SENTENZA – Annullamento di licenziamento.

Pubblichiamo la sentenza integrale emessa dal Tribunale di Vibo Valentia a favore di un’assistita dello Studio che ha portato all’annullamento del licenziamento subito ed alla condanna della Regione Calabria alla riammissione della ricorrente nell’organico.

Tribunale di Vibo Valentia – Settore Lavoro e Previdenza – Sent. 379.2020

Licenziamento – Giusta Causa – Previsione Contrattuale – Valutazione del Giudice.

La tipizzazione della giusta causa di licenziamento contenuta nelle disposizioni della contrattazione collettiva non si sottrae alla valutazione del giudice ai fini dell’apprezzamento della giusta causa.

L’insussistenza di una simile previsione non impedisce al giudicante un autonoma decisione in merito alla sussistenza della giusta causa di licenziamento.

Lo afferma una recente sentenza della Corte di Cassazione di cui si trascrive di seguito la motivazione.

 

Cass. civ. Sez. lavoro, 06/08/2020, n. 16784

 

 

 

Motivi della decisione

  1. Con particolare riferimento agli artt. 2119 e 2118 c.c., alla L. n. 604 del 1966,art. 3, agli artt. del c.c.n.l., occorre considerare che la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; è solo l’integrazione giurisprudenziale, a livello generale ed astratto, della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, (cfr. Cass. n. 7838 del 2005; Cass. n. 21214 del 2009; Cass. 6901 del 2016; Cass. n. 18715 del 2016); è stato precisato come il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966,art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.), (cfr. Cass. 28.5.2019 n. 14504, con richiamo a Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007);
  2. In sostanza: in materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purchè vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario (cfr., Cass. 7.11.2018 n. 28492, 9396/2018, Cass. 27238/2018).
  3. Tali principi sono stati riaffermati, da ultimo, da Cass. 16.7.2019 n. 19023, che ha evidenziato come l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicchè non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr., in termini, Cass. n. 27004 del 2018 ed ivi le richiamate Cass. n. 14321 del 2017; Cass. n. 2830 del 2016 e Cass. n. 9223 del 2015); ne consegue che il giudice chiamato a verificare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento incontra solo il limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (id est: alla condotta contestata al lavoratore) (oltre Cass. n. 27004 del 2018 e Cass. n. 14321 del 2017 citate anche Cass. n. 6165 del 2016 e n. 19053 del 2005). In definitiva, la scala di valori recepita dai contratti collettivi esprime le valutazioni delle parti sociali in ordine alla gravità di determinati comportamenti e costituisce solo uno dei parametri a cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto le clausole generali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Queste ultime possono anche non coincidere completamente o esaurirsi nelle previsioni della contrattazione collettiva. Ne discende che il giudice deve verificare la condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche al di là della fattispecie contrattuale prevista (Cass. n. 27004 del 2018, in motivazione, p. 7.5.).
  4. I medesimi principi risultano ribaditi, da ultimo, da Cass. 23.5.2019, nn. 14062 e 14063, laddove è stato affermato che le tipizzazioni delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell’individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso non sono vincolanti per il giudice, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c., e che “con la predisposizione del codice disciplinare, sebbene di solito in modo generico e meramente esemplificativo, l’autonomia collettiva individua infatti il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2105 c.c., in quel determinato momento storico ed in quel contesto aziendale. In tal senso, il codice disciplinare è stato richiamato dall’art. 7, dello statuto dei lavoratori in funzione di monito per il lavoratore e di garanzia di prevedibilità della reazione datoriale”. Pertanto, “pur non essendo vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell’individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c., e le parti ben potranno sottoporre il risultato di tale valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all’esame di questa Corte sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare” (cfr. Cass. 1463/2019 cit.).
