Il contraddittorio nel procedimento disciplinare del lavoro pubblico e privato e la sua rilevanza nella fase processuale

  1. Considerazioni generali – Due diversi procedimenti disciplinari.

 

Nel trattare il tema è sicuramente utile premettere un breve esame della struttura del procedimento disciplinare nel lavoro privato e nel lavoro pubblico contrattualizzato.

 

  1. Nel lavoro alle dipendenze dei privati.

 

Nel lavoro alle dipendenze dei privati datori di lavoro, la procedura disciplinare era introdotta con lo statuto dei lavoratori che con l’articolo 7 inserito nel titolo I della libertà e della dignità del lavoratore, introduce , quella che è stata una rilevante innovazione per l’epoca, quale il diritto del lavoratore a conoscere le condotte destinate a dar luogo alla sanzione disciplinare e ad avere tempestiva contezza delle mancanze che gli venivano addebitate al fine di potersi adeguatamente difendere.

Nella sostanza un bilanciamento innovativo tra il potere imprenditoriale e la libertà e dignità del lavoratore.

In concreto, la semplice realizzazione dell’articolo 41 della carta costituzionale che vuole armonizzare la libertà organizzativa dell’impresa con la dignità umana.

 

  1. Nel lavoro contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Diversa invece la genesi e l’impostazione del sistema disciplinare nel lavoro pubblico contrattualizzato.

In tale ambito, diamo per scontato quanto posto dallo statuto dei lavoratori, ma è contestualmente considerata l’innovativa natura contrattuale del rapporto di lavoro, accanto alla quale come elemento di specialità, si vuole introdurre un impianto disciplinare funzionale ai principi di buon andamento della pubblica amministrazione contenuti nell’articolo 97 della carta costituzionale.

Quindi, in quest’ultimo caso, la tutela del lavoratore deve bilanciarsi con questo principio costituzionale, dove il buon andamento si coniuga oltre che con l’interesse della pubblica amministrazione che dovrebbe riflettere quello della comunità, anche con il principio di imparzialità contenuto nello stesso articolo 97.

La sintesi è data dall’impianto normativo contenuto nel testo unico del pubblico impiego agli articoli da 55 a 55 sexies.

Trattasi di un corpo di norme inderogabili improntate a principi di officialità, dove l’avvio dell’azione disciplinare è obbligatoria, a scanso di responsabilità del dirigente, dove sussiste l’obbligo dei dipendenti a collaborarvi.

Sussiste in tale ambito un principio di terzietà che tocca l’intera fase di applicazione della sanzione affidata ad apposito ufficio dei procedimenti disciplinari.

La fase segnalazione contestazione, difesa e decisione è scandita da termini definiti e precisi laddove il termine massimo per la segnalazione ed il termine finale per la conclusione del procedimento non possono essere superati a pena di nullità dell’intero procedimento.

Tornando all’esame della fase procedimentale e delle tutele difensive, le differenze delle impostazioni qui rilevate assisteranno le considerazioni che saranno di seguito svolte.

Notiamo in ogni caso che al rigore ed all’ufficialità della normativa corrispondono maggiori garanzie difensive per gli incolpati, come se in qualche modo, anche impropriamente, il procedimento disciplinare pubblico venisse ad avvicinarsi al processo penale.

Di seguito esamineremo le varie fasi dei procedimenti disciplinari rilevando le opportunità ed i limiti del contraddittorio nell’ambito del processo disciplinare.

 

  1. Fase delle indagini.

 

Con la sentenza n.16598 del 20.6.2019, la Corte di Cassazione ritiene legittime le indagini preliminari del datore di lavoro volte ad acquisire le prove del ritenuto illecito.

Di fronte alle obiezioni relative allo svolgimento delle indagini, inaudita altera parte, la corte ha ritenuto che il rispetto della regola del contraddittorio interessa solo la parte del procedimento disciplinare successiva alla contestazione.

Il principio è applicabile anche al procedimento disciplinare nell’ambito del pubblico impiego.

 

  1. La contestazione.

 

E’ questa la fase che consente l’avvio della procedura disciplinare e che pertanto deve consentire l’esercizio del diritto di difesa.

Quindi, la contestazione deve essere:

 

 

La reazione all’illecito posto in essere dal dipendente deve essere tempestiva a dimostrare l’interesse del datore di lavoro ed anche al fine di garantire all’incolpato una pronta e precisa ricostruzione dei fatti.

Nel rapporto di lavoro privatistico l’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori non stabilisce dei termini rigidi e quindi sarà il giudicante a valutare la tempestività.

La Cassazione con una recente pronuncia n.12193 del 22.6.2020, ha ritenuto come nel valutare l’immediatezza della contestazione, occorra tenere conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro ad assumere sufficienti elementi a sostenere la contestazione e del lavoratore a difendersi su fatti recenti che egli sia in grado di trattare a livello difensivo.

Nel caso di specie, era ritenuta tardiva una contestazione effettuata all’esito di un procedimento penale conclusosi a lunga distanza dai fatti addebitati.

Nel procedimento disciplinare di cui al testo unico del pubblico impiego, è stabilito un termine di 10 giorni dalla conoscenza del fatto per la segnalazione all’ufficio incaricato dei procedimenti disciplinari, mentre quest’ultimo ha a disposizione un termine di 20 giorni per procedere alla contestazione.

 

 

  1. Specificità.

 

Al fine di consentire adeguata difesa, la contestazione deve contenere una dettagliata descrizione del fatto contestato al lavoratore, del luogo e del tempo in cui la condotta si è realizzata, oltre ad una precisa descrizione della stessa. Non sono imposti schemi rigidi e prestabiliti nella lettera di contestazione. Quest’ultima deve inoltre contenere l’invito a rendere le proprie giustificazioni nei termini di legge. Sul punto vedasi Cassazione 15 maggio 2014 n.10662.

 

  1. Immutabilità.

 

Una volta contestati dei fatti, sugli stessi sarà impostata tutta la procedura disciplinare.

Rilevanti mutamenti dei fatti addebitati risultano idonei a ledere il diritto di difesa. Ciò accade secondo la pronuncia della Cassazione n.28756 del 2019, allorquando sia intervenuta una sostanziale modifica del fatto addebitato tale da modificare sostanzialmente il fatto addebitato mediante il riferimento ad un quadro diverso da quello posto a fondamento della sanzione.

Un tanto non si verifica, allorquando siano dedotti fatti nuovi ma marginali rispetto al fatto contestato ( Cassazione 13.10.2020 n.22076).

Il principio delineato vale anche nell’ambito del procedimento disciplinare nel pubblico impiego.

 

  1. Giustificazione e Audizione.

 

  1. Chi può assistere l’incolpato?

 

E’ questa la fase dove principalmente si esplica il diritto di difesa.

Nel procedimento disciplinare del lavoro privato disciplinato dall’articolo 7 della legge 300/70 oltre che da eventuali norme contrattuali collettive, l’audizione dell’incolpato è solo eventuale e bene può il lavoratore limitarsi ad una difesa scritta.

Qualora il dipendente incolpato chieda di essere sentito, il datore di lavoro, a pena di nullità del procedimento, vi deve provvedere.

L’articolo 7 stabilisce che il lavoratore incolpato può chiedere di essere sentito con l’assistenza di un rappresentante sindacale.

Stante la disposizione, si è ritenuto che il dipendente incolpato non possa fari assistere da un legale.

La Corte di Cassazione con la pronunzia n.9305/2017 ha ritenuto non sussistere il diritto del lavoratore a rendere le proprie giustificazioni orali in presenza di un avvocato.

In particolare, quanto allo svolgimento del procedimento disciplinare ex Art. 7, St. lav. (L. 300/1970), la Corte Suprema ha avuto modo di precisare come, in occasione dell’audizione orale, il diritto del lavoratore ad essere assistito da un rappresentante sindacale esaurisca le tutele previste dal legislatore per siffatto procedimento. Ciò significa, allora, che il datore di lavoro ha la semplice facoltà, ma non l’obbligo, di ascoltare il lavoratore in presenza di un avvocato, anche quando, per i medesimi fatti oggetto di contestazione disciplinare, il dipendente sia stato chiamato a rispondere nell’ambito di un procedimento penale.

Secondo i giudici della Cassazione, infatti, procedimento disciplinare e procedimento penale attengono a sfere di interessi giuridici diversi, per cui il diritto all’assistenza tecnica di un difensore è previsto solo nel caso del processo penale, data la rilevanza pubblicistica del medesimo.

Nell’ambito del procedimento regolato dal Testo Unico sul Pubblico Impiego DLGS 165/2001 articolo 55 bis , il dipendente potrà invece farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

Dunque chiunque in quanto munito di procura potrà assistere l’incolpato ed a maggior ragione un legale.

  1. Quale rappresentante sindacale?

Una sentenza della Cassazione, alquanto datata, la n.1965/82 riteneva che il mandato alla difesa potesse essere conferito esclusivamente alle organizzazioni firmatarie del contratto collettivo.

Più di recente, Cassazione 30 agosto 1993 n.9177, ebbe invece a sostenere che qualsiasi organizzazione sindacale era legittimata ad assistere il lavoratore.

  1. E’ possibile richiedere in fase difensiva copia della documentazione che sostiene l’incolpazione?

Spesso le contestazioni disciplinari si fondano su atti e documenti del datore di lavoro e l’incolpato può avere interesse all’accesso nella fase di audizione.

L’articolo 7 della legge 300/70 non contempla un simile diritto.

Con diverse sentenze questo diritto era stato negato (Cassazione 6.10.2017, Cassazione 21 ottobre 2010 n.21612).

Con sentenza n.7581 del 27 marzo 2018, la Corte di Cassazione ammetteva il diritto non tanto in ragione del diritto di difesa che poteva ritenersi limitato nella sede disciplinare, quanto piuttosto con riferimento agli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sulle parti ed a patto di chiara indicazione della documentazione richiesta e della sua stretta inerenza alle difese da svolgere.

Nell’ambito del procedimento disciplinare del lavoro pubblico contrattualizzato, l’articolo 55 bis al comma 4 prevede per il dipendente il diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento.

 

 

  1. Ripercussioni del procedimento disciplinare in ambito giudiziale.

La fase procedimentale cui abbiamo accennato pur essendo estranea al procedimento giudiziale è spesso destinata a confluire nel medesimo con ripercussioni spesso rilevanti.

Ci riferiamo in primo luogo alla contestazione che in nome del principio di immutabilità cui abbiamo fatto cenno dovrà essere aderente alle difese processuali del convenuto e i casi di difformità potranno essere eccepiti dal ricorrente.

Anche la genericità della contestazione potrà rilevare in sede giudiziale, ma in questo caso se l’eccezione è fondata non si perverrà neppure alla fase istruttoria.

Nel caso in cui, venga rilevata la genericità della contestazione, ritengo opportuno rilevarla già in sede disciplinare, evitando di svolgere una difesa compiuta, va rilevato che la mancata risposta alla contestazione non equivale ad ammissione del fatto. Il tenere in eccessivo conto un eccezione dall’esito incerto potrebbe comunque inficiare la fase difensiva.

Nel caso di tardività della contestazione, è pure opportuno rilevarlo formalmente in fase disciplinare, espletando le difese e facendo notare l’eccezione di tardività.

Nel caso di mancato conferimento della documentazione su cui si fonda l’incolpazione, sarà opportuno farlo notare in sede di audizione, astenendosi da altre dichiarazioni.

Per quanto attiene invece alle giustificazioni.

Va posta molta attenzione ad evitare dichiarazioni confessorie del lavoratore o a non contestare i punti su cui si basa l’incolpazione chiedendone la verbalizzazione.

Dichiarazioni confessorie e mancata contestazione in presenza di valida incolpazione possono formare in sede giudiziale elemento di convincimento del giudice.

Per l’audizione, la presenza del sindacalista non è sempre appropriata in quanto questa tipologia di assistenza tende a privilegiare il discorso di insieme e la trattativa anche in senso favorevole al lavoratore, omettendo spesso un compiuto esame del fatto e la sua contestazione.

 

Avvocato Fabio Petracci.

 

Relazione tenuta dall’avvocato Fabio Petracci

nel convegno Il Procedimento Disciplinare nei Rapporti di Lavoro Pubblico e Privato

organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Roma e tenutosi presso la Corte di Cassazione in data 25.5.2021.

