Il valore del pasto può considerarsi parte della retribuzione?

Sul tema vi sono due indirizzi apparentemente contraddittori.

Il decreto legge 11.7.1992 n.333 all’articolo 6 stabilisce come l’erogazione del servizio di mensa nell’ambito di un rapporto di lavoro costituisce retribuzione in natura.

Nel contempo stabilisce pure come il valore economico di detto servizio ed anche l’eventuale indennità sostitutiva non sono considerati far parte della retribuzione ai fini degli istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato, e ciò a meno che le disposizioni della contrattazione collettiva non stabiliscano diversamente.

La norma fa salvi in ogni caso i diritti stabiliti da accordi e contratti collettivi anche se stipulati prima della decorrenza della norma di legge.

La stessa disposizione di legge conferma le normative esistenti concernenti la base imponibile comprensiva del servizio di mensa ai fini dei contributi previdenziali.

La legge appena citata introduce inoltre una modifica all’articolo 11 dello statuto dei lavoratori, aggiungendovi un ulteriore comma che stabilisce in capo alle RSA aziendali il diritto di controllare la qualità del servizio di mensa secondo modalità stabilite dalla contrattazione collettiva.

La giurisprudenza di legittimità che ha fatto seguito (Sezione Lavoro n.31720 del 10.12.2024 ) ha confermato tali disposizioni in tema di computo dell’indennità di mensa negli istituti contrattuali.

Con l’ordinanza 27 settembre 2024 n.25840 invece, la Cassazione confermando la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Napoli stabilendo come il ticket mensa doveva considerarsi a pieno titolo una componente della retribuzione e che quindi nel corso delle ferie il dipendente avrebbe dovuto percepire la retribuzione comprensiva del valore del pasto, per evitare che il lavoratore possa essere dissuaso dal godere delle ferie per evitare una penalizzazione economica.

In tal senso, la decisione richiamava la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE 20 gennaio 2009 C-350/06 e C-520/06).

Quest’ultima sentenza non si pone in contraddizione con il disposto di cui al già menzionato articolo 6 del decreto legge 11.7.1992 n.333.

Infatti, la norma appena menzionata ribadisce la natura retributiva del pasto erogato al dipendente con l’eccezione che il costo del medesimo non va computato nei diversi istituti contrattuali, eccezion fatta per il godimento delle ferie che rientra invece nell’ambito della tutela sancita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Fabio Petracci

E’ lecita la registrazione della conversazione con il datore di lavoro con finalità di tutela dei diritti del lavoratore

Corte di Cassazione – sez. I civ.- ordinanza n. 24797 del 16-09-2024.

La Corte di Cassazione anche nella vigenza dell’attuale GDPR ha ritenuto come la registrazione di conversazione ai fini della tutela in eventuale giudizio (procedimento di lavoro) dei propri diritti debba considerarsi lecito in forza del bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e altri diritti fondamentali dell’individuo.

Così espone la Cassazione nel corso della motivazione:

“Occorre tenere presente, in particolare, quanto esposto nel considerando 4 del regolamento UE, laddove si legge che “Il trattamento dei dati personali dovrebbe essere al servizio dell’uomo. Il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità”.

Ancora, il considerando 47 precisa che “i legittimi interessi di un titolare del trattamento, compresi quelli di un titolare del trattamento a cui i dati personali possono essere comunicati, o di terzi possono costituire una base giuridica del trattamento, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato, tenuto conto delle ragionevoli aspettative nutrite dall’interessato in base alla sua relazione con il titolare del trattamento”.

Altresì deve tenersi presente il considerando 20 il quale così si esprime: “Non è opportuno che rientri nella competenza delle autorità di controllo il trattamento di dati personali effettuato dalle autorità giurisdizionali nell’adempimento delle loro funzioni giurisdizionali, al fine di salvaguardare l’indipendenza della magistratura nell’adempimento dei suoi compiti giurisdizionali, compreso il processo decisionale”.

