uffici e dei servizi.

Il successivo articolo 16 (relazioni sindacali) prevede apposita procedura di concertazione tra gli enti e le rappresentanze sindacali in merito ai criteri generali per il conferimento degli incarichi relativi alle posizioni organizzative e relativa valutazione periodica.

Con l’ordinanza in commento, la Cassazione ha ritenuto definiti dalla legge l’individuazione degli incarichi e dei compensi per le posizioni organizzative destinate a ricoprire le posizioni dirigenziali.

Fabio Petracci

Nullo il licenziamento di lavoratrice madre in caso di fallimento dell’azienda con continuazione di fatto dell’attività

In caso di fallimento dell’azienda, pur in assenza di un provvedimento di autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa, la prosecuzione dell’attività aziendale rende nullo il licenziamento irrogato alla lavoratrice madre.

Il principio è affermato dalla Suprema Corte con una recente pronuncia – Cassazione Sezione Lavoro 19.12.2023 n.35527.

L’articolo 54 del DLGS 151/2001 vieta il licenziamento della lavoratrice madre dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro e comunque sino al compimento di un anno di età del bambino.

La normativa prevede al comma 3 una serie di eccezioni tra le quali alla lettera b) il caso di cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta.

La Cassazione (Cassazione Sezione Lavoro 11.11.2021 n.33368 ) aveva già a suo tempo precisato come affinché tale eccezione si concretizzi debba verificarsi la totale cessazione dell’attività dell’azienda, trattandosi di norma che pone un’eccezione ad un principio di carattere generale (come il divieto di licenziamento di cui all’articolo 54 DLGS 151/2001) , essa non può essere di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica.

L’articolo 104 del RD 267/1942 (legge fallimentare) stabilisce come una volta dichiarato il fallimento, il Tribunale possa disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa.

Nel caso di specie come riferito nella sentenza che si annota, l’azienda nonostante il fallimento e la mancata autorizzazione alla prosecuzione dell’attività, continua a svolgere la propria attività.

Non si tratta quindi di cessione d’azienda o dell’operare di una nuova azienda, ma bensì di una prosecuzione di fatto sebbene non autorizzata dal Tribunale.

La Corte di Cassazione con la già accennata sentenza supera questo ostacolo in primo luogo escludendo che la deroga ad un principio generale ( divieto di licenziamento nel corso del periodo di maternità indicato dalla legge) mediante l’interpretazione estensiva o analogico dell’eccezione legale (cessazione dell’attività aziendale).

Essa opera inoltre un richiamo di carattere più generale in riferimento della necessità di sanzionare quei trattamenti penalizzanti che possono essere riservati alle donne coniugate, in gravidanza, o ancora con figli in età prescolare,  richiamandosi anche alla prima legge sulla parità di trattamento (L. n. 903 del 1977art. 1, comma 2), la quale vietava qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, per quanto riguarda l’accesso al lavoro, anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza, nonché , alla disciplina che vieta di licenziare la lavoratrice in stato di gravidanza dal momento del concepimento sino al compimento del primo anno di vita del bambino (regolato dapprima dalla L. n. 1204 del 1971, oggi trasfuso nel D.Lgs. n. 151 del 2001art. 54).

Ma il richiamo va pure alla disciplina generale del Codice delle pari opportunità, come riformato dal D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, il quale, nel recepire la Direttiva 2006/54/CE, relativa al principio di pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego, ha provveduto ad una parziale modifica del vigente Codice.

Fabio Petracci

Assegnazione di sede ex articolo 33 lege 104/92: la giurisdizione è del Giudice ordinario

Il TAR del Lazio con la sentenza n.17673/2023 conferma l’indirizzo della Corte di Cassazione – Cassazione Civile Sezioni Unite 9.6.2021 n.16086 – che ha ritenuto come in tema di assegnazione della sede di lavoro presso una amministrazione pubblica (all’esito della procedura concorsuale per l’assunzione in servizio), intervenuta con contratto stipulato successivamente al 30 giugno 1998, deve riconoscersi – stante il carattere generale della giurisdizione del giudice ordinario in relazione ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001), a fronte del quale la perpetuazione della giurisdizione del giudice amministrativo (prevista dal comma 4 dello stesso art. 63) riveste una portata limitata ed eccezionale – la giurisdizione del giudice ordinario nella controversia in cui, sul presupposto della definitività della graduatoria e senza in alcun modo censurare lo svolgimento del concorso ed il relativo atto finale, si faccia valere, in base all’art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, il diritto – che sorge con l’assunzione al lavoro e, dunque, in un momento successivo all’esaurimento della procedura concorsuale – alla scelta della sede di lavoro più vicina al proprio domicilio.