Contestazione disciplinare diritto di accesso alla documentazione. Il lavoratore incolpato nell’ambito di un procedimento disciplinare ha diritto ad ottenere copia degli atti che sorreggono l’accusa.

La Corte di Cassazione con la sentenza che segue garantisce l’accesso ai documenti aziendali qualora sia in gioco la tutela del lavoratore e la documentazione sia imposta dalla legge o dalla normativa aziendale.

Il diritto di accesso è considerato dalla Cassazione (ordinanza 14 dicembre 2018 n.32533) non tanto come un eccezione alla tutela dei dati, quanto piuttosto come una forma specifica di tutela che consente al dipendente di esercitare il controllo sui dati che lo riguardano.

Nel caso di specie, un dipendente di un istituto di credito colpito da un procedimento disciplinare richiede l’accesso ai dati e documenti che sorreggono la contestazione e la Corte di Cassazione ne riconosce il diritto.

La sentenza in commento non è l’unica che riconosce al lavoratore incolpato di ottenere nel corso della contestazione disciplinare l’accesso alla documentazione che sorregge l’incolpazione.

Nel caso di specie essa si sofferma principalmente sull’accesso del lavoratore a dati riservati ed infatti in corso di causa è chiamato anche il garante della privacy. Più nette nel senso di affermare un generale diritto di accesso agli atti al lavoratore incolpato ai sensi dell’articolo 7 della legge 300/70 le restanti sentenze.

Infatti recenti pronunce della Suprema Corte (Cassazione n.50/2017, n.6337/2013, 15169/2012 , 23304/2010 , sanciscono un tale diritto e ciò non solo nel procedimento disciplinare dell’impiego pubblico dove esso è regola, ma anche nell’ambito del lavoro privato dove  sebbene neppure la legge n. 300 del 1970, art. 7, non preveda, nell’ambito del procedimento disciplinare, un obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore nei cui confronti sia stata elevata una contestazione disciplinare, la documentazione su cui essa si basa, ha ritenuto la giurisprudenza della Suprema Corte che  il datore di lavoro è tenuto ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali laddove l’esame degli stessi sia necessario al fine di permettere alla controparte un’adeguata difesa, in base ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto.

Oltre alle sentenze appena citate, va ricordata Cassazione n.7581 del 27 marzo 2018 che espressamente afferma come l’articolo 7 della legge 300/70 vada completato con l’obbligo di permettere al lavoratore incolpato di accedere ai documenti su cui si basa l’accusa integrando e completando così il diritto di difesa sancito dall’articolo 7 legge 300/70.

Avvocato Fabio Petracci.

Con il decreto di marzo entra in vigore l’obbligo (onere) di vaccinazione per i sanitari.

L’articolo 4 del Decreto Aprile 2021 giunge al termine di un vivace dibattito in merito all’obbligatorietà del vaccino anti COVID per coloro che esercitano una professione sanitaria di contatto con l’utenza.

Ricordiamo come fosse stata riscontrata la contrapposizione tra coloro che proponevano il licenziamento di quei sanitari che non volessero sottoporsi al vaccino e dall’altra parte coloro che ritenevano non sussistere obbligo alcuno in forza del disposto dell’articolo 32 della Costituzione che escludeva l’esistenza dell’obbligo di trattamento sanitario in assenza di norma di legge che lo autorizasse.

Nel corso delle discussioni, era emersa una via mediana che, a prescindere dall’obbligatorietà del trattamento vaccinale , lo considerava un requisito fondamentale per rendere la prestazione in ambito sanitario; quindi una condizione per poter lavorare in quel settore.

Ne derivava, secondo questa opinione, che il dipendente che non risultava per qualsiasi causa, non vaccinato era inidoneo alla prestazione e poteva di conseguenza essere sospeso.

L’avvio della campagna vaccinale con i relativi intoppi che si sono verificati e l’attenzione dedicatavi dai Media, ha imposto al Governo l’avvio di misure più rigorose.

Con l’articolo 4 del Decreto Aprile 2021 è imposto per il personale sanitario che opera a contatto con i pazienti l’obbligo del vaccino anti COVID.

La misura assume carattere temporaneo finalizzata al completamento del piano di vaccinazione e comunque con termine al 31 dicembre 2021ed è rivolta agli esercenti le professioni sanitarie ed agli operatori di interesse sanitario operanti nelle strutture sanitarie, socio sanitarie, socio assistenziali, pubbliche e private, farmacie e parafarmacie e studi professionali.

Essa consiste nell’obbligo a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione del COVID.

E’ quindi meglio precisato che la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della prestazione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative.

La legge prevede poi un obbligo per gli ordini professionali e per i datori di lavoro di trasmettere entro cinque giorni dall’entrata in vigore del decreto, alle rispettive regioni l’elenco degli iscritti e degli operatori sanitari.

Ne segue un periodo di dieci giorni nel corso del quale, le Regioni provvederanno ad una verifica delle relative posizioni, segnalando alle ASL competenti eventuali inadempienze.

Quindi, nel caso di persistente inadempienza, le ASL provvederanno mediane apposito atto di accertamento a sospendere dal diritto a svolgere le prestazioni e le mansioni di appartenenza.

Da questo quadro sommario, possiamo trarre le seguenti considerazioni:

  1. Non è stato introdotto un obbligo generale di vaccinazione per coloro che lavorano a contatto con il pubblico, ma esclusivamente con il personale sanitario o parasanitario;
  2. L’obbligo è temporaneo;
  3. Impropriamente può parlarsi di obbligo, si tratta di un onere per chi vuole continuare a svolgere le proprie funzioni;
  4. La conseguenza del mancato adempimento non assume connotati disciplinari, ma semplicemente comprime il diritto a svolgere la propria professione e la proprie mansioni, con la conseguenza, almeno ad avviso di chi scrive, che il dipendente non vaccinato, assume il diritto ed il dovere di svolgere altre mansioni anche di carattere inferiore e solo in caso di mancato reperimento di queste ultime, il dipendente potrà non essere retribuito.

Pubblico Impiego – azione disciplinare – Sospensione Cautelare – assenza di provvedimento disciplinare – restitutio in integrum – spetta.

Corte di Cassazione Sezione Lavoro n.4411 del 18.2.2021.

Un dipendente pubblico è imputato di peculato. Viene sospeso in base all’articolo 4 della legge n.97/2001 che impone in tali fattispecie di reati e di condanna anche non definitiva per taluni reati contro la Pubblica Amministrazione la sospensione cautelare del dipendente, con la precisazione che il provvedimento perde efficacia in caso di successivo proscioglimento o assoluzione o dopo il decorso di un termine pari al periodo di prescrizione del reato. L’accusa alla fine cade per intervenuta prescrizione. Il dipendente si dimette e non viene perseguito disciplinarmente.

Egli pertanto nei diversi gradi di giudizio, richiede il pagamento delle somme non percepite in quanto oggetto di sospensione cautelare.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza in esame precisa come la sospensione cautelare nel pubblico impiego tanto quella obbligatoria come nel caso di specie, tanto quella facoltativa prevista anche dalla contrattazione collettiva sono provvedimenti interinali funzionali alla successiva sanzione e, pertanto il venir meno di quest’ultima produce il venir meno degli effetti della sospensione anche sotto l’aspetto economico.

L’istituto della sospensione cautelare nel pubblico impiego ha trovato una prima disciplina nel D.P.R. n. 3 del 1957, per gli impiegati civili dello Stato, articoli da 91 a 99. Tali norme sono state richiamate per il personale delle Unità Sanitarie Locali dal D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, art. 51, comma 1. Dopo la privatizzazione, con la stipula dei contratti collettivi, la regolamentazione è stata fissata dalla contrattazione collettiva, secondo quanto disposto dall’attuale DLGS 165/2001 artt. 69 e 71.

Alle ipotesi di sospensione cautelare previste da tali fonti si è aggiunta una sospensione di carattere speciale e di natura obbligatoria legata alla condanna per specifici reati. La relativa disciplina è stata fissata dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 4,

Nella fattispecie in esame la sospensione è stata disposta ai sensi dell’art. 4 della suddetta L. n. 97 del 2001; la norma sancisce la sospensione obbligatoria del dipendente di amministrazioni o enti pubblici (nonchè degli enti a prevalente partecipazione pubblica) in caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei più gravi delitti contro la pubblica amministrazione. Tra essi figura il delitto di peculato, per il quale il dipendente in questione veniva condannato dal Tribunale penale, procedimento che poi nelle successive fasi processuali diveniva oggetto di prescrizione.

L’art. 4 cui si è fatto cenno stabilisce la inefficacia della sospensione a seguito sia alla sentenza di assoluzione che a quella di proscioglimento. Tale ultima espressione individua le sentenze di non doversi procedere per ragioni processuali, tra le quali è compresa la sentenza di estinzione del reato per prescrizione. Il legislatore del 2001 nell’introdurre la normativa attuale mediante la legge 97/2001, ha recepito sul punto i principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza 3 giugno 1999 n. 206, nell’offrire l’interpretazione conforme a Costituzione della disciplina allora contenuta nella L. n. 55 del 1990, art. 15, comma 4 septies.

La sentenza di cui in epigrafe è stata chiamata a definire, cessati gli effetti della sospensione obbligatoria, la sorte della obbligazione retributiva che fa carico al datore di lavoro pubblico.

In riferimento alla sospensione facoltativa disposta a seguito di procedimento penale – a norma del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 91 o secondo la regolamentazione della contrattazione collettiva, la Suprema Corte con orientamento consolidato (fra le altre, Cass. nn. 5147/2013, 15941/2013, 26287/2013, 13160/2015, 9304/2017, 10137/2018, 20708/2018, 7657/2019, 9095/2020) ed in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa (C.d.S., Ad plen. 28.2.2002 n. 2) e costituzionale (Corte Cost. 6 febbraio 1973 n. 168), ha chiarito che la sospensione cautelare, in quanto misura interinale, ha il carattere della provvisorietà e della rivedibilità, nel senso che solo al termine e secondo l’esito del procedimento disciplinare si potrà stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata e debba sfociare nella destituzione o nella sospensione disciplinare, ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti. In particolare, ogni qualvolta la sanzione disciplinare non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura ed entità tali da non giustificare la sospensione sofferta sorge il diritto alla restitutio in integrum, che ha natura retributiva e non risarcitoria, e ciò a prescindere dalla espressa previsione della legge o della contrattazione collettiva.

Si è ritenuto, dunque, che in caso di omissione del procedimento disciplinare anche l’eventuale condanna penale intervenuta nei confronti del dipendente non sia suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio disposta in corso del procedimento penale e stabilita dalla amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto.

Per quanto attiene invece la cessazione dal servizio intervenuta nel corso del procedimento disciplinare, la legge DLGS 165/2001 all’articolo 55 bis , comma 9, prevede che la cessazione del rapporto con la pubblica amministrazione (non il trasferimento ad un’altra amministrazione) provoca la cessazione del procedimento disciplinare, salvo il caso di licenziamento disciplinare ed il caso in cui sia in corso la sospensione cautelare e la decisione in sede disciplinare porti alla irrogazione del provvedimento disciplinare cui la stessa è finalizzata.

Dunque, nel caso di specie, l’Amministrazione avrebbe potuto portare a termine il procedimento disciplinare anche di fronte al trasferimento del dipendente al fine di mantenere l’efficacia della sospensione cautelare, cosa che non ha fatto e quindi, secondo la Cassazione citata il provvedimento ha perso ogni effetto.

Fabio Petracci

Licenziamento – reintegra – ferie – spettano. Corte di Giustizia Europea Sentenza del 25/6/2020 Prima Sezione – Cause riunite C-762/18 e C-37/19

Le ferie si maturano anche in caso di licenziamento illegittimo.

 Lo afferma la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La decisione ha ad oggetto un licenziamento illegittimo che determina la reintegra del lavoratore il quale essendo rimasto forzatamente assente chiede il riconoscimento del periodo di ferie maturate dalla data del recesso e la reintegrazione, sul presupposto che detto periodo debba a tutti gli effetti essere riconosciuto quale periodo di effettivo lavoro.
A tale riguardo, la Corte di Giustizia afferma che in caso di licenziamento, successivamente dichiarato illegittimo, le ferie maturate nel periodo compreso tra il recesso e la reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro, deve essere assimilato ad un periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione delle ferie maturate o in alterativa, laddove per qualsivoglia ragione non possa fruirne, ad un’indennità sostitutiva delle stesse. Ciò in quanto, non avere potuto svolgere la propria prestazione, rientra tra i motivi indipendenti dalla volontà del dipendente.