5.2.- Deve quindi osservarsi che difendersi in giudizio, specie ove la controversia attenga a diritti della persona strettamente connessi alla dignità umana -e quindi i diritti dei lavoratori, secondo quanto dispone l’art. 36 Cost.- è un diritto fondamentale e che nella relazione tra il datore di lavoro e i dipendenti si creano legittime aspettative e tra queste quella delle reciproca lealtà e del rispetto dei diritti del dipendente. Gli artt. 17 e 21 del GDPR rendono palese che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio può essere ritenuto prevalente sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali. In particolare l’art. 17 comma 3 lettera e) del regolamento dispone che i paragrafi 1 e 2 (diritto alla cancellazione) non si applicano nella misura in cui il trattamento sia necessario per l’accertamento l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria e l’art. 21 (diritto di opposizione) consente al titolare del trattamento di dimostrare “l’esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento che prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell’interessato oppure per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”.

Più specificamente la Corte di giustizia UE con sentenza del 2 marzo 2023, (C-268/21 – Norra Stockholm Bygg AB contro Per Nycander AB) ha chiarito che qualora dati personali di terzi vengano utilizzati in un giudizio è il giudice nazionale che deve ponderare, con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità, gli interessi in gioco e che “tale valutazione può, se del caso, indurlo ad autorizzare la divulgazione completa o parziale alla controparte dei dati personali che gli sono stati così comunicati, qualora ritenga che una siffatta divulgazione non ecceda quanto necessario al fine di garantire l’effettivo godimento dei diritti che i soggetti dell’ordinamento traggono dall’articolo 47 della Carta” (par. 58).

In termini, anche la giurisprudenza nazionale è consolidata nel ritenere che l’uso di dati personali non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso del titolare quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa (Cass. n. 9314 del 04/04/2023Cass. s.u. n. 3034 del 08/02/2011) Si è così affermato che il trattamento dei dati personali in ambito giudiziario, anche nel vigore della disciplina di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta, non siano utilizzati per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne è avvenuta l’acquisizione e sussista il provvedimento autorizzatorio (Cass. n. 1263 del 17/01/2022 ; v. Cass. n. 39531 del 13/12/2021).

Inoltre, questa Corte ha ritenuto che anche nella vigenza del GPR vadano confermati i consolidati principi in ordine alla legittimità del trattamento di dati personali senza il consenso dell’interessato, purché effettuato nel rispetto del criterio della “minimizzazione” ove sia indispensabile per la tutela di interessi vitali della persona che li divulga o della sua famiglia (Cass. n. 9922 del 28/03/2022).”

CASSAZIONE – L’infermiere professionale è tenuto a svolgere compiti tipici degli Operatori Socio Sanitari?

Un’interessante sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione n.7683/2025 interviene a fare chiarezza in tema di mansioni del personale infermieristico ed anche alle mansioni accessorie che possono essere richieste a questa tipologia di professione e che normalmente appartengono alla categoria degli Operatori Socio Assistenziali O.S.S.

A seguito di numerose anche recenti innovazioni normative, si è assistito ad una valorizzazione delle mansioni del personale infermieristico al quale ora si richiede il possesso almeno di una laurea breve e lo svolgimento di compiti di assistenza medica, cui si contrappongono gli Operatori Socio Sanitari cui sono affidate mansioni di carattere assistenziale – esecutivo.

La sentenza è originata da alcune controversie mosse in primo grado da infermieri professionali cui erano richieste con una certa continuità mansioni inferiori ascrivibili alla declaratoria contrattuale degli Operatori Socio Assistenziali.

Le istanze degli infermieri erano state respinte tanto in primo grado che in appello sul presupposto che pur sussistendo l’affidamento di mansioni inferiori, esse dovevano considerarsi complementari e saltuarie rispetto a quelle attribuite di infermiere professionali e comunque connesse ad una difficile situazione organizzativa aziendale

La Corte di Cassazione con il cennato giudizio rovescia queste impostazioni.

Si è infatti ritenuto da parte della Suprema Corte che le motivate esigenze aziendali devono avere carattere temporaneo, sicché l’utilizzo di fatto costante secondo un turno programmato di un lavoratore o di una lavoratrice in mansioni inferiori, neanche complementari a quelle del profilo rivestito, sia pure in maniera non particolarmente ricorrente in termini di ore adibite alla mansione inferiore, ma finalizzato di fatto alla copertura di posizioni lavorative non presenti nell’organico aziendale, non può ritenersi rispettoso del principio di tutela della professionalità di cui all’articolo 2103 cod. civ. mancando proprio quelle motivate esigenze aziendali, anche connotate da temporaneità o da altrettante obiettive ragioni contingenti, che legittimano l’utilizzo del dipendente in mansioni non corrispondenti al livello o alla qualifica rivestita.