  5. Con riguardo al caso oggetto della presente controversia, la contestazione aveva riguardo a specifica ipotesi prevista dalla contrattazione collettiva in tema di licenziamento senza preavviso ed il disvalore espresso dalla condotta tipizzata (“assenze ingiustificate per cinque volte nel periodo di un anno”) è stato ritenuto parificabile a quella del comportamento tenuto dal lavoratore quale risultato provato in causa (quattro assenze in periodo bimestrale, al netto di condotte non contestate o punite con precedente sanzione conservativa).
  6. Nè può ritenersi che il corredo difensivo del lavoratore, apprestato per l’addebito rapportato alla fattispecie richiamata nel c.c.n.l., in concreto contestata e posta a fondamento del recesso senza preavviso, fosse tale da non coprire anche la fattispecie ritenuta verificatasi in concreto, rispetto alla quale il giudice del merito ha espresso le proprie valutazioni in relazione alla riconducibilità della stessa alla nozione di giusta causa, sempre avendo presente il parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare, in coerenza con i principi giurisprudenziali espressi da questa Corte sopra richiamati.
  7. Peraltro, deve considerarsi che, con riguardo ad una pluralità di fatti contestati, quali devono ritenersi le assenze ingiustificate addebitate al lavoratore in numero di cinque, anche una condotta che si concreti nella parziale realizzazione, ma pur sempre rilevante in termini quantitativi, della fattispecie addebitata, può ben costituire la base idonea per giustificare la medesima sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse, non provi che solo presi in considerazioni tutti i fatti congiuntamente per la loro complessiva gravità, essi siano tali da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro. A ciò consegue che, salvo questo specifico caso, ove nel giudizio di merito emerga l’infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, gli addebiti residui conservino la loro astratta idoneità a giustificare il licenziamento (cfr., per ipotesi sia pure non del tutto parificabili, ma per l’affermazione di principi di carattere generale, Cass. 30.5.2014 n. 12195, Cass. 2.2.2009 n. 2579, Cass. 14.1.2003 n. 454).
  8. Vero è che potrebbe nella fattispecie in esame pur sempre osservarsi, come del resto evidenziato dal ricorrente, che le parti collettive abbiano previsto sanzioni conservative, via via più gravi (dall’ammonizione alla sospensione) per ipotesi di assenze ingiustificate dal lavoro (“non si presenti al lavoro o si presenti in ritardo senza giustificato motivo”), arrivando a configurare, in ipotesi, quale fattispecie rilevante ai fini dell’applicazione di sanzione meramente conservativa anche quella di assenze ingiustificate inferiori a cinque. Tuttavia, nella specie la dimostrata concentrazione delle quattro assenze in un periodo bimestrale, e, sia pure prescindendo dal riferimento ad una molteplicità di contestazioni precedenti – alcune delle quali non prese in considerazione dal giudice di primo grado per irregolarità formali -, quanto meno la precedente e contigua condotta non contestata quale recidiva e punita quale semplice ritardo con la multa, “ancorchè fosse emerso dal foglio presenze che l’assenza risultasse per tutta la giornata, come del resto ammesso nella lettera datata 1.01.2015, dimessa dallo stesso appellante” (così a pag. 16 della sentenza impugnata), sono state correttamente valutate quale comportamento rilevante, sia sul piano soggettivo, sia sul piano oggettivo, ai fini dell’apprezzamento della gravità dei fatti contestati.
  9. In definitiva, la condotta contestata nei termini in cui è risultata provata in causa, proprio avendo riguardo alla scala valoriale contenuta nel c.c.n.l. – le cui previsioni disciplinari costituiscono, per quanto detto, il parametro integrativo della clausola generale – è stata ritenuta integrare la fattispecie più grave, sanzionata con il licenziamento, in quanto parificabile in termini di disvalore sociale alla fattispecie tipizzata dal c.c.n.l., anzichè all’ipotesi, anche nella sua massima gravità, presidiata da sanzione solo conservativa.
  10. Alle svolte considerazioni consegue l’assorbimento del ricorso incidentale, proposto dalla società condizionatamente all’accoglimento del ricorso principale, con il quale sono dedotte violazione dell’art. 12 preleggi, e dell’art. 88 c.c.n.l. 2008-2014 e motivazione inesistente, con riguardo alla mancata considerazione di assenze al lavoro non adeguatamente valutate ai fini della integrazione della fattispecie disciplinarmente rilevante quale contestata ed anche in relazione alla erronea ritenuta mancanza di rituale e tempestiva contestazione disciplinare.
  11. In conclusione, deve pervenirsi al rigetto del ricorso principale, che determina l’assorbimento dell’incidentale condizionato.
  12. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente principale e sono liquidate in dispositivo.