Un nuovo intervento della Corte Costituzionale in tema di licenziamenti

La Corte costituzionale, riunita oggi in camera di consiglio, ha esaminato la
questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Ravenna sull’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori, come modificato dalla cosiddetta legge Fornero (n. 92 del
2012), là dove prevede la facoltà e non il dovere del giudice di reintegrare il
lavoratore arbitrariamente licenziato in mancanza di giustificato motivo oggettivo.
La Corte ha ritenuto che sia irragionevole ² in caso di insussistenza del fatto – la
disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa: in
questo caso,spetta alla discrezionalità del giudice la scelta tra la stessa reintegra e la corresponsione di
un risarcimento.
Le motivazioni della sentenza saranno depositate nelle prossime settimane.
Roma, 24 febbraio 2021

Interpretazione autentica dell’articolo 38 del DLGS 81/2015. Licenziamento e somministrazione illecita di manodopera.

Il licenziamento intimato dal somministrante è privo di effetto provenendo da chi non è reale datore di lavoro.

 

A chiarimento di fondati dubbi di dottrina e giurisprudenza interviene il DL 19.5.2020 e successiva legge di conversione n.77/2020 che stabilisce l’interpretazione autentica del comma 3 dell’articolo 38 del DLGS 81/2015 ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento.

Per comprenderne la portata giova la ricostruzione della normativa che pareva aver introdotto un duplice licenziamento ( o meglio con duplice imputazione)  per il lavoratore che aveva avuto la ventura (meglio sventura) di lavorare nell’ambito di una illecita somministrazione di manodopera.

  1. La questione.

In tema di somministrazione irregolare, il reale utilizzatore quasi mai, per evidenti motivi, provvede al licenziamento del lavoratore che viene invece effettuato dal datore di lavoro apparente.

Per costante indirizzo giurisprudenziale, non era riconosciuto al datore di lavoro apparente il potere di licenziare e quindi, il recesso da questi intimato doveva considerarsi come mai avvenuto e pertanto, il rapporto di lavoro era destinato a proseguire con l’utilizzatore il quale avrebbe dovuto così direttamente assumersi l’onere del licenziamento.

Tra il 2011 ed il 2015 tra collegato lavoro e jobs act, sono state emanate diverse norme atte ad evitare che delle tardive le azioni per il riconoscimento del rapporto di lavoro in capo ad un determinato soggetto potessero avere per l’impresa, dato il passare del tempo ed il pieno e la decorrenza del diritto, effetti devastanti sui soggetti datori di lavoro che subivano l’azione.

L’articolo 32 della legge 4.11.2010 n.183 (collegato lavoro) estende così i termini di decadenza per l’impugnazione del licenziamento (60 giorni per l’impugnazione e da questi 180 giorni per l’avvio del contenzioso) a tutti i casi dove il ricorrente chieda la costituzione di un rapporto di lavoro diverso dal formale titolare, ivi compresa l’ipotesi di cui all’articolo 27 del DLGS 276/2003.

Dunque nel caso di somministrazione irregolare, il lavoratore che avesse voluto ottenere il riconoscimento del rapporto di lavoro intercorrente con l’utilizzatore avrebbe dovuto agire a pena di decadenza entro i predetti termini.

Ponendosi l’interrogativa da quando far decorrere il termine di decadenza, appare ragionevole ritenere che esso coincida con la cessazione del rapporto oggetto della somministrazione.

A questo punto però la questione si complica alquanto.

  1. L’interpretazione dell’articolo 27 del DLGS 276/2003 e del successivo articolo 38 del DLGS 81/2015.

L’articolo 27 del DLGS 276/2003 cui abbiamo fatto cenno, stabiliva  al comma 2 che nel caso di riconoscimento del rapporto di lavoro in capo al reale utilizzatore, tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino alla  concorrenza della somma effettivamente pagata e che inoltre tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, dovevano intendersi  come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione.

La norma quindi imputa ad entrambi i soggetti somministrante illegittimo e destinatario della somministrazione ogni atto inerente il rapporto di lavoro del somministrato irregolare.

Non vi era espressa menzione del licenziamento che si sarebbe potuto intendere anche alla stregua di uno degli atti concernenti la gestione del rapporto.

La norma appena esaminata era abrogata dal DLGS 81/2015 che all’articolo 38 così dispone:

  1. In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore.
  2. Quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 31, commi 1 e 2, 32 e 33, comma 1, lettere a), b), c) e d), il lavoratore può chiedere, anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione.
  3. Nelle ipotesi di cui al comma 2 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione. (71)
  4. La disposizione di cui al comma 2 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

 

Rimaneva quindi ferma la previsione o meglio interpretazione che vuole imputabili ad entrambi i soggetti somministrante e somministrato l’imputazione degli atti di gestione del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza della Suprema Corte avvallava una simile interpretazione (Cassazione 13.9.2016 n.17969).

Affermava la Suprema Corte che l’articolo 27 del DLGS 276/2003 disponendo, in maniera espressa ed inequivoca che “tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o per la gestione del rapporto, si intendono compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione”, sancisce che l’utilizzatore subentra nei rapporti così come costituiti e poi gestiti dal somministratore.

Doveva , pertanto, ritenersi, statuiva la motivazione della sentenza, che, vi fosse , un’ unica matrice, per quel che riguarda la tipologia di lavoro, che viene ricondotto all’utilizzatore negli stessi termini in cui era stato voluto (costituito) e poi gestito dal somministratore,  per quanto riguarda tutti  gli atti di gestione del rapporto che producono quindi, per espressa volontà del legislatore, tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento.

Ne conseguiva, secondo la Cassazione, che il licenziamento anche se intimato, come nella fattispecie in esame, dal somministratore avrebbe dovuto essere impugnato nei sessanta giorni successivi alla sua comunicazione, pena la ordinaria decadenza dell’azione di annullamento anche rispetto all’utilizzatore, non potendo ormai trovare applicazione i principi affermati da questa Corte con riguardo alla L. n. 1369 del 1960.

A conclusioni analoghe perveniva successivamente Cassazione n.6668 del 7.3.2019, la quale però aderiva alla tesi già formulata in precedenza dalla Corte in nome della funzione di nomofilachia della Corte medesima e non avendo la parte interessata formulato diverse ragioni a contestare detto orientamento.

Dunque conseguenza di questa previsione e della sua interpretazione, era il fatto che allorquando il fittizio datore di lavoro (somministrante illegittimo) licenziava il somministrato, il licenziamento avrebbe dovuto intendersi anche come proveniente dall’utilizzatore.

In realtà, molto tempo prima, ma già nella vigenza dell’articolo 27 DLGS 276/2003, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ( sentenza n.22910 del 26.10.2016) avevano diversamente ritenuto  come la normativa di cui all’articolo 27 del DLGS 276/2003 si presentasse come eccezione alla regola generale che imputa il rapporto di lavoro a chi effettivamente instaura il contratto, e come a tale  eccezione non poteva aggiungersi l’ipotesi non prevista del licenziamento e dei suoi effetti da imputarsi ad entrambi i soggetti imprenditore illegittimamente somministrante ed utilizzatore della prestazione.

  1. Altre considerazioni d’ordine costituzionale e comunitario.

Oltre a quest’ultima autorevole giurisprudenza, militano a favore di queste ultime conclusioni altre considerazioni anche di ordine costituzionale e comunitario.

L’interpretazione che vuole come tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione e la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione, verrebbe ad imporre, come abbiamo visto, l’impugnazione nei confronti di quest’ultimo, del licenziamento in sede stragiudiziale e giudiziale entro limiti temporali a pena di decadenza e nell’ambito della motivazione adotta dal datore di lavoro fittizio (illecito somministratore).

Su tale base, si finirebbe per pretendere che il dipendente illecitamente somministrato debba impugnare un licenziamento intimato da chi (irregolare somministrante) non è realmente il suo datore di lavoro e quindi, sulla base di una motivazione inerente un rapporto di lavoro che non lo riguarda, o ancor meglio non esiste e comunque proviene da un soggetto terzo (somministratore).

Infatti, il somministratore che non è datore di lavoro non ha il potere di licenziare né comunque può giustificare il licenziamento con fatti che riguardano alla fine un soggetto estraneo al rapporto. Il potere, in questo caso, gli viene attribuito sulla base di una “fictio” di natura legale e quindi nella stessa logica si imporrebbe una motivazione fittizia ed un onere di impugnare la stessa in merito alla quale è lecito nutrire dei dubbi.

La legge finirebbe così per creare un potere che non esiste e che non rispecchia una situazione reale, giungendo a simulare una situazione che come giusta causa o giustificato motivo potrebbe rendere legittimo il licenziamento.

Di fronte ad un tanto, non rimane che ribadire come il soggetto licenziato in questo caso non possa essere toccato da fatti giuridici limitati alla sfera di un soggetto estraneo al rapporto di lavoro.

La questione si pone in maniera ancor più evidente e reale di fronte a quello che, come la motivazione, è, nel nostro ordinamento, e non solo, il primo requisito di legittimità del recesso.

La motivazione del licenziamento deve assolutamente essere reale e pertinente al contesto lavorativo, altrimenti non è una vera motivazione.

La motivazione è un elemento fondamentale del licenziamento e la sua violazione involge anche aspetti di costituzionalità e di coerenza con la normativa comunitaria.

La legge a questo punto non può automaticamente trasferire ad un soggetto terzo le ragioni esplicitate da altri per giustificare il recesso.

Appare irragionevole sostenere l’esistenza di una proprietà transitiva delle motivazioni e del potere di licenziare.

La legge potrebbe semmai imputare formalmente la provenienza dell’atto ad altro soggetto per quanto riguarda i termini e l’interruzione del rapporto, ma non potrà mai trasporre le ragioni da un soggetto all’altro.

La motivazione deve essere reale ed imputabile fattualmente al reale titolare   del rapporto.

Dunque, una lettura costituzionalmente orientata porta a ritenere vero atto di licenziamento solo quello proveniente dal soggetto che ha utilizzato la prestazione.

Una diversa lettura del secondo comma dell’articolo 27 DLGS 276/2003 e successivamente dell’articolo 38 del DLGS 81/2015 finirebbe per collidere con l’articolo 3 della costituzione in quanto espone il soggetto somministrato a differenza di altri soggetti destinatari di licenziamento, sarebbe onerato ad impugnare una motivazione che non è in alcun modo rilevabile e contestabile presso il reale datore di lavoro. Tale differenza giustificata sino a quando sia necessario a far decorrere rapidamente e senza incertezza i termini di definizione della causa, non è più razionale e giustificata, allorquando impone ad un soggetto di contestare una situazione fattuale che non esiste.

Sempre in relazione all’articolo 3 della Carta costituzionale, la norma così intesa pare confliggere anche con il principio di ragionevolezza limite costituzionale al potere del legislatore (articolo 3 Costituzione).

La norma in effetti nel voler contemperare il giusto interesse dell’impresa a vedere una definizione in tempi ragionevoli di eventuali controversie per il riconoscimento di un rapporto di lavoro, penalizza in maniera senza dubbio abnorme il lavoratore che si trova a dover impugnare un recesso comunicato da un soggetto in relazione ad una situazione di fatto in essere presso altro soggetto, quando sarebbe stato sufficiente porre dei termini di decadenza per l’impugnazione di un licenziamento che proviene da chi di fatto non è il reale datore di lavoro.

La situazione delineata apre come già accennato, anche altri notevoli interrogativi d’ordine costituzionale e di conformità all’ordinamento comunitario.

Un simile impianto normativo collegato alle recenti modifiche apportate all’articolo 18 legge 300/70 dalla legge 92/2012 e di seguito dal Jobs Act sulle tutele crescenti DLGS 23/2015 che, nel caso di recesso soprattutto motivato come licenziamento economico, o addirittura privo di motivazione, potrebbero comportare la sola tutela risarcitoria, faciliterebbe in maniera irragionevole e abnorme l’utilizzatore della somministrazione illecita, che potrebbe giovarsi di motivazioni apparenti provenienti dall’illecito somministrante.