Ha ritenuto la Corte che tali principi, enunciati in materia di impiego privato, sono stati ritenuti estensibili al lavoro pubblico contrattualizzato (v. Cass. n. 17774/2006); si è in particolare affermata l’esigibilità di attività corrispondenti a mansioni inferiori, da parte del datore di lavoro pubblico, solo quando le stesse abbiano carattere marginale e rispondano ad esigenze organizzative di efficienza e di economia del lavoro, ovvero di sicurezza.

Nel caso di specie, il contenuto delle mansioni attribuite all’infermiere professionale è stabilito dal contratto collettivo nell’ambito della categoria – D – che fa quindi riferimento al profilo contenuto nel DM 739/1994 con il quale si richiede per l’accesso mediante diploma universitario.

Il decreto ministeriale fa riferimento a  compiti sono quelli di assistenza preventiva, curativa, palliativa, riabilitativa e di partecipazione all’identificazione dei bisogni e degli obiettivi nonché di garante della corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico terapeutiche.

Trattasi di compiti che si affiancano seppure in maniera complementare a quelli del personale medico.

Viceversa, il medesimo contratto collettivo nella categoria BS inquadra il personale definito come Operatore Socio Assistenziale definito come il soggetto che su indicazione dei preposti porge assistenza diretta, supporto e gestione di ambiente e di vita, intervento igienico sanitario a carattere sociale, supporto gestionale, organizzativo, formativo.

Esso viene identificato come il personale che su indicazione dei preposti porge assistenza diretta, supporto e gestione ambiente vita, intervento igienico sanitario a carattere sociale, supporto gestionale, organizzativo, formativo. L’accesso a quest’ambito professionale avviene tramite un corso di formazione a base regionale.

Non vi è dubbio come significativo sia lo stacco sia lo stacco tra le due tipologie di mansioni.

La prima appare come appendice dell’attività medico – curativa.

La seconda come esplicazione delle cure materiali connesse all’ospedalizzazione.

Appare quindi difficile individuare una complementarietà e contiguità tra le due attribuzione e le considerazioni della Corte di Cassazione appaiono esatte.

avv. Fabio Petracci

CASSAZIONE: Illegittimo il licenziamento di dipendente giustificato dalla soppressione della funzione cui era addetto.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 03/12/2024) 29/01/2025, n. 2054

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.ssa DORONZO Adriana – Presidente

Dott. PANARIELLO Francescopaolo – Consigliere rel.

Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi – Consigliere

Dott. MICHELINI Gualtiero – Consigliere

Dott.ssa CIRIELLO Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2164/2021 r.g., proposto da:

Latte Carso Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elett. dom.to in Via Tommaso Salvini n. 55, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Carlo Cester, Nicolò Fiorentin e Simonetta De Sanctis Mangelli.

– ricorrente – controricorrente incidentale –

contro

A.A., elett. dom.to in Via L. G. Faravelli n. 22, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Roberto Crasnich ed Enzo Morrico.

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Trieste n. 109/2020 pubblicata in data 12/11/2020, n.r.g. 207/2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 03/12/2024 dal Consigliere dott. Francescopaolo Panariello.

Svolgimento del processo

  1. – A.A. era stato dipendente di Latterie Carsiche Spa dal 04/12/2012, poi di Latte Carso Srl (affittuaria di azienda dal 28/02/2017), con mansioni di impiegato tecnico di I livello, responsabile delle tecnologie.

Deduceva che nell’anno 2017 la società aveva comunicato l’esistenza di vari esuberi, cui aveva fatto seguito una fase di trattativa con le parti sociali, culminato con il licenziamento collettivo di alcuni dipendenti, fra cui lui, licenziato con nota del 16/02/2018 giustificata dall’asserita soppressione della funzione cui era addetto.

