Il valore del pasto può considerarsi parte della retribuzione?

Sul tema vi sono due indirizzi apparentemente contraddittori.

Il decreto legge 11.7.1992 n.333 all’articolo 6 stabilisce come l’erogazione del servizio di mensa nell’ambito di un rapporto di lavoro costituisce retribuzione in natura.

Nel contempo stabilisce pure come il valore economico di detto servizio ed anche l’eventuale indennità sostitutiva non sono considerati far parte della retribuzione ai fini degli istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato, e ciò a meno che le disposizioni della contrattazione collettiva non stabiliscano diversamente.

La norma fa salvi in ogni caso i diritti stabiliti da accordi e contratti collettivi anche se stipulati prima della decorrenza della norma di legge.

La stessa disposizione di legge conferma le normative esistenti concernenti la base imponibile comprensiva del servizio di mensa ai fini dei contributi previdenziali.

La legge appena citata introduce inoltre una modifica all’articolo 11 dello statuto dei lavoratori, aggiungendovi un ulteriore comma che stabilisce in capo alle RSA aziendali il diritto di controllare la qualità del servizio di mensa secondo modalità stabilite dalla contrattazione collettiva.

La giurisprudenza di legittimità che ha fatto seguito (Sezione Lavoro n.31720 del 10.12.2024 ) ha confermato tali disposizioni in tema di computo dell’indennità di mensa negli istituti contrattuali.

Con l’ordinanza 27 settembre 2024 n.25840 invece, la Cassazione confermando la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Napoli stabilendo come il ticket mensa doveva considerarsi a pieno titolo una componente della retribuzione e che quindi nel corso delle ferie il dipendente avrebbe dovuto percepire la retribuzione comprensiva del valore del pasto, per evitare che il lavoratore possa essere dissuaso dal godere delle ferie per evitare una penalizzazione economica.

In tal senso, la decisione richiamava la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE 20 gennaio 2009 C-350/06 e C-520/06).

Quest’ultima sentenza non si pone in contraddizione con il disposto di cui al già menzionato articolo 6 del decreto legge 11.7.1992 n.333.

Infatti, la norma appena menzionata ribadisce la natura retributiva del pasto erogato al dipendente con l’eccezione che il costo del medesimo non va computato nei diversi istituti contrattuali, eccezion fatta per il godimento delle ferie che rientra invece nell’ambito della tutela sancita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Fabio Petracci

E’ lecita la registrazione della conversazione con il datore di lavoro con finalità di tutela dei diritti del lavoratore

Corte di Cassazione – sez. I civ.- ordinanza n. 24797 del 16-09-2024.

La Corte di Cassazione anche nella vigenza dell’attuale GDPR ha ritenuto come la registrazione di conversazione ai fini della tutela in eventuale giudizio (procedimento di lavoro) dei propri diritti debba considerarsi lecito in forza del bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e altri diritti fondamentali dell’individuo.

Così espone la Cassazione nel corso della motivazione:

“Occorre tenere presente, in particolare, quanto esposto nel considerando 4 del regolamento UE, laddove si legge che “Il trattamento dei dati personali dovrebbe essere al servizio dell’uomo. Il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità”.

Ancora, il considerando 47 precisa che “i legittimi interessi di un titolare del trattamento, compresi quelli di un titolare del trattamento a cui i dati personali possono essere comunicati, o di terzi possono costituire una base giuridica del trattamento, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato, tenuto conto delle ragionevoli aspettative nutrite dall’interessato in base alla sua relazione con il titolare del trattamento”.

Altresì deve tenersi presente il considerando 20 il quale così si esprime: “Non è opportuno che rientri nella competenza delle autorità di controllo il trattamento di dati personali effettuato dalle autorità giurisdizionali nell’adempimento delle loro funzioni giurisdizionali, al fine di salvaguardare l’indipendenza della magistratura nell’adempimento dei suoi compiti giurisdizionali, compreso il processo decisionale”.