In pratica, il legislatore lungi dall’introdurre adeguate normative di tutela del posto di lavoro e di contrasto a forme illegittime di intermediazione realizzando così un contemperamento tra i principi costituzionali in tema di protezione del lavoro con quelli a promozione dell’imprenditorialità, si sostituisce al datore di lavoro che versa in una situazione di illecito, ed introduce delle norme atte a favorire un comodo recesso.

La norma così formulata e nella sua interpretazione letterale appare comunque contraria all’ articolo 4 della Carta Costituzionale, in quanto una simile lettura non agevola e favorisce l’accesso al lavoro e la sua conservazione.

Essa peraltro contrasta con l’articolo 24 della Costituzione in quanto finisce per violare il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti, dovendo il lavoratore impugnare e disattendere una motivazione necessariamente generica e fittizia.

Il tema trattato involge pure il diritto comunitario.

E’ vero che non sussiste direttiva comunitaria alcuna in tema di licenziamento, ma pur in assenza di una direttiva sul licenziamento individuale, il diritto europeo incide comunque su alcuni profili delle discipline nazionali, grazie, ad alcuni importanti principi di natura comunitaria in tema di politica sociale.

Ci riferiamo in primo luogo, all’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali UE che stabilisce il principio in base al quale ogni licenziamento deve trovare giustificazione.

Stabilisce l’articolo 30 della Carta dei Diritti Fondamentali UE ( tutela in caso di licenziamento ingiustificato) Che ““Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.”

La tutela, ad avviso di chi scrive, presuppone che il provvedimento provenga anche formalmente da chi ne pone in atto gli effetti e si basi su di una motivazione reale e conoscibile da parte del lavoratore.

Di seguito, si richiama pure l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che aggiunge alla tutela anche i mezzi per attuarla individuando un valido motivo legato alla condotta del lavoratore o al funzionamento dell’impresa datrice di lavoro.

Attento esame merita pure, anche se non di provenienza comunitaria, la convenzione OIL n.158/1982.

Essa pone limiti di livello internazionale alla facoltà di licenziare.

La convenzione si snoda in una serie compiuta di previsioni che risultano complete e precise.

L’articolo 4 nel riaffermare l’obbligo della motivazione, rispetto alla normativa comunitaria sinora esposta, specifica quali debbano essere i motivi leciti di recesso che devono essere limitati all’attitudine o alla condotta del lavoratore o alle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Il testo dell’articolo 4 della convenzione OIL n.158/1982 è il seguente:

Un lavoratore non dovrà essere licenziato senza che esista un motivo valido di licenziamento legato all’attitudine o alla condotta del lavoratore, o fondata sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Di seguito gli articoli 7 e 8 stabiliscono importanti regole procedurali a garanzia del lavoratore che contemplano il ricorso ad una autorità terza, e l’onere della prova della legittimità del licenziamento a carico del datore di lavoro, determinando in linea di massima gli obblighi riparatori.

  1. In conclusione.

La norma di interpretazione autentica fa chiarezza su di un punto dove già la giurisprudenza sarebbe potuta intervenire anche in relazione alla autorevole pronuncia delle Sezioni Unite del 26.10.2006 n.22910.

Ora, il licenziamento proveniente dall’illecito somministrante, deve ritenersi “ tamquam non esset”.

Conformemente si è espressa la giurisprudenza di merito – Tribunale di Roma terza Sezione Lavoro Giudice Lionetti 3.2.2021 causa promossa dallo Studio Panici.

Fabio Petracci.

 

 

 

 

 

 

Licenziamento – permesso mensile di 3 giorni per assistenza a persona con handicap – Disbrigo di pratiche amministrative o attività coerenti con l’assistenza al disabile –

La Corte di Cassazione con la sentenza che si annota ribadisce il principio in base al quale il diritto del lavoratore dipendente ai permessi per assistere la persona con handicap grave, deve porsi in relazione diretta con l’esigenza di soddisfazione del diritto stesso.

E’ confermato l’orientamento della Corte ( Cassazione n.17968 del 2016) in base al quale un uso difforme deve a tutti gli effetti qualificarsi come abuso, anche qualora l’uso dei permessi rivesta una funzione meramente compensativa.

Sussiste in ogni caso il nesso con l’esigenza tutelata dalla legge e non può parlarsi di abuso qualora il lavoratore utilizzi il permesso per esigenze anche indirettamente connesse all’assistenza al disabile grave, come ad esempio, il recarsi a svolgere pratiche burocratiche nell’interesse del medesimo.

 

Decreto Agosto – conversione in legge – le novità in materia di diritto del lavoro.

Con la legge 13 ottobre 2020 n.126 è stato convertito in legge il decreto legge 14 agosto 2020 n.104 (decreto agosto).

Sono state così introdotte in tema di lavoro alcune novità che si segnalano.

Restano in vigore:

La CIG COVID sino al 31.12.2020.

Il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo prorogato sino al 31.12.2020, con la possibilità di licenziare con tale causale per chi prima di quella data abbia esaurito le 18 settimane di CIG.

 

Novità.

 

I contratti a termine possono sino al 31.12.2020 essere prorogati per una sola volta e senza causale sino al 31.12.2020.

 

I contratti di somministrazione (interinale) sino al 31.12.2020 possono essere prorogati con la medesima persona oltre ai 24 mesi, purchè il medesimo lavoratore venga assunto a tempo indeterminato dall’agenzia somministratrice che ne deve dare comunicazione scritta all’utilizzatore.

 

Lavoro Agile deve essere concesso a chi abbia figli in quarantena per contagi avvenuti in ambito scolastico o sportivo-

 

Congedo Straordinario per gli stessi qualora sia inattuabile il lavoro agile.

 

Lavoratori Fragili collocazione in malattia sino al 31.12.2020 poi destinati al lavoro agile.

 

Scuola, personale docente ed ATA assunto quale organico COVID con contratto a tempo determinato per l’anno scolastico 2020/2021 in caso di Lock Down della scuola proseguirà con rapporto di lavoro agile.

 

 

 

 

 

 

 

Pubblico Impiego – Responsabilità Disciplinare – Licenziamento – Sanzioni disciplinari e licenziamento.

Il testo della lezione tenuta dall’avv. Petracci all’AGI -Associazione Giuslavoristi Italiani  il 2 ottobre 2020.

Pubblico Impiego – Responsabilità Disciplinare – Licenziamento – Sanzioni disciplinari e licenziamento.

  1. Aspetti comuni e generali
  2. Breve excursus storico
  3. Le fonti del potere disciplinare
  4. La procedura e la sanzione aspetti generali
  5. Il licenziamento

Aspetti comuni e generali

In ogni rapporto di lavoro, qualunque ne sia la connotazione normativa, la prestazione deve essere improntata a criteri di diligenza nei termini richiesti dalla natura della prestazione, ma anche da obblighi collaterali connessi alla fedeltà ed a condotte immuni dall’ interferire negativamente sul rapporto di lavoro. Non è però questa l’unica forma di responsabilità che incombe sul prestatore.

  • La sanzione disciplinare non esclude altre responsabilità del dipendente pubblico.

Responsabilità contrattuale – risarcitoria.

Il dipendente sarà in ogni caso, tenuto al risarcimento del danno al datore di lavoro nel caso di inesatto adempimento o inadempimento.

  • La base civilistica.

L’articolo 2086 –  l’articolo 2104 – 2106 – del codice civile.

Nell’ambito del codice civile, troviamo la norma di cui all’articolo 2086 che individua nell’imprenditore il capo dell’impresa, cui compete il potere gerarchico sui propri collaboratori.

La norma si completa con l’articolo 2104 che impone al prestatore un obbligo di diligenza, con l’articolo 2105 che impone un generale obbligo di fedeltà e, con l’articolo 2106, che consente nel caso di violazione dei suddetti obblighi, l’irrogazione di una sanzione disciplinare.

  • Dal Diritto amministrativo al diritto civile.

Con la riforma del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, trovava applicazione al rapporto di lavoro l’ordinaria disciplina del lavoro nell’ambito dell’impresa, ivi comprese le norme del codice civile.

  • Permangono però rilevanti specificità.

Alcuni aspetti del lavoro pubblico videro preservata la loro specificità, tra questi, le norme disciplinari, in nome della peculiarità del rapporto di lavoro.

Ciò non significa che l’ordinaria normativa sia incompatibile con il lavoro alle dipendenze pubbliche, ma essa è integrata e corretta da specifiche norme.

  • Le molteplici forme di responsabilità del dipendente pubblico. Nel pubblico impiego alla responsabilità disciplinare si aggiungono altre forme di responsabilità.

Nell’ambito del lavoro pubblico, si aggiungono poi altre forme di responsabilità specificamente normate.

Ci riferiamo alla responsabilità contabile per danni inflitti all’amministrazione, ed alla responsabilità nei confronti dei terzi, rafforzata dal principio costituzionale di cui all’articolo 28 che consente al cittadino danneggiato di rivalersi anche e direttamente sul dipendente che gli ha arrecato il pregiudizio. Ancor più specifica è la responsabilità dirigenziale a garanzia della corretta ed efficiente azione della dirigenza.

Ciò è per la gran parte dovuto all’ambito costituzionale, in cui è inserito il lavoro del dipendente pubblico.

Tratto comune alla responsabilità disciplinare, sia nel rapporto di lavoro nell’impresa, che in quello alle dipendenze delle pubbliche amministrazione, è la natura del bene tutelato e la finalità dell’istituto.

  • Peculiarità che si manifestano anche nella disciplina contrattuale.

Trattasi sicuramente di un potere contrattuale, ma che non punta tanto a reagire in maniera simmetrica ed automatica di fronte all’inadempimento, come ad esempio, imponendo una riparazione, quanto piuttosto esso punta in primo luogo a preservare la compattezza e la funzionalità dell’organizzazione, tanto che il fine risolutivo ne rappresenta solo l’estrema possibilità.

La normativa in materia è da intendersi ispirata all’articolo 97 della Costituzione, che vuole l’agire della pubblica amministrazione sia ispirato a criteri di imparzialità e di buon andamento.

  • L’attività del pubblico dipendente finalizzata al bene della collettività e non ad un interesse imprenditoriale.

In sintesi, è richiesto un nesso diretto e prevalente tra l’attività dei pubblici dipendenti ed il bene comune, laddove nell’impresa, il bene comune può raggiungersi con la sintesi degli interessi dei singoli privati per qualunque via, che non sia vietata dalla legge.

Da ciò ribadiamo, che anche dopo la cosiddetta privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, numerosi aspetti del rapporto di lavoro pubblico mantengano una loro tipicità, come la materia della responsabilità disciplinare.

 

Breve excursus storico

  • La legge Giolitti

Già agli albori del secolo scorso, il testo unico statuto degli impiegati civili, legge 290/1908 poi trasfuso nel T.U. degli impiegati civili dello Stato (legge Giolitti), conteneva una serie di norme dedicate alla disciplina del personale.

  • La legge 3/1957

Dopo l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, era promulgata la legge n. 3/1957 che disciplinava l’impiego pubblico ed i doveri del dipendente.

  • Le caratteristiche dei vecchi sistemi.

Obblighi generici – Apparato procedurale di estrema complessità.

Questi doveri che erano compendiati in termini molto ampli e generici, dati da concetti come onore e decoro.

Meno discrezionale invece, era l’apparato procedurale, quanto mai minuzioso e farraginoso.

Dunque ampiezza nell’individuare le fattispecie disciplinarmente rilevanti e complessità della procedura. Il tutto si risolveva spesso nell’impossibilità di applicare la sanzione.

  • Il cammino verso la modernità.

Anche il lavoro pubblico risente dei grandi mutamenti del lavoro degli anni 70. – Il cammino verso un sistema sanzionatorio predefinito e razionale.

  • Lo statuto dei lavoratori.

Contestualmente o di lì a poco, negli anni 70, il mondo del lavoro subiva grandi cambiamenti, che si riflettevano anche sul piano normativo soprattutto con lo statuto dei lavoratori che limitava il potere disciplinare mediante l’articolo 7 dello Statuto, che imponeva la predeterminazione delle sanzioni unitamente ad una procedura snella e garantista.

