Pubblico Impiego – Distacchi Sindacali – Comparto Enti Locali. Il responsabile del personale può negare distacchi ed aspettative sindacali per esigenze interne alla struttura?

Così risponde l’ARAN:

 

Il distacco o l’aspettativa sindacale, qualora sussistono i presupposti soggettivi ed oggettivi previsti dalle norme di riferimento, devono essere concessi.

Nell’ipotesi di richiesta di permessi per l’espletamento del mandato, invece, si ricorda che l’art. 10, comma 7 del CCNQ del 4/12/2017 (richiamato anche nell’art. 13, comma 3 del medesimo CCNQ con riguardo ai permessi per le riunioni di organismi direttivi statutari) prevede che “nell’utilizzo dei permessi deve essere garantita la funzionalità dell’attività lavorativa della struttura o unità operativa di appartenenza del dipendente…della fruizione del permesso sindacale va previamente avvertito il dirigente responsabile della struttura secondo le modalità concordate in sede decentrata”. Ne consegue che il datore di lavoro potrà rifiutare la concessione del permesso o per mancanza di ore disponibili o per esigenze di servizio che non consentano di garantire la funzionalità dell’attività lavorativa – in quest’ultimo caso nelle forme e modalità definite in contrattazione integrativa.

 

E’ compatibile l’attività di pubblico dipendente con la titolarità di un’impresa agricola?

L’attività di imprenditore agricolo è incompatibile con il pubblico impiego.

Anche la conduzione di un’impresa agricola di modeste dimensioni è incompatibile con la qualifica di impiegato pubblico.

Lo prevede la Corte di Cassazione nell’ordinanza n.27420 dell’1.12.2020.

Un dipendente di ente locale che andava svolgendo anche l’attività di piccolo imprenditore agricolo, in base al comma 58 dell’articolo 1 della legge 662/1996 chiedeva ed otteneva che gli venisse accordato un orario a tempo parziale.

La norma di legge appena citata consente al dipendente pubblico che richieda ed ottenga di lavorare con un orario a tempo parziale non superiore al 50% di svolgere anche altre attività normalmente interdette ai dipendenti pubblici, previa autorizzazione del datore di lavoro ed a patto che dette attività non interferiscano con la funzione pubblica svolta.

Quindi, attività vietate, anche se non interferenti con le competenze del dipendente pubblico, possono essere autorizzate a chi lavora a tempo parziale.

Il dipendente in questione, ritenendo però, ad un certo punto, come che l’attività agricola non fosse vera e propria attività di impresa e quindi mai vietata, chiede di tornare a lavorare a tempo pieno. Ne segue il rifiuto della pubblica amministrazione e quindi l’avvio di un contenzioso giudiziale con fasi alterne, definito con la sentenza che viene annotata.

La Corte di Cassazione alla fine richiamando l’articolo 60 del Testo Unico Pubblico Impiego DLGS 165/2001 laddove stabilisce che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente“.

Su tale base, ritiene la Corte di Cassazione di dover superare quella parte della giurisprudenza, specie amministrativa, secondo cui l’attività agricola non rientrerebbe fra le attività automaticamente incompatibili.

L’interpretazione che afferma la compatibilità si basa sulla considerazione in base alla quale detta attività non è stata specificamente individuata dall’art. 60 del D.P.R. n. 3 del 1957 tra quelle precluse per l’impiegato pubblico. Si è ritenuto sino ad oggi che deponga nel senso della esclusione dell’incompatibilità , anche il raffronto, sul piano sistematico, con la disciplina civilistica, atteso che nel codice civile all’attività agricola è dedicato uno specifico settore (titolo II, capo II) del medesimo libro (V – del lavoro), il quale contiene anche la disciplina attinente al commercio e all’industria (titolo II, capo III), alle professioni intellettuali (titolo III, capo II), al lavoro subordinato (titolo II, capo I), alle cariche societarie (titolo V). Quindi a detta di tale orientamento, che, come vediamo è stato superato dalla Cassazione, la mancata inclusione dell’attività agricola tra quelle vietate dal citato art. 60, sarebbe data dalla specificità ed atipicità dell’impresa agricola come elemento decisivo per ritenere la stessa compatibile con l’impiego pubblico a tempo pieno.

Ritiene la Suprema Corte come tale impostazione, però, non tenga conto dell’evoluzione subita dall’impresa agricola sul piano sociale, ma anche su quello normativo. Negli anni ’50, nei quali fu emanato il DPR n.3 Testo Unico degli Impiegati civili dello Stato, quasi ogni famiglia, a vario titolo, era implicata nell’agricoltura, sicché se tale attività fosse stata inserita, per via interpretativa, tra quelle incompatibili ne sarebbe derivata l’esclusione dall’impiego statale della maggior parte dei cittadini. Successivamente alla mutata situazione sociale, ha fatto seguito anche un evoluzione normativa.

Su tale base, rileva la Cassazione è intervenuta la legge 9 maggio 1975 n.153 (Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità Europee per la riforma dell’agricoltura) secondo l’articolo 12 di questa disposizione di legge “”la qualifica di imprenditore agricolo principale va riconosciuta a chi dedichi all’attività agricola almeno 2/3 del proprio tempo di lavoro complessivo e ricavi dall’attività medesima almeno i 2/3 del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale“.

Dunque nonostante lo status specifico dell’impresa agricola in quanto non assoggettata al fallimento e non obbligata alla tenuta delle scritture contabili (articolo 2136 codice civile), essa non appare più come una ricorrente propaggine della vita familiare e comunque deve rispettare i canoni fondamentali dell’impresa che possono collidere con l’assunzione di un pubblico impiego, qualora non autorizzato con la formula del lavoro a tempo parziale.