5.2.- Deve quindi osservarsi che difendersi in giudizio, specie ove la controversia attenga a diritti della persona strettamente connessi alla dignità umana -e quindi i diritti dei lavoratori, secondo quanto dispone l’art. 36 Cost.- è un diritto fondamentale e che nella relazione tra il datore di lavoro e i dipendenti si creano legittime aspettative e tra queste quella delle reciproca lealtà e del rispetto dei diritti del dipendente. Gli artt. 17 e 21 del GDPR rendono palese che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio può essere ritenuto prevalente sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali. In particolare l’art. 17 comma 3 lettera e) del regolamento dispone che i paragrafi 1 e 2 (diritto alla cancellazione) non si applicano nella misura in cui il trattamento sia necessario per l’accertamento l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria e l’art. 21 (diritto di opposizione) consente al titolare del trattamento di dimostrare “l’esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento che prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell’interessato oppure per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”.

Più specificamente la Corte di giustizia UE con sentenza del 2 marzo 2023, (C-268/21 – Norra Stockholm Bygg AB contro Per Nycander AB) ha chiarito che qualora dati personali di terzi vengano utilizzati in un giudizio è il giudice nazionale che deve ponderare, con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità, gli interessi in gioco e che “tale valutazione può, se del caso, indurlo ad autorizzare la divulgazione completa o parziale alla controparte dei dati personali che gli sono stati così comunicati, qualora ritenga che una siffatta divulgazione non ecceda quanto necessario al fine di garantire l’effettivo godimento dei diritti che i soggetti dell’ordinamento traggono dall’articolo 47 della Carta” (par. 58).

In termini, anche la giurisprudenza nazionale è consolidata nel ritenere che l’uso di dati personali non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso del titolare quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa (Cass. n. 9314 del 04/04/2023Cass. s.u. n. 3034 del 08/02/2011) Si è così affermato che il trattamento dei dati personali in ambito giudiziario, anche nel vigore della disciplina di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta, non siano utilizzati per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne è avvenuta l’acquisizione e sussista il provvedimento autorizzatorio (Cass. n. 1263 del 17/01/2022 ; v. Cass. n. 39531 del 13/12/2021).

Inoltre, questa Corte ha ritenuto che anche nella vigenza del GPR vadano confermati i consolidati principi in ordine alla legittimità del trattamento di dati personali senza il consenso dell’interessato, purché effettuato nel rispetto del criterio della “minimizzazione” ove sia indispensabile per la tutela di interessi vitali della persona che li divulga o della sua famiglia (Cass. n. 9922 del 28/03/2022).”

Assenza ingiustificata e dimissioni del lavoratore

Il collegato lavoro Legge 13 dicembre 2024 n.203 mediante l’articolo 29 ha modificato l’articolo 26 del DLGS 151/2001 – collegato lavoro.

Il nuovo articolo 26 del DLGS 151/2001 con il comma 7 bis ha stabilito che “ in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre i termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato o in mancanza di previsione contrattuale nel caso di assenza superiore a 15 giorni, si ritiene lo stesso dimissionario.

Perché ciò avvenga, il datore di lavoro ne deve dare comunicazione all’ispettorato nazionale del lavoro che procederà alle opportune verifiche.

La dimostrazione da parte del datore di lavoro dell’impossibilità o della forza maggiore nel comunicare all’assenza o di fatto imputabile al datore di lavoro, fa venir meno l’effetto delle dimissioni.

In tal caso, il lavoratore, essendo ritenuto dimissionario, perde il diritto alla NASPI che spetta soltanto a chi è stato licenziato, a chi si sia dimesso per giusta causa e a chi abbia accettato l’offerta di conciliazione in sede di licenziamento.

Spetta la NASPI anche in caso di trasferimento a distanza superiore a 50 chilometri o con destinazione raggiungibile con i mezzi pubblici nel termine di 80 minuti o superiore ad esso.

Resta per il datore di lavoro la possibilità di contestare disciplinarmente l’assenza procedendo nei termini ordinari (nota INL n.579/2025).

Lo stesso Ispettorato del Lavoro ha messo a disposizione dei datori di lavoro un apposito modulo di comunicazione.