  • Verso la contrattualizzazione. – La legge 93/83.

Seguiva in tema di pubblico impiego, la legge 93/83 che con l’articolo 22, rendeva necessaria anche nell’ambito sanzionatorio dei pubblici dipendenti, la predeterminazione della sanzione ed il diritto di difesa del dipendente.

Tempo dopo, il Consiglio di Stato emetteva un parere che riteneva possibile una responsabilità disciplinare su base contrattuale.

Era quindi il DLGS 546/93 che riconosceva ai contratti collettivi la facoltà di definire la tipologia delle sanzioni.

  • La contrattualizzazione

Il cambiamento è ancora maggiore con la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego.

La trasformazione giungeva all’epilogo, con il DLGS 29/93 che all’articolo 4, riconosceva come il datore di lavoro pubblico agisca con i poteri del privato.

Permangono elementi di specificità destinati a modularsi nel tempo.

Rimaneva comunque una specificità dell’istituto sanzionatorio nel pubblico impiego. Detta specificità era ripresa dal DLGS 150/2009 (riforma Brunetta) che ci presenta l’attuale impianto sanzionatorio.

Sintesi.

Anche in quest’ambito si passa da principi generali ed unilaterali a criteri specifici di natura contrattuale;

Si crea così una vera e propria procedura.

 

Le fonti del potere disciplinare

Riconosciuti i principi generali che connotano la responsabilità disciplinare in ambito lavoristico, riconosciuta la natura contrattuale del rapporto di lavoro, è affidata alla contrattazione collettiva, in concorso con la legge, la disciplina sanzionatoria; del resto nulla vieta che la parte sanzionatoria sia affidata ad una pluralità di fonti.

  • La contrattazione collettiva.

Sebbene la riforma di cui al DLGS 150/2009 abbia inibito alla contrattazione collettiva di disciplinare l’aspetto procedurale delle sanzioni, attribuendo inoltre alle norme introdotte la disciplina del procedimento sanzionatorio, ad oggi le fattispecie disciplinari e quindi l’entità delle sanzioni sono in gran parte ancora disciplinate dalla contrattazione collettiva. Non mancano però, come vedremo, le fonti legali.

Molti contratti collettivi portano in allegato un codice di condotta.

Per quanto riguarda la pubblicità delle norme sanzionatorie, il DLGS 165/2001 nella versione attuale che ha fatto seguito al DLGS 150/2009, prevede l’equipollenza tra l’affissione del codice disciplinare all’ingresso della sede di lavoro e la sua pubblicazione sul sito web dell’amministrazione.

L’innovazione contenuta all’articolo 55 del DLGS 165/2001 eviterà sicuramente il proliferare dei contenziosi spesso fondati dove si eccepiva la mancata o insufficiente affissione del codice disciplinare.

Sintesi.

Notiamo un graduale ritorno alla fonte legale a garanzia dell’effettività e serietà della sanzione;

Un tanto in base ai più recenti interventi normativi:

Legge 150/2009 – legge Brunetta

Legge 124/2015 e DLGS 75/2017 – legge Madia

  • Il codice di comportamento previsto dall’articolo 54 Dlgs165/2001

Il codice di comportamento ha ormai acquisito valenza disciplinare e non meramente etica. Il primo codice di condotta venne adottato con D.M della funzione pubblica del 31.3.1994 e venne quindi adottato uno nuovo con D.P.C.M. del 28.11.2000.

Ora questa specifica fonte è prevista dall’articolo 54 comma 3 del DLGS 165/2001, come forma di integrazione al CCNL.

  • L’influenza della legge anticorruzione sul sistema disciplinare ed in particolare sul codice di comportamento.

E’ stata proprio la  legge anticorruzione (legge 7.11.2012 n.190) a prevedere l’inserimento in ambito disciplinare di norme atte a prevenire, e reprimere, i fenomeni di corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione, prevedendo un generale codice di comportamento, da integrarsi con uno specifico, per ciascuna amministrazione. Fu proprio questa legge ad introdurre il sopra citato articolo 54, comma 3, del DLGS 165/2001.

Tale fonte del potere disciplinare è ora equiparata alla parte disciplinare del contratto collettivo.

Sintesi.

Il codice di comportamento assume valenza di fonte specifica ed atipica del sistema disciplinare pubblico.

  •  La legge.

Con l’entrata in vigore del DLGS 165/2001 diverse fattispecie disciplinari trovano la loro fonte proprio in questa legge. E’ affidata inoltre alla legge la definizione procedurale in materia disciplinare.

Dunque, toccheremo mediante una compiuta esposizione tutto il campo disciplinare del pubblico impiego privatizzato, per soffermarci poi sugli aspetti procedurali, con i tempi di durata che li caratterizzano e con l’intervento prospettato dalla legge delega.

 

La procedura disciplinare e la previsione sanzionatoria – principi generali

  • Il binomio legge contratto e la natura imperativa delle disposizioni disciplinari.

La materia si identifica in una parte ben delimitata del testo unico sul pubblico impiego, DLGS 165/2001.

Essa tra l’altro ha subito gli effetti del DLGS 150/2009 (Riforma Brunetta), improntato a criteri di estrema rigorosità, ma anche a regole automatiche ad evitare probabilmente derive di ingiustificata permissività.

  • L’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 – Lo snodo della materia.

La norma generale è data dall’articolo 55 del Dlgs 165/2001 dove si leggono i principi generali della materia e riservano l’aspetto procedurale disciplinare alla regolamentazione di legge.

L’articolo in tal modo definisce le fonti che disciplinano la materia come fonti imperative che non possono essere derogate né dalla contrattazione collettiva, né tantomeno dalle parti.

  • Cosa residua alla fonte collettiva.

Alla contrattazione collettiva è riservato solo di determinare la tipologia delle infrazioni e delle sanzioni.

La norma ha una sua razionalità in quanto solo la normativa di settore può conoscere la gravità di determinate situazioni e la sanzione appropriata.

Rimane alla legge in termini inderogabili la disciplina della procedura per l’irrogazione della sanzione.

  • Imperatività ed inderogabilità.

Esso significa che la materia è per la gran parte inderogabile da parte della contrattazione collettiva, dai regolamenti   dalla volontà dei soggetti che sono parte del procedimento.

  • La residua competenza della contrattazione collettiva. – Con l’avvertimento che i casi di responsabilità e le sanzioni possono essere definiti anche dalla legge.

La tipologia dei casi di responsabilità è affidata alla contrattazione collettiva, ma non in maniera esaustiva e completa. Il sistema disciplinare nell’attuale regime giuridico del lavoro pubblico privatizzato evidenzia dal 2009 in poi , un generale ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva (in precedenza fonte privilegiata dopo il DLGS 29/93, a vantaggio della fonte legislativa.

Un tanto trova conferma nell’articolo 40 comma 1 del DLGS 165/2001 che prevede che nella materia relativa alle sanzioni disciplinari, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge, chiude il sistema l’articolo 55 comma 1 del medesimo decreto legislativo che, come già notato, attribuisce alle norme disciplinari ivi contenuto carattere di norme imperative.

  • La cedevolezza della disciplina contrattuale in favore di quella legale.

Ne consegue che le previgenti norme contrattuali in tema di sanzioni ben possono essere affiancate da previsioni legislative, ma se in contrasto con queste ultime possono essere sostituite di diritto. (Vito Tenore, Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Giuffrè, 2017,94 e seguenti).

In proposito va sottolineato come le norme contrattuali in materia, in caso di contrasto con le fonti legislative inderogabili sono considerate nulle di diritto ed automaticamente sostituite  ex articolo 1339 e 1419.

Va notato poi che nella materia disciplinare è intervenuta pure la legge 190 del 2012, legge anticorruzione.

  • Il principio di inderogabilità impone anche obblighi collaterali nell’applicazione della sanzione.

A. L’obbligatorietà.

L’imperatività delle norme procedurali che concernono la sanzione disciplinare nel pubblico impiego comportano un corollario di norme e di principi riferibili all’obbligatorietà dell’avvio dell’azione stessa di fronte a notizia con ipotetico fondamento e l’obbligo per i dipendenti non incolpati di collaborare nell’azione promossa dalla pubblica amministrazione.

In sintesi l’officialità dell’azione disciplinare e l’inderogabilità delle regole determinano sul piano legale le seguenti regole sancite per la gran parte dall’articolo 55 del DLGS 165/2001:

B. Sono ammesse con notevoli limitazioni le procedure conciliative.

Sono ammesse soltanto procedure conciliative nell’ambito delle quali, la sanzione deve comunque mantenere la tipologia originaria , potendone solo essere ridotta l’entità.

Ad esempio nel cui ambito si può passare da 10 giorni di sospensione a 5, ma mai dalla fattispecie della sospensione alla multa.

Sancisce un tanto l’articolo 55 del DLGS 165/2001.

C. Per il dirigente sussiste l’obbligo di avviare il procedimento disciplinare di fronte alla conoscenza di un fatto non palesemente infondato avente rilevanza disciplinare. L’obbligo è sanzionato disciplinarmente.

D. L’obbligo di collaborazione e segnalazione.

E’ imposto per legge l’obbligo per i dipendenti pubblici di collaborare con gli organi disciplinari.

Esso si applica al dipendente o al dirigente che, a conoscenza di fatti aventi rilevanza disciplinare non li segnala all’amministrazione.

Anche quest’obbligo è sanzionato disciplinarmente.

E. La procedura disciplinare.

  • Il doppio binario.

Con l’articolo 55 bis, come modificato dalla riforma Madia è’ introdotto un doppio binario per disciplinare la sanzione. Il primo riguarda la sanzione minore data dal semplice richiamo orale, il secondo dalle ulteriori e più gravi sanzioni.

  • Per le sanzioni minori.

E’ così stabilito che per le infrazioni di minore gravità, per le quali è prevista l’irrogazione della sanzione del rimprovero verbale, il procedimento disciplinare è di competenza del responsabile della struttura presso cui presta servizio il dipendente. E’ stabilito inoltre che  alle infrazioni per le quali è previsto il rimprovero verbale si applica la disciplina stabilita dal contratto collettivo.

  • L’Ufficio Disciplinare.

La riforma inoltre istituzionalizza in maniera completa l’apposito Ufficio Disciplinare.

Lo fa mediante  il comma 2 dell’articolo 55 bis del DLGS 55 bis prevedendo che ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento e nell’ambito della propria organizzazione, individua l’ufficio per i procedimenti disciplinari competente per le infrazioni punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale e ne attribuisce la titolarità e responsabilità.

Ne è prevista anche la gestione congiunta, laddove al comma 3 si legge che le amministrazioni, previa convenzione, possono prevedere la gestione unificata delle funzioni dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari

  • Un aspetto molto delicato. I termini ed i termini di decadenza.

a Il termine di 10 giorni per la segnalazione all’ufficio disciplinare.

Per quanto attiene i termini per l’avvio della procedura, il comma 4 del DLGS 165/2001 stabilisce che il responsabile della struttura entro 10 giorni segnala il fatto all’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari.

b Il termine di 30 giorni per la contestazione. (a pena di decadenza).

Quest’ultimo ufficio non oltre 30 giorni  dalla segnalazione, provvede poi alla contestazione, convocando l’interessato per l’audizione con un preavviso di almeno 20 giorni e con l’assistenza di procuratore o rappresentante sindacale.

c. Il termine di 120 giorni dalla contestazione per la conclusione del procedimento. ( a pena di decadenza).

Entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito, il procedimento deve concludersi o con l’archiviazione o con l’irrogazione della sanzione.

d. Il termine per inviare gli atti all’Ispettorato per la Funzione Pubblica.

E’ introdotto inoltre un obbligo per l’amministrazione di inviare gli atti di avvio e di conclusione del procedimento all’Ispettorato per la Funzione Pubblica entro 20 giorni dalla loro adozione, indicando il dipendente con un codice identificativo al fine di tutelarne la riservatezza.

  • Quando i termini sanciscono la decadenza.