Adiva il Tribunale di Gorizia con impugnazione del licenziamento secondo il rito c.d. Fornero, deducendo molteplici profili di illegittimità e/o nullità del recesso datoriale, in quanto discriminatorio, ritorsivo e comunque fondato su una giustificazione inesistente.

  1. – Costituitosi il contraddittorio, espletata prova testimoniale, all’esito della fase a cognizione sommaria il Tribunale accoglieva la domanda per violazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare, ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e condannava la società a pagarle l’indennità risarcitoria in misura non superiore a dodici mensilità.
  2. – Proposta opposizione dalla società, istruita la causa con ordine di esibizione ed acquisizioni documentali, il Tribunale confermava l’ordinanza e rigettava l’opposizione.
  3. – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello rigettava il reclamo proposto dalla società.

Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

  1. a) non vi sono elementi istruttori che avvalorino la tesi aziendale della soppressione della funzione svolta dal dipendente;
  2. b) le conseguenze della violazione dei criteri di scelta sono dettate dall’ 5, co. 3, L. n. 223/1991, da coordinare con l’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970;
  3. c) quanto all’accordo aziendale in deroga ex  8D.L. n. 138/2011, stipulato in data 14/02/2017, esso non rileva per vari motivi: risulta concluso non da Latte Carso Spa, bensì da Latterie Carsiche Spa; non contiene un chiaro riferimento alle finalità perseguite, come invece necessario; prevede un importo indennitario minimo e indifferenziato rispetto al momento del licenziamento; risulta comunque illogico ed incomprensibile l’impegno datoriale a non risolvere i rapporti di lavoro (salvo iniziativa dei lavoratori o il ricorso alla CIGS) e dall’altro lato la previsione dell’indennità proprio per i casi di licenziamento, che confliggono con quell’impegno a non risolvere il rapporto di lavoro assunto dalla società.
  4. – Avverso tale sentenza Latte Carso Spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo.
  5. – A.A. ha resistito con controricorso ed a sua volta ha proposto ricorso incidentale condizionato, senza motivi.
  6. – Latte Carso Spa ha resistito al ricorso incidentale condizionato con controricorso.
  7. – Entrambe le parti hanno depositato memoria.
  8. – Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.

Motivi della decisione

  1. – Con l’unico motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e 4), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2112c.c., 8 D.L. n. 138/2011(conv. in L. n. 148/2011), 1362, 1363 e 1366 c.c., nonché la nullità della sentenza per totale assenza di motivazione, per avere la Corte territoriale negato rilevanza all’accordo sindacale in deroga stipulato in data 14/02/2017 ai sensi dell’art. 8 D.L. n. 138/2011.

Il motivo è fondato, anche alla luce di specifici precedenti di questa Corte relativi alla medesima vicenda (Cass. ord. n. 10213/2024Cass. ord. n. 10263/2024), dai quali non vi è motivo di discostarsi.

Sul piano oggettivo dei contenuti, in quell’accordo sindacale – come riportato dalle parti – era sì previsto l’impegno a non risolvere il rapporto di lavoro mediante licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma tale impegno era stato espressamente limitato nel tempo ad una durata di dodici mesi. Quindi non sussiste quella incompatibilità o illogicità ritenuta dalla Corte territoriale, anche perché poi il licenziamento è stato di tipo collettivo (e non per giustificato motivo oggettivo) ed è intervenuto dopo il periodo di dodici mesi. Pertanto, contrariamente all’assunto della Corte territoriale, effettivamente si è trattato di una vicenda collettiva che non sconfessa quell’impegno, anzi rispettato sul piano letterale (art. 1362 c.c.).

Sul piano dell’efficacia soggettiva, poi, come deduce e documenta l’odierna ricorrente, in data 15/02/2017 – in vista dell’imminente stipula del contratto di affitto dell’azienda – la società Latterie Carsiche Spa (poi cedente l’azienda) sottoscrisse verbali di conciliazione individuale in sede sindacale ex art. 411 c.p.c., nei quali ciascun lavoratore dichiarava di prendere atto che il rapporto di lavoro sarebbe proseguito e sarebbe stato disciplinato, fra l’altro, dal predetto accordo sindacale in deroga, che il lavoratore dichiarava di conoscere e di accettare.