Nel caso di termine contrattuale concernente la durata dell’assenza deve farsi riferimento al solo contratto nazionale con esclusione dei contratti territoriali i aziendali.

L’effetto risolutivo del rapporto deve considerarsi a far tempo dalla comunicazione all’Ispettorato del Lavoro.

Allorquando si verifichino le dimissioni con questa causale. Il datore di lavoro non sarà tenuto al pagamento del contributo NASPI.

Ci si chiede cosa accada nel caso in cui l’Ispettorato del Lavoro, una volta ricevuta la comunicazione del datore di lavoro, ritenga l’inefficacia delle dimissioni per fatti concludenti?

Qualora si dovesse ritenere l’inefficacia della procedura, potrebbe propendersi per la prosecuzione del rapporto di lavoro con possibilità per il datore di lavoro di contestare l’assenza ingiustificata al dipendente.

La posizione del lavoratore con l’accertamento ispettivo a lui favorevole potrà essere oggetto di contenzioso.

Del resto, anche il datore di lavoro potrà impugnare il provvedimento dell’Ispettorato del Lavoro.

Fabio Petracci

Indebita la prassi di anticipare il TFR in busta paga

Con la nota protocollo 616/2025, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro – acquisito il parere dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – risponde al quesito relativo alla legittimità della prassi di anticipo mensile del TFR in busta paga.
L’Ispettorato precisa che il TFR rappresenta una somma di denaro che viene accumulata mensilmente dal datore di lavoro, per conto del dipendente, allo scopo di assicurare un supporto economico al termine del rapporto di lavoro; detto istituto è disciplinato dall’art. 2120 c.c., che individua i criteri di calcolo del TFR e disciplina le condizioni in presenza delle quali, su richiesta del lavoratore, si applica il diverso istituto della anticipazione del trattamento di fine rapporto.
Nel dettaglio, il comma 10 dell’art. 2120 c.c. rimanda alla contrattazione collettiva o ai patti individuali l’introduzione di condizioni di miglior favore relative all’accoglimento delle richieste di anticipazione, in mancanza delle quali l’erogazione monetaria non può che qualificarsi quale maggiore retribuzione assoggettata all’obbligazione contributiva.
Nella nota, l’Ispettorato precisa come, stante la collocazione sistematica della norma, è da ritenere che la pattuizione collettiva o individuale possa avere ad oggetto una anticipazione dell’accantonamento maturato al momento della pattuizione e non un mero automatico trasferimento in busta paga del rateo mensile che costituirebbe invece una mera integrazione retributiva con conseguenti ricadute anche sul piano contributivo.
Tale operazione contrasterebbe con la stessa ratio dell’istituto, vale a dire assicurare al lavoratore un supporto economico al termine del rapporto di lavoro.
Del resto, dal 1° gennaio 2007, i datori di lavoro con almeno 50 dipendenti sono obbligati al versamento della quota di TFR al Fondo Tesoreria: tale versamento assume la natura di contribuzione previdenziale, stante l’equiparazione del Fondo ad una gestione previdenziale obbligatoria, con applicazione dei principi di ripartizione e dell’automaticità delle prestazioni di cui all’art. 2116 c.c.; le quote di TFR versate al Fondo rispondono quindi al regime di indisponibilità proprio della contribuzione previdenziale, ferme restando le ipotesi di pagamento anticipato del TFR nei casi e nei limiti normativamente previsti.
Pertanto e ciò affermato, quanto alle conseguenze sul piano ispettivo, l’Ispettorato ritiene che, laddove si ravvisino le descritte ipotesi di anticipazione, il personale ispettivo dovrà intimare al datore di lavoro di accantonare le quote di TFR illegittimamente anticipate attraverso l’adozione del provvedimento di disposizione di cui all’art. 14 del d. lgs. n. 124/2004.

avv. Alberto Tarlao

CASSAZIONE – L’infermiere professionale è tenuto a svolgere compiti tipici degli Operatori Socio Sanitari?

Un’interessante sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione n.7683/2025 interviene a fare chiarezza in tema di mansioni del personale infermieristico ed anche alle mansioni accessorie che possono essere richieste a questa tipologia di professione e che normalmente appartengono alla categoria degli Operatori Socio Assistenziali O.S.S.