Per quanto riguarda i termini di decadenza, con l’introduzione dell’articolo 9 ter dell’articolo 55 bis del DLGS 165 / 2001 è delimitata la tassatività della decadenza per la violazione dei termini del procedimento disciplinare, in quanto le ipotesi di decadenza sono ristrette ai casi dove la tardività abbia effettivamente compromesso in maniera irrimediabile il diritto di difesa del dipendente.  Sono così da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento.

  •  La cessazione del rapporto di lavoro produce il venir meno dell’effetto della sanzione, ma ciò non accade per il licenziamento.

Il comma 9 dell’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 che stabilisce come la cessazione del rapporto estingua il procedimento disciplinare, salvo che sia prevista la sanzione del licenziamento o l’applicazione della sospensione cautelare.

  • Il rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale.

Un punto dove il procedimento disciplinare nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato si differenzia dai procedimenti disciplinari in ambito lavorativo è quello del rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale.

  • Viene meno la pregiudizialità penale.

La riforma Brunetta del 2009 ha introdotto l’articolo 55 ter del DLGS 165/2001 che ha fatto venir meno la pregiudizialità penale e consente dunque di procedere con l’applicazione della sanzione anche in pendenza del giudizio penale, fatta salva la possibile revisione del giudizio disciplinare una volta determinatasi la sentenza penale irrevocabile di assoluzione o di condanna.

Dunque la separatezza dei giudizi non comporta l’assoluta indifferenza del procedimento disciplinare rispetto al processo penale.

  • La mera eventualità della sospensione.

Infatti, la sospensione del procedimento disciplinare è solo eventuale allorquando la sanzione sia ipoteticamente superiore ai 10 giorni di  sospensione ed inoltre manchino all’amministrazione sufficienti prove.

  • La possibilità di riaprire il procedimento all’esito del processo penale.

Nel corso della sospensione, il procedimento può essere   riattivato qualora non si sia verificata l’archiviazione o l’assoluzione penale.

Dopo l’intervenuto esito del procedimento penale, si possono verificare nei casi ove sia intervenuta la sospensione,

In ogni caso non sussistono automatismi.

  1. Il dipendente è assolto per non aver commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato – in questo caso, egli entro 6 mesi deve chiedere la riapertura del procedimento.
  2. Se invece nel procedimento disciplinare il dipendente è stato prosciolto e viene condannato nel procedimento penale, l’amministrazione ha 60 giorni di tempo per effettuare una nuova contestazione e riaprire il procedimento disciplinare.
  3. Nel caso di esito sanzionatorio del procedimento disciplinare, in caso di assoluzione nel procedimento penale, l’onere di chiedere la riapertura incombe sull’incolpato.
  • La riapertura del processo disciplinare.

La riforma Madia ha ulteriormente l’articolo 55 ter del DLGS 165/2001 consentendo la riapertura del processo disciplinare sospeso anche qualora pur non definito il processo penale, l’amministrazione venga in possesso di elementi nuovi sufficienti per riaprire il procedimento.

La legge di riforma ha inoltre innovato il comma 4 dell’articolo 55 ter del DLGS 165/2001 stabilendo che nel caso di riapertura del procedimento disciplinare , la contestazione debba essere rinnovata entro 60 giorni dalla comunicazione della sentenza da parte della cancelleria del giudice, quindi il procedimento si svolgerà con l’integrale rinnovo della procedura prevista dall’articolo 55 bis e già menzionata.

Sintesi applicativa.

Non esiste la pregiudiziale penale – il processo disciplinare e quello penale sono autonomi;

Possiamo però dire che essi interferiscono – il procedimento penale una volta definito, viene a pesare nel procedimento disciplinare;

Va notato che un fatto può avere rilevanza disciplinare , ma non penale;

Viceversa un fatto penalmente rilevante potrebbe non interferire diisciplinarmente nel rapporto di lavoro;

Il raccordo tra i due sistemi è dato da:

  1. La sospensione del procedimento nei casi più gravi;
  2. La riapertura del procedimento disciplinare ad accertamento penale avvenuto;

 

Breve sintesi di recente giurisprudenza in tema di procedimenti disciplinari

Mancata istituzione dell’ufficio per i procedimenti disciplinari.- illegittimità del provvedimento.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 21-03-2017, n. 7177

E’ illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore pubblico da un organo incompetente, non essendo stato istituito dall’amministrazione l’ufficio per i procedimenti disciplinari competente, ai sensi dell’ art. 55-bis, 4° commaD.Lgs. n. 165 del 2001, per le sanzioni più gravi della sospensione dal servizio e dalla retribuzione da undici giorni a sei mesi.

 

Termine perentorio per l’irrogazione della sanzione decorrenza dall’acquisizione dell’ufficio della completa notizia dell’infrazione.

Cass. civ. Sez. lavoro, 20-03-2017, n. 7134 (rv. 643567-01)

  1. c. C.

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (ex art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione; ciò vale anche nell’ipotesi in cui il procedimento predetto abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti sui quali è in corso un procedimento penale, per cui sarebbe ammessa la sospensione del primo, e che, comunque, ai fini disciplinari, vanno valutati in modo autonomo e possono portare anche al licenziamento del dipendente. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO NAPOLI, 09/10/2015)

 

 Licenziamento disciplinare. Non serve la condanna penale, necessaria e sufficiente la valutazione del fatto.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 02-03-2017, n. 5317 (rv. 643273-02)

 Nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, l’art. 67 del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 28 maggio 2004 legittima il licenziamento disciplinare, non solo in caso di condanna definitiva per fatti di reato non connessi alla prestazione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi di cui alla lett. h) del comma 5 ed alla lett. e) del comma 6, ma anche per fatti che, ai sensi della lett. d) del comma 6, costituendo, o meno, illeciti di rilevanza penale, siano di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. (Rigetta, CORTE D’APPELLO BARI, 27/05/2015)

 

La pubblica amministrazione nell’istruire la pratica disciplinare può anche servirsi di singoli elementi dell’inchiesta penale.

Cons. Stato Sez. IV, 22/06/2020, n. 3956

In tema di pubblico impiego, in sede disciplinare, a seguito di un processo penale, l’amministrazione può legittimamente tener conto delle risultanze emerse nelle varie fasi del pregresso procedimento penale, sì da evitare ulteriori accertamenti istruttori alla luce del principio di economicità del procedimento, ma a condizione che di tali risultanze sia autonomamente valutata la rilevanza in chiave disciplinare

 

Licenziamento disciplinare a seguito di avvenuto patteggiamento. Termine decadenziale decorre dall’avvenuta conoscenza della sentenza di patteggiamento.

Cass. civ. Sez. lavoro, 02-03-2017, n. 5313 (rv. 643271-01)

 In tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine per l’instaurazione del procedimento disciplinare, a seguito di giudizio penale definito con sentenza di patteggiamento, occorre avere riguardo al momento in cui l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari è venuto in possesso della copia della sentenza recante l’attestazione della sua irrevocabilità, restando irrilevante la semplice conoscenza del provvedimento in epoca anteriore alla data di trasmissione. (Rigetta, CORTE D’APPELLO NAPOLI, 24/07/2014)

 

La prescrizione penale non fa venir meno il potere sanzionatorio disciplinare.

 Cons. Stato Sez. IV, 22/06/2020, n. 3956

In materia di procedimento disciplinare del pubblico impiegato, la P.A. può procedere con le sanzioni anche nel caso in cui il processo penale si sia concluso con il proscioglimento dell’imputato, a fortiori se determinato dall’estinzione del reato per prescrizione, atteso che uno stesso comportamento del dipendente mentre, in sede penale, può essere valutato in maniera tale da giustificare una sentenza di proscioglimento, in sede disciplinare, può essere, viceversa, qualificato dall’Amministrazione competente come illecito disciplinare.

 

 Ufficio per i Procedimenti Disciplinari – La competenza è del luogo dove il lavoratore prestava servizio all’epoca del fatto.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 21-02-2017, n. 4447 (rv. 643267-01)

 In materia di pubblico impiego contrattualizzato, la competenza ad avviare e concludere il procedimento disciplinare, nella vigenza dell’ art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001 (anteriormente all’aggiunta dell’art. 55-bis ad opera del d.lgs. n. 150 del 2009 ), è dell’ufficio per i procedimenti disciplinari del luogo, ossia della sede lavorativa, dove il lavoratore prestava servizio quando i fatti, come conosciuti dall’amministrazione, hanno assunto evidenza disciplinare, senza che rilevi il successivo trasferimento del lavoratore medesimo ad altra sede appartenente alla stessa P.A., ancorché gravante nella sfera di competenza di altro ufficio disciplinare. (Rigetta, CORTE D’APPELLO CATANZARO, 28/12/2010)

 

Notizia di infrazione acquisita prima dell’entrata in vigore di nuova legge. Vale la disciplina della legge anteriore in vigore al compimento dell’atto.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 09-01-2017, n. 209 (rv. 642816-01)

In tema di procedimento disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato, ove la notizia dell’infrazione sia stata acquisita prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, e l’amministrazione abbia optato per il differimento dell’iniziativa disciplinare all’esito del giudizio penale, la fattispecie resta regolata dalla disciplina previgente, in forza del generale principio per cui i procedimenti sono regolati dalla normativa del tempo in cui gli atti sono stati posti in essere, sicché non vi è alcun onere di riattivazione del procedimento in conseguenza della definitiva soppressione della regola della pregiudizialità penale ad opera della novella. (Rigetta, CORTE D’APPELLO LECCE, 21/08/2014)

 

 L’ingiustificato rifiuto di sottoporsi a visita medica di idoneità è causa di licenziamento disciplinare.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 07-11-2016, n. 22550 (rv. 641603)

Nel pubblico impiego contrattualizzato, la risoluzione del rapporto di lavoro – a seguito del procedimento di cui all’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001 – nel caso di ingiustificato rifiuto, da parte del dipendente pubblico, di sottoporsi alla visita medica di idoneità, reiterato per almeno due volte, di cui al combinato disposto dell’art. 55 octies, lett. d), del d.lgs. n. 165 del 2001 con l’art. 6 del d.P.R. n. 171 del 2011, costituisce autonoma ipotesi di licenziamento disciplinare, finalizzata ad assicurare il rispetto delle altre norme dettate dall’art. 55 octies, sempre tutelando il diritto di difesa del dipendente. (Rigetta, App. L’Aquila, 16/10/2014)

 

Il procedimento disciplinare oggetto di decadenza per decorrenza dei termini, non può essere oggetto di rinnovazione.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 15-09-2016, n. 18128 (rv. 641087)

 Nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, la natura perentoria dei termini del procedimento disciplinare stabiliti dalla contrattazione collettiva e, nei procedimenti avviati, successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2009, dagli artt. 55-bis e seguenti del d.lgs. n. 165 del 2001, impedisce la rinnovazione del procedimento disciplinare che si sia concluso con sanzione annullata per vizio di forma quando la nuova iniziativa disciplinare venga intrapresa per i medesimi fatti una volta spirati i termini. (Cassa con rinvio, App. Messina, 16/07/2013)

 

Le dimissioni del dipendente non estinguono il procedimento.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 24-08-2016, n. 17307 (rv. 641012)

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, l’art. 55 bis, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo cui, in caso di sospensione cautelare dal servizio e di infrazione disciplinare di natura e gravità tale da giustificare il licenziamento, l’azione disciplinare nei confronti del dipendente dimessosi deve essere iniziata e/o proseguita, nel rispetto dei termini di cui allo stesso art. 55 bis, si applica anche quando le dimissioni siano intervenute in epoca antecedente all’avvio del procedimento, sussistendo l’interesse dell’amministrazione ad accertare le responsabilità disciplinari al fine di impedire che il dipendente possa essere riammesso in servizio, partecipare a successivi concorsi pubblici, o far valere il rapporto di impiego come titolo per il conferimento di incarichi da parte della p.a. (Cassa con rinvio, App. Roma, 28/05/2014)

 

Termine a difesa minore di quello previsto dalla legge. La nullità del procedimento può essere comminata solo se l’incolpato dimostra una effettiva lesione del diritto di difesa.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 22-08-2016, n. 17245 (rv. 640922)

In materia di procedimento disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato, l’art. 55 bis, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede un termine, di carattere meramente endoprocedimentale, per la convocazione a difesa dell’incolpato, di dieci o, nel caso di provvedimenti più gravi, venti giorni, sicché la contrazione di esso può dare luogo a nullità del procedimento, e della conseguente sanzione, solo ove sia dimostrato, dall’interessato, un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa. (Rigetta, App. Palermo, 12/06/2014)

 

 La violazione dell’obbligo di esclusività può dar luogo al licenziamento disciplinare anche se la violazione è rimossa a seguito di diffida.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 04-04-2017, n. 8722

Posto che, in caso d’incompatibilità assoluta, la violazione dell’obbligo di esclusività può essere fonte di responsabilità disciplinare anche qualora l’incompatibilità sia rimossa a seguito della diffida, è legittimo il licenziamento irrogato al direttore amministrativo sanitario che, prima della diffida, aveva svolto attività di amministratore o liquidatore di varie società, irrilevante essendo al riguardo la condotta inerte tenuta per qualche tempo dall’amministrazione datrice di lavoro.