 

Risarcimento da licenziamento illegittimo e indennità di disoccupazione. Una recente decisione della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione con la sentenza Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 26/08/2020, n. 17793 ha stabilito che la domanda per ottenere il trattamento di disoccupazione non presuppone la definitività del licenziamento e non è incompatibile con la volontà di impugnarlo.

Ha stabilito la Corte che l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dell’atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione, sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento.

Solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti, così non potendo, peraltro, le stesse essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18.

La pronuncia della Cassazione consegue all’impugnazione del licenziamento da parte di un lavoratore cui il Tribunale aveva riconosciuto l’ordinario risarcimento del danno anziché la reintegra che ormai è riservata in limitati casi.

L’Inps in forza di un decreto ingiuntivo richiedeva la restituzione di quanto percepito dal lavoratore a titolo di indennità di disoccupazione.

Il giudice di merito sia in primo che in secondo grado aveva ritenuto che il ricorrente  non era stato reintegrato nel posto di lavoro, nè aveva ricevuto spettanze retributive, ma un mero risarcimento e che ciò escludeva che l’indennità di disoccupazione potesse diventare indebita per il solo fatto di aver ottenuto una sentenza favorevole

La Suprema Corte ha richiamato il R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827,  che all’ art. 45 stabilisce che l’evento coperto dal trattamento di disoccupazione riguarda  l’involontaria disoccupazione per mancanza di lavoro, ossia quella inattività, conseguente alla cessazione di un precedente rapporto di lavoro, non riconducibile alla volontà del lavoratore, ma dipendente da ragioni obiettive e cioè mancanza della richiesta di prestazioni del mercato di lavoro La funzione dell’assegno è quindi, secondo la Corte quella di fornire in tale situazione ai lavoratori (e alle loro famiglie) un sostegno al reddito, in attuazione della previsione del art. 38 Cost., comma 2.

Ha quindi rilevato la Corte di Cassazione che ” la domanda per ottenere il trattamento di disoccupazione non presuppone neppure la definitività del licenziamento e non è incompatibile con la volontà di impugnarlo, mentre l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dell’atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione, e sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento” (v. anche Cass. 11.6.1998 n. 5850, Cass. n. 4040 del 27/06/1980) e che ” solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti, così non potendo, peraltro, le stesse essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18

 

Furbetti del Cartellino, risarcimento del danno alla Pubblica Amministrazione.

Con la sentenza n.66/2020 pubblicata in data 16 aprile 2020, la Corte Costituzionale ha ritenuto l’incostituzionalità del comma 3 quater dell’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 laddove fissa un tetto minimo di sei mensilità per il risarcimento del danno all’immagine subito dalla pubblica amministrazione, allorquando il dipendente manometta o falsifichi le risultanze della sua presenza.

La Corte ha motivato il proprio intervento in quanto la norma che prevede un tanto è contenuta in un decreto legislativo (DLGS 116/2016 che modificava l’articolo 55 quater del DLGS 165/2001) cui la legge (Legge 124/2015) non aveva conferito una simile delega.

In pratica il governo di allora aveva legiferato in assenza di delega legislativa del parlamento. (articolo 76 della Costituzione).

Vedremo di esaminare sommariamente la questione.

L’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 in tema di licenziamento disciplinare nell’ambito della pubblica amministrazione, tocca la responsabilità contabile – amministrativa del dipendente pubblico volta ad alterare i rilievi di presenza in servizio.

Esso al comma 3 – quater prevede espressamente che, l’azione disciplinare debba accompagnarsi alla segnalazione obbligatoria del fatto al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale ed all’analogo organo presso la procura della Corte dei Conti per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa e contabile, stabilendo che, ferme le valutazioni del giudice in merito all’entità del danno, esso mai potrà essere inferiore a sei mesi dell’ultimo stipendio in godimento.

La norma così strutturata era stata introdotta mediante il DLGS 20.6.2016 n.116 che, modificava il precedente articolo 55 quater del DLGS 165/2001 introducendo questa fattispecie di danno all’immagine che non aveva bisogno di prova alcuna. ( una sorta di danno minimo ed incontestabile).

Il decreto legislativo 116/2016 era emesso su delega della legge 124/2015 che all’articolo 17, punto s) testualmente prevedeva la delega al governo per l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare.

Nulla però era detto dalla legge 124/2015 (legge Madia) in tema di responsabilità contabile – amministrativa.

Fabio Petracci.