A seguito di numerose anche recenti innovazioni normative, si è assistito ad una valorizzazione delle mansioni del personale infermieristico al quale ora si richiede il possesso almeno di una laurea breve e lo svolgimento di compiti di assistenza medica, cui si contrappongono gli Operatori Socio Sanitari cui sono affidate mansioni di carattere assistenziale – esecutivo.

La sentenza è originata da alcune controversie mosse in primo grado da infermieri professionali cui erano richieste con una certa continuità mansioni inferiori ascrivibili alla declaratoria contrattuale degli Operatori Socio Assistenziali.

Le istanze degli infermieri erano state respinte tanto in primo grado che in appello sul presupposto che pur sussistendo l’affidamento di mansioni inferiori, esse dovevano considerarsi complementari e saltuarie rispetto a quelle attribuite di infermiere professionali e comunque connesse ad una difficile situazione organizzativa aziendale

La Corte di Cassazione con il cennato giudizio rovescia queste impostazioni.

Si è infatti ritenuto da parte della Suprema Corte che le motivate esigenze aziendali devono avere carattere temporaneo, sicché l’utilizzo di fatto costante secondo un turno programmato di un lavoratore o di una lavoratrice in mansioni inferiori, neanche complementari a quelle del profilo rivestito, sia pure in maniera non particolarmente ricorrente in termini di ore adibite alla mansione inferiore, ma finalizzato di fatto alla copertura di posizioni lavorative non presenti nell’organico aziendale, non può ritenersi rispettoso del principio di tutela della professionalità di cui all’articolo 2103 cod. civ. mancando proprio quelle motivate esigenze aziendali, anche connotate da temporaneità o da altrettante obiettive ragioni contingenti, che legittimano l’utilizzo del dipendente in mansioni non corrispondenti al livello o alla qualifica rivestita.

Ha ritenuto la Corte che tali principi, enunciati in materia di impiego privato, sono stati ritenuti estensibili al lavoro pubblico contrattualizzato (v. Cass. n. 17774/2006); si è in particolare affermata l’esigibilità di attività corrispondenti a mansioni inferiori, da parte del datore di lavoro pubblico, solo quando le stesse abbiano carattere marginale e rispondano ad esigenze organizzative di efficienza e di economia del lavoro, ovvero di sicurezza.

Nel caso di specie, il contenuto delle mansioni attribuite all’infermiere professionale è stabilito dal contratto collettivo nell’ambito della categoria – D – che fa quindi riferimento al profilo contenuto nel DM 739/1994 con il quale si richiede per l’accesso mediante diploma universitario.

Il decreto ministeriale fa riferimento a  compiti sono quelli di assistenza preventiva, curativa, palliativa, riabilitativa e di partecipazione all’identificazione dei bisogni e degli obiettivi nonché di garante della corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico terapeutiche.

Trattasi di compiti che si affiancano seppure in maniera complementare a quelli del personale medico.

Viceversa, il medesimo contratto collettivo nella categoria BS inquadra il personale definito come Operatore Socio Assistenziale definito come il soggetto che su indicazione dei preposti porge assistenza diretta, supporto e gestione di ambiente e di vita, intervento igienico sanitario a carattere sociale, supporto gestionale, organizzativo, formativo.

Esso viene identificato come il personale che su indicazione dei preposti porge assistenza diretta, supporto e gestione ambiente vita, intervento igienico sanitario a carattere sociale, supporto gestionale, organizzativo, formativo. L’accesso a quest’ambito professionale avviene tramite un corso di formazione a base regionale.

Non vi è dubbio come significativo sia lo stacco sia lo stacco tra le due tipologie di mansioni.

La prima appare come appendice dell’attività medico – curativa.

La seconda come esplicazione delle cure materiali connesse all’ospedalizzazione.

Appare quindi difficile individuare una complementarietà e contiguità tra le due attribuzione e le considerazioni della Corte di Cassazione appaiono esatte.

avv. Fabio Petracci