 

L’incompatibilità può essere causa di licenziamento.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 04-04-2017, n. 8722 (rv. 643904-01)

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di incompatibilità assoluta vengono in rilievo due diversi aspetti: l’uno, relativo alla cessazione automatica del rapporto, che si verifica qualora essa non venga rimossa nel termine assegnato al dipendente con la diffida, ai sensi dell’ art. 63 del d.P.R. n. 3 del 1957; l’altro, inerente alla responsabilità disciplinare, per violazione dell’obbligo di esclusività, che può essere ravvisata anche ove l’incompatibilità venga rimossa, ed in tale ultimo caso la sanzione irrogata dal datore di lavoro deve essere proporzionata alla gravità della condotta, da valutarsi negli aspetti oggettivi e soggettivi, in relazione alla quale assumono particolare rilievo il comportamento del dipendente dopa la diffida e la mancata rimozione della incompatibilità. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO VENEZIA, 30/12/2015)

 

Anche molteplici iniziative assunte allo scopo principale di disturbare il datore di lavoro pubblica amministrazione possono essere giusta causa di licenziamento.

Cass. civ. Sez. lavoro, 25-01-2016, n. 1248

 La molteplicità di iniziative strumentalmente assunte dal lavoratore per disturbare il datore di lavoro ed indurlo alla concessione di un trasferimento non dovuto costituisce ai fini disciplinari un comportamento unitario e complessivo rispetto al quale deve essere valutata l’immediatezza della contestazione disciplinare. La presentazione da parte del lavoratore di numerose istanze infondate e strumentali per indurre il datore di lavoro a concedere un trasferimento legittimamente negato costituisce abuso di diritto in quanto il lavoratore esercita i propri diritti con modalità ultronee ed al fine di conseguire risultati diversi rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti sì da causare al datore di lavoro un sacrificio sproporzionato ed ingiustificato. L’abuso di diritto da parte del lavoratore, consistente nella presentazione di molteplici istanze pretestuose finalizzate ad ottenere un trasferimento non dovuto, costituisce un comportamento atto a ledere il vincolo fiduciario legittimando il licenziamento per giusta causa del lavoratore.

 

 Condotta volta a gettare ingiusto discredito sull’amministrazione, costituisce giusta causa di licenziamento.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 24-01-2017, n. 1752

E’ legittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore pubblico che invii ad alcuni soggetti istituzionali (prefettura, procura della repubblica e Corte dei conti) una memoria contenente la denunzia di condotte illecite da parte dell’amministrazione di appartenenza palesemente priva di fondamento, configurandosi una condotta illecita, univocamente diretta a gettare discredito sull’amministrazione medesima, non potendosi peraltro configurare, nella specie, le condizioni per l’applicabilità della disciplina del c.d. «whistleblowing» ex art. 54 bis D.Lgs. n. 165 del 2001.

 

Definizione di falsa attestazione di presenza in servizio.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 09-03-2017, n. 6099

 La falsa attestazione della presenza in servizio di cui all’ art. 55-quater, comma 1, lett. a)D.Lgs. n. 165 del 2001 ricorre ogni volta che, nell’intervallo compreso tra le registrazioni effettuate in entrata e in uscita, il lavoratore risulti assente per un periodo di tempo economicamente apprezzabile, indipendentemente dalla sussistenza nella sua condotta di ulteriori e particolari modalità fraudolente.

 

 Comportamento fraudolento atto a favorire l’aggiramento del rilevamento presenze – giusta causa di licenziamento.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 14-12-2016, n. 25750 (rv. 642497-01)

In tema di licenziamento disciplinare, rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata di cui all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo, applicabile “ratione temporis”, vigente già prima delle modifiche introdotte dall’art. 3 del d.lgs. n. 116 del 2016, non solo il caso dell’alterazione del sistema di rilevamento delle presenze, ma anche l’allontanamento del lavoratore nel periodo intermedio tra le timbrature di entrata ed uscita, trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a fare emergere falsamente la presenza in ufficio

 

Contrattazione collettiva comparto pubblico – clausole che prevedono il licenziamento – restano assoggettate al vaglio del giudice-

Cass. civ. Sez. lavoro, 01-12-2016, n. 24574 (rv. 642037-01)

 In tema di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, le fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, introdotte dall’art. 55 quater, comma 1, lett. da a) ad f), e comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, costituiscono ipotesi aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva – le cui clausole, ove difformi, vanno sostituite di diritto ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c. – per le quali compete soltanto al giudice, ex art. 2106 c.c., il giudizio di adeguatezza delle sanzioni. (Rigetta, CORTE D’APPELLO GENOVA, 26/06/2013).

Di recente confermata da

Cass. civ. Sez. lavoro, 10/07/2020, n. 14811

E’ valido il generale principio secondo cui le previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari non sono vincolanti per giudice del merito, essendo quelle della giusta causa e del giustificato motivo di licenziamento nozioni legali, mentre il giudice deve tenere conto di tali tipizzazioni per le sanzioni conservative. Trattandosi di una condizione di maggior favore per l’incolpato, il giudice è, in linea di principio, vincolato dal CCNL nel senso che se alla mancanza il CCNL ricollega una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti.

 

 Assenza ingiustificata oltre tre giorni in assenza di scriminate è giusta causa di licenziamento.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 19-09-2016, n. 18326 (rv. 641265)

In tema di pubblico impiego privatizzato, l’assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio, consente l’intimazione della sanzione disciplinare del licenziamento, ai sensi dell’art. 55 quater, lett. b), del d.lgs. n. 165 del 2001, purché non ricorrano elementi che assurgono a “scriminante” della condotta tenuta dal lavoratore, tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa, in relazione sia all’adempimento della prestazione principale sia agli obblighi strumentali di correttezza e diligenza per la fruizione (previa richiesta) di pause, ferie e in generale di cause di sospensione del rapporto di lavoro. (Cassa con rinvio, App. Brescia, 31/05/2012).

 

False dichiarazioni all’atto dell’assunzione costituiscono giusta causa di licenziamento in assenza di elementi di giustificazione la prova della cui sussistenza grava sul lavoratore.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 24-08-2016, n. 17304 (rv. 640878)

In tema di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, nei casi in cui sia contestata, ex art. 55 quater, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 165 del 2001, la condotta di false dichiarazioni commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera (nella specie, relativa al possesso dei requisiti di ammissione ad un concorso), la prova della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, a carico del datore di lavoro, ha ad oggetto solo la falsità delle attestazioni delle dichiarazioni nella loro oggettività, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare gli elementi che possono giustificare la falsa attestazione, e la sua dipendenza da causa a lui non imputabile, in quanto solo l’autore è in grado di provare che la sua condotta è frutto di un incolpevole errore circa il contenuto e la veridicità delle sue dichiarazioni. (Cassa con rinvio, App. Cagliari, 10/07/2013)

 

 Consapevolezza del disservizio arrecato all’amministrazione va valutata ai fini della giusta causa di licenziamento.

 Cass. civ. Sez. lavoro, 06-06-2014, n. 12806

In tema di licenziamento disciplinare, la valutazione della condotta del lavoratore deve tenere conto anche del disvalore ambientale che essa assume, in virtù della posizione professionale rivestita dal dipendente, di guisa che va affermata la proporzionalità della sanzione espulsiva pure al cospetto di un unico episodio di insubordinazione, qualora questo consista in una prolungata assenza ingiustificata dal servizio nonostante il diniego formale di concessione delle ferie per le giornate richieste, e la condotta sia stata posta in essere da un lavoratore (nella specie, una educatrice della prima infanzia) che, data la sua considerevole anzianità di servizio e lo svolgimento di attività sindacale, era consapevole del disservizio educativo cagionato.

 

Il licenziamento del pubblico dipendente

  • La disciplina generale e la specialità.

Stabilisce il comma 2 dell’articolo del Dlgs 165/2001 che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel DLGS 165/2001 – Testo Unico del Pubblico Impiego che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. E’ previsto inoltre che eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge.

  • La regola e l’eccezione.

Ciò significa che, almeno in linea di massima, la normativa in tema di licenziamenti deve essere applicata anche nell’ambito del pubblico impiego. Ciò salvo che nel D.LGS 165/2001 siano contenute normative diverse.

Dunque, giuridicamente, il licenziamento per giusta causa è stato ed è sempre possibile nelle pubbliche amministrazioni.

Sarà sufficiente che la sanzione del licenziamento sia prevista come tale nel contratto collettivo o che comunque in ogni caso, essa vada a colpire una condotta fortemente ed irrimediabilmente lesiva del vincola fiduciario che lega il dipendente pubblico all’amministrazione datrice di lavoro.

  • La peculiarità. – La legge stabilisce le ipotesi di licenziamento.

Ipotesi tassative di licenziamento.

Si aggiungono ciò, anche specifiche e tassative ipotesi dove, in forza della particolare gravità che le stesse rappresentano, la legge fa scattare la sanzione del licenziamento all’accadere di un determinato fatto senza la mediazione della contrattazione o di un giudizio di merito

Esamineremo sul tema la normativa speciale introdotta con il DLGS 150/2009 (legge Brunetta) ed inserita nel DLGS 165/2001e che trova sostanziale conferma con talune modifiche nel DLGS 75/2017 (Riforma Madia) essa, come già accennato introduce delle specifiche e tassative ipotesi, ricorrendo le quali il pubblico dipendente deve essere licenziato. Gran parte di queste previsioni sono sintetizzate nell’articolo 55 quater.

Le fattispecie possono essere di seguito trattate:

  1. Falsa attestazione della presenza in servizio. Si verifica allorquando siano messe in atto attività di alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza in maniera fraudolenta, o produzione di certificazione medica falsa;
  2. Assenza ingiustificata.Da luogo al licenziamento allorquando assommi anche in maniera non continuativa un numero di giorni superiori a 3 nell’arco di un biennioo superiore a 7 nell’ambito degli ultimi 10 anni, o comunque di fronte alla mancata ripresa del servizio di fronte ad assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione.
  3. Ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio.
  4. Falsità documentali commesse per instaurare il rapporto di lavoro o per ottenere progressioni di carriera.
  5. Condotte gravemente moleste, aggressive, o ingiuriose. Debbono essere reiterate e lesive di diritti primari altrui.
  6. Condanna penale definitiva. La condanna deve comportare l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione comunque denominata del rapporto di lavoro.
  7. Reiterata violazione dei codici di comportamento. Questa ipotesi è stata introdotta con il DLGS 75/2017 (Riforma Madia). Trattasi in realtà di una fattispecie innovativa e molto ampia che sicuramente in caso di applicazione dovrà passare attraverso una valutazione giudiziale di gravità.
  8. Commissione dolosa o gravemente colposa di infrazioni che abbiano causato condanna dell’Amministrazione del danno. Anche questa ipotesi è stata introdotta dalla riforma Madia DLGS 75/2017.
  9. Reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa. Trattasi di gravi violazione che debbono aver comportato la sospensione dal servizio per un periodo complessivo superiore all’anno in un biennio. Anche questa ipotesi è stata introdotta dal DLGS 75/2017 Riforma Madia.
  10. Insufficiente Rendimento. Esso deve essere collegato alla reiterata violazione di obblighi lavorativi ed accompagnato da una costante valutazione negativa del dipendente per ciascun anno in un triennio. Assistiamo all’introduzione di una fattispecie di licenziamento per scarso rendimento sconosciuta anche all’impiego privato. La norma è stata aggiunta dal DLGS 75/2017 (Riforma Madia).
  • I cosiddetti “Furbetti del Cartellino” .