Il TAR del Lazio adeguandosi a questo indirizzo ha affrontato lo specifico tema dell’assegnazione della sede di servizio al vincitore di concorso titolare dei benefici di cui alla legge 104/1992. l’Organo giurisdizionale amministrativo precisa che “con l’approvazione della graduatoria definitiva si è chiusa la fase procedimentale amministrativa, soggetta alla giurisdizione del Giudice amministrativo, ed è iniziata la fase relativa all’immissione in servizio soggetta alla giurisdizione del Giudice ordinario”. Dopo la fase dell’approvazione della graduatoria si apre la fase esecutiva nella quale si configurano attività che attengono allo svolgimento privatistico del rapporto di lavoro (TAR Lazio, Roma I-quater, 28 marzo 2023, n. 5322, Cons di Stato, V sezione; 21 novembre 2014) e nel cui contesto i comportamenti e le determinazioni dell’Amministrazione sono espressione del potere negoziale che la stessa esercita nella veste e con la capacità del privato datore di lavoro. Il quadro normativo consente di affermare che in tema di lavoro pubblico la giurisdizione del giudice ordinario costituisce ormai la regola e quella del giudice amministrativo l’eccezione.

Fabio Petracci

Le tutele previste per il lavoratore in caso di patto di prova nullo

Il recesso intimato in assenza di valido patto di prova equivale ad un ordinario licenziamento, assoggettato – nel regime introdotto dal Jobs Act – alla regola generale della tutela indennitaria: così afferma la sentenza n. 20239 del 14.07.2023 della Suprema Corte di Cassazione.

Nel dettaglio, nel caso affrontato una dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatole per mancato superamento del patto di prova.

Sul piano delle conseguenze connesse al licenziamento ad nutum intimato dal datore di lavoro in relazione ad un patto di prova nullo, è stato chiarito che la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966.

In presenza di un patto di prova invalido la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalla legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.

Per costante enunciato del giudice di legittimità, infatti, il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova (venuto invece a scadenza), si configura come licenziamento individuale non distinguibile da ogni altro licenziamento della stessa natura e regolato – ove intimato a carico di lavoratore fruente della tutela della stabilità del posto – dalla disciplina comune per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di legittimità e soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o del giustificato motivo (Cass. n. 16214 del 2016, Cass. n. 7921 del 2016, Cass. n. 21506 del 2008, Cass. n. 17045 del 2005, Cass. n. 2728 del 1994).

In base a tale ricostruzione, il potere esercitato dal datore di lavoro non risulta radicalmente insussistente ma è soggetto alle limitazioni connesse al principio di causalità e tipicità del licenziamento, non venendo in rilievo l’an ma solo il quomodo del relativo esercizio.

L’onere della prova del lavoratore con riferimento alla richiesta di risarcimento danni

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 21682/2023, si è espressa su un caso di richiesta di risarcimento danni (patrimoniale, non patrimoniale biologico, esistenziale e morale) formulata da un lavoratore a seguito di asserite condotte mobbizzante subite.

L’istruttoria svolta nelle fasi di merito ha tuttavia fatto emergere il mancato raggiungimento della prova da parte del lavoratore circa la ricostruzione fattuale in ordine alla sussistenza di condotte datoriali di natura vessatoria e persecutoria continuative, con conseguente assorbimento delle questioni attinenti a sussistenza e quantificazione dei danni.

Del pari è stata esclusa (in quanto non adeguatamente provata) la sussistenza di un comportamento illecito datoriale in nesso di causa con il danno denunciato, sulla base del materiale probatorio complessivamente valutato.

Precisa la Cassazione che in tema di onere della prova in riferimento al diritto al risarcimento dei danni in favore del lavoratore per violazione degli obblighi del datore di lavoro di sicurezza e di protezione della salute del lavoratore di cui all’art. 2087 c.c., non si tratta di ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro.

Invero, i rispettivi oneri di allegazione e prova sono articolati come segue: il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro svolto e il danno, mentre al datore di lavoro, in ragione del suo dovere di assicurare che l’attività lavorativa non risulti pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente, spetta dimostrare che la prestazione si è, invece, svolta secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili (Cass. n. 34968/2022; cfr. anche Cass. n. 10992/2020, n. 14064/2019, n. 8911/2019, n. 24742/2018).

Appunto poiché l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Neppure la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (così Cass. n. 2038/2013; cfr. anche Cass. n. 25151/2017).