E’ questo uno degli aspetti salienti della normativa volta ad arginare e reprimere fenomeni di diffuso malcostume tra i dipendenti della pubblica amministrazione.

L’esasperazione per i ripetuti episodi di false timbrature di presenza e l’eco mediatico che gli stessi ebbero, indussero il legislatore, sempre nell’ambito della Riforma Madia, legge delega 124/2015 ad introdurre il DLGS 20 giugno 2016 n.116, che prevede una procedura repressiva rapida dei fenomeni lamentati.

  • L’obbligo di sospensione immediata.

Stabilisce la nuova norma che allorquando l’Amministrazione verifichi la fragranza della falsa attestazione della presenza in servizio anche mediante strumenti tecnologici di sorveglianza, scatta l’obbligo di sospensione immediata del dipendente incolpato. Contestuale deve quindi avvenire la contestazione scritta dell’addebito con conclusione del procedimento.

  • Obblighi accessori di natura penale.

Scatta inoltre contestualmente la denuncia alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ed a quella presso la Corte dei Conti.

I dirigenti o i responsabili di servizio che non abbiano proceduto in tal modo sono passibili di licenziamento.

E quindi inserita sempre in tema di falsificazioni da parte del pubblico dipendente una norma avente prevalente rilevanza penale, ma connessa all’impianto disciplinare.

Anche quest’articolo è entrato in vigore con la riforma Madia in data 22.6.2017, è prevista la reclusione sino a 5 anni oltre la multa da euro 400 ad euro 1600 per il lavoratore che attesta falsamente la presenza in servizio o produce certificati medici falsi, è previsto il licenziamento per il medico lavoratore dipendente o convenzionato da struttura pubblica o privata che ha concorso alla falsificazione.

Sintesi applicativa.

Quando la Pubblica Amministrazione può licenziare?

  1. In tutti i casi in cui viene meno irrimediabilmente il rapporto fiduciario;
  2. In tutti i casi di licenziamento previsti dal contratto collettivo di comparto;
  3. Nei casi espressamente previsti dalla legge DLGS 165/2001 come ipotesi di licenziamento (articolo 55 quater DLGS 165/2001); –
  4. La procedura da applicare: si applica la procedura disciplinare – una procedura accelerata e privilegiata è prevista nel caso di falso nelle timbrature di presenza rilevate in flagranza;
  • Ipotesi di licenziamento per ragioni oggettive.
  1. Il licenziamento per scarso rendimento. Abbiamo già visto come tra le ipotesi di licenziamento previste dal DLGS 165/2001, articolo 55 quater si annoveri anche quella dell’insufficiente rendimento.
  2. In realtà siamo in ambito disciplinare. Si tratta comunque di un ipotesi di natura disciplinare che integra una giusta causa di risoluzione del rapporto. Si tratta di un provvedimento che, come abbiamo visto, accede ad un triennio di valutazioni negative.
  3. La natura parzialmente disciplinare dell’articolo 55 sexies. L’articolo 55 sexies ci propone invece una fattispecie, dove si prescinde da una valutazione di responsabilità, ma si constata esclusivamente l’inefficienza o l’incompetenza professionale.
  4. In tale caso, opera l’istituto della disponibilitàIn tal caso, sulla base di quanto previsto dagli articoli 33, 34, 34 bis, del DLGS 165/2001, il dipendente viene gestito come esubero. Egli riceverà l’80% della retribuzione per un periodo di 24 mesi/48 nel caso in cui entro i 48 mesi, egli maturi la pensione.  Permangono le garanzie del procedimento disciplinare. Opportunamente, vista la natura peculiare del provvedimento, l’articolo 55 sexies precisa come il dipendente in tal caso possa essere collocato in disponibilità solo all’esito di un procedimento disciplinare.
  5. Collocazione in disponibilità o nuova qualifica. Ammessa la dequalificazione. Sarà quindi il provvedimento disciplinare che dovrà indicare la collocazione in disponibilità del dipendente oppure potrà indicare un nuovo collocamento con nuova qualificaSe ne deduce che il dipendente inefficiente potrà anche essere legalmente dequalificato in sede disciplinare.
  • Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel pubblico impiego.

Ci si chiede a questo punto se e come il pubblico dipendente possa essere licenziato per soppressione del posto di lavoro o per riduzione del personale.

Qui la situazione è molto diversa rispetto al lavoro alle dipendenze dei privati.

Per molti versi la previsione contenuta all’articolo 33 del DLGS 165/2001 ricalca la procedura prevista per i licenziamenti collettivi delle aziende. Non esiste invece nel pubblico impiego norma alcuna che riguardi i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

a. Il perché è intuibile. Date le dimensioni delle pubbliche amministrazioni è del tutto impossibile che un singolo dipendente non riesca ad essere ricollocato.

Dunque il problema si pone esclusivamente di fronte al verificarsi di situazioni di soprannumero o di eccedenza di personale.

b.La procedura di cui all’articolo 33 del DLGS 165/2001.

c. La comunicazione alle Organizzazioni Sindacali.

L’articolo 33 del DLGS 165/2001 prevede che l’Amministrazione debba darne comunicazione al Dipartimento della Funzione Pubblica. Quindi deve essere fornita idonea informativa alle Rappresentanze Sindacali Unitarie del Personale ed alle Organizzazioni Sindacali firmatarie del contratto nazionale.

d. l tentativo di ricollocazione.

Trascorsi 10 giorni dalla comunicazione, l’Amministrazione tenterà la ricollocazione del personale eccedente.

e. La collocazione in disponibilità.

Se ciò non riesce entro 90 giorni, il personale interessato è collocato in disponibilità per la durata massima di 24 mesi.

  • Il licenziamento per inidoneità psicofisica.

Similmente a quanto accade per il rapporto di lavoro nelle aziende privata, anche la Pubblica Amministrazione può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro per impossibilità alla prestazione.

L’ipotesi è prevista dall’articolo 55 octies del DLGS 165/2001.

E’ previsto che nel caso di permanente inidoneità psicofisica al servizio, l’amministrazione possa risolvere il rapporto con le modalità nei termini disposti con apposito regolamento. 

  • Il licenziamento illegittimo – le conseguenze e le forme di tutela.

Abbiamo constatato come in linea di principio le regole del lavoro pubblico vadano ad ispirarsi ai principi comuni del diritto del lavoro con le eccezioni e le specificità che abbiamo appena esaminato.

Particolare attenzione andrà rivolta alle regole sulla tutela del rapporto di lavoro, non tanto sulle ipotesi di licenziamento che ormai il DLGS 165/2001 provvede ampiamente a regolare quanto piuttosto in punto tutela ex articolo 18 legge 300/70 e quindi in merito alle ipotesi di reintegra e risarcimento ivi contemplate.

Il tema diventa ancora più delicato ove si pensi ai recenti e continui rimaneggiamenti che questo istituto a subito in maniera peraltro rilevante e dove non sempre si è verificato un automatico parallelismo tra la disciplina dell’impiego nel settore pubblico e quella nel settore privato.

  • Nei casi di illegittimità del licenziamento quali saranno le conseguenze per la pubblica amministrazione? O meglio, cosa succede se il licenziamento risulterà illegittimo o nullo?

a. Licenziamento discriminatorio.

Se il licenziamento risulterà discriminatorio e quindi dettato da ragioni religiose, razziali, di sesso, manifestazione di pensiero, affiliazione sindacale, esso sarà considerato nullo, è darà luogo alla reintegra del dipendente licenziato con il pagamento di tutte le retribuzioni maturate.

La prova della dimostrazione della sussistenza della discriminazione e dall’essere stata essa la causa prevalente del licenziamento è posta a carico del lavoratore, ma sono ammesse anche le presunzioni ( indizi logici e concatenati che possono sostituire il mezzo di prova).

b. Insussistenza della giusta causa.

La più comune causa di licenziamento, è dovuta all’insussistenza di una giusta causa, tale da comportare il venir meno del rapporto fiduciario che lega il dipendente all’amministrazione.

Cosa accade nel caso di licenziamento privo di giusta causa – quali sono le sanzioni per l’amministrazione soccombente?

  • I dubbi circa l’applicazione o meno dell’articolo 18 nuovo testo (Fornero) ai dipendenti pubblici.

a. Le incertezze di dottrina e giurisprudenza.

Ci si chiedeva se si applicava l’articolo 18 della legge 300/70 e quindi l’istituto della reintegra e del risarcimento del danno dal licenziamento alla reintegra. La risposta in linea di massima era positiva con le precisazioni che poi seguiranno.

Si parte dall’articolo 51 del DLGS 165/2001 che statuiva la piena applicabilità dello Statuto dei Lavoratori nell’ambito del pubblico impiego e quindi anche dell’articolo 18 dello statuto medesimo.

Dunque tutti i dipendenti pubblici, compresi i dirigenti, erano da considerarsi reintegrabili nel caso di licenziamento privo di giusta causa.

La questione si complicava allorquando entrava in vigore la legge 92/2014, c.d. legge Fornero, che modificava l’articolo 18, riducendo le tutele e limitando i casi di reintegra ad ipotesi ben limitate.

A quel punto, molti si chiesero se il nuovo testo dell’articolo 18, doveva applicarsi anche alle pubbliche amministrazioni o se invece al pubblico dipendente, licenziato ingiustamente, spettasse sempre la reintegra ed il risarcimento del danno pari alle mensilità cui avrebbe avuto diritto sino alla data della reintegra e quindi il regime antecedente alla riforma Fornero.

La legge 92/2012 (Legge Fornero)  a proposito della sua applicabilità al pubblico impiego stabilisce all’articolo 1 commi 7 e 8 che le disposizioni della riforma per quanto non espressamente previsto, dovevano considerarsi principi generali applicabili anche ai pubblici dipendenti . La legge medesima però stabiliva per la sua applicazione al settore pubblico un decreto di raccordo che sarebbe dovuto intervenire da parte del Ministro per la Pubblica Amministrazione.

In merito all’applicazione dell’articolo 18 in caso di licenziamento illegittimo, erano formulate due soluzioni.

La prima prevedeva che l’automatico richiamo all’articolo 18, operato dall’articolo 51 DLGS 165/2001 ne comportava l’applicazione al pubblico impiego nella forma modificata dalla legge 92/2014 con il relativo rito processuale della legge Fornero.

L’altra soluzione invece notava come i commi 7 e 8 dell’articolo 1 della legge 92/2012, imponevano una applicazione mediata della riforma per cui al pubblico impiego si doveva ancora applicare il vecchio testo dell’articolo 18, con la piena reintegra ed il pieno risarcimento del soggetto illegittimamente licenziato.

Sul punto, intervenivano le prime pronunce della magistratura nel seguente ordine:

  • Tribunale di Perugia , ordinanza del 15 gennaio 2013 che ritiene applicabile il nuovo rito introdotto dalla legge 92/2012 anche ai dipendenti pubblici in caso di licenziamento come pure il nuovo articolo 18 legge 300/70 a “tutela ridotta”.
  • Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sezione lavoro, ordinanza del 2 aprile 2013 , conforme nel senso di ritenere applicabile sia il nuovo rito che il nuovo articolo 18 .
  • Con la pronuncia n.24157 del 25.11.2015 la Corte di Cassazione ha stabilito che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero, si applica anche ai dipendenti pubblici.
  • Di seguito sempre la Suprema Corte – Cassazione 9.6.2016 n.11868 – ha ritenuto applicabile integralmente l’articolo 18 ai pubblici dipendenti, anziché come novellato dalla legge Fornero.

b. Finalmente le certezze del decreto Madia. Ai pubblici dipendenti si applica il vecchio testo dell’articolo 18 legge 300/70.

Con l’entrata in vigore del DLGS 75/2017 (decreto Madia), la situazione si è definitivamente chiarita.

L’articolo 21 del DLGS 75/2015 ha infatti apportato delle modifiche al comma 2 dell’articolo 63 del DLGS 165/2001 chiarendo che Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”.

Dunque a questo punto, il testo unico sul pubblico impiego contiene una specifica norma di applicazione nel caso di licenziamento illegittimo. Resta naturalmente la sanzione della nullità per il licenziamento discriminatorio e ritorsivo.