Come ricorda ancora la ricorrente, in quell’accordo sindacale in deroga era stato anche previsto che, qualora fossero poi intervenuti un licenziamento (individuale o collettivo) illegittimo, l’indennità risarcitoria sarebbe stata corrisposta in una misura ivi prevista da un minimo di 500 ad un massimo di 1.500 Euro.

Su tutte queste clausole la Corte territoriale ha taciuto, limitandosi a sostenerne l’inapplicabilità in quanto contenute in un accordo non stipulato dalla società reclamante, argomento errato perché in violazione dell’art. 2112 c.c. Infatti, in virtù del trasferimento d’azienda (circostanza pacifica), il rapporto di lavoro è transitato alle dipendenze di Latte Carso Srl (ora Spa), ivi compresi sia gli effetti dell’accordo sindacale del 14/02/2017, sia i diritti e gli obblighi nascenti dall’accordo individuale del 15/02/2017, che a quell’accordo sindacale faceva espresso riferimento. Anche a questo riguardo fondata, infatti, è altresì la censura di violazione dell’art. 1362 c.c. ossia del criterio di interpretazione letterale, posto che nella conciliazione individuale del 15/02/2017 il lavoratore aveva espressamente dichiarato di “conoscere ed accettare” proprio quell’accordo sindacale in deroga.

Ne deriva che il predetto accordo sindacale è certamente invocabile dalla odierna ricorrente perché non si tratta di res inter alios: nella posizione contrattuale di uno dei contraenti (l’originaria datrice di lavoro, Latterie Carsiche Spa) è succeduta – in virtù del trasferimento d’azienda (art. 2112 c.c.) – la nuova datrice di lavoro (Latte Carso Srl poi Spa). Di tale accordo, dunque, la Corte territoriale dovrà tenere conto, atteso che in esso sono indicate le ragioni della sua stipula e vi è l’espressa previsione delle conseguenze indennitario-risarcitorie per eventuali licenziamenti illegittimi, ferma la reintegrazione. La sentenza impugnata va pertanto cassata e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, perché rivaluti la controversia alla luce dell’accoglimento del ricorso principale, nonché per la regolamentazione delle spese ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

  1. – Il ricorso incidentale condizionato è inammissibile, perché con esso il controricorrente, lungi dal censurare la sentenza di secondo grado, si limita ad eccepire l’inammissibilità del ricorso principale.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, affinché decida le conseguenze risarcitorie del licenziamento illegittimo alla luce dell’accoglimento del ricorso principale, nonché per la regolamentazione delle spese ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, D.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1-bis, D.P.R. cit., se dovuto.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data 3 dicembre 2024.

Depositata in Cancelleria il 29 gennaio 2025

CASSAZIONE: Malattia e calcolo del comporto, le novità della giurisprudenza.

Il comporto non è uguale per tutti. Un periodo di comporto determinato astrattamente può determinare discriminazione indiretta nei confronti del disabile.

La recente ordinanza n.24052 del 6.9.2024 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha ritenuto come gli ordinari termini di comporto di cui alla contrattazione collettiva non sempre appaiano in grado di garantire il lavoratore portatore di handicap nei confronti di un trattamento di discriminazione indiretta.

Nel caso di lavoratore portatore di handicap, non è sufficiente infatti una determinazione astratta dell’assenza per determinarne l’idoneità a risolvere automaticamente il rapporto di lavoro, ma è necessaria una valutazione soggettiva dell’inabilità con l’applicazione degli accorgimenti ragionevoli prescritti dalla direttiva  2000/78/CE e dall’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2006.

La pronuncia appare in linea con i recenti precedenti della Cassazione Corte secondo cui (Cass. n. 9095/2023), in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio e secondo cui (Cass. n. 14316/2024) la conoscenza dello stato di disabilità del lavoratore – o la possibilità di conoscerlo secondo l’ordinaria diligenza – da parte del datore di lavoro fa sorgere l’onere datoriale – a cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore – di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l’eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità, al fine di individuare possibili accorgimenti ragionevoli imposti dall’art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, la cui adozione presuppone l’interlocuzione ed il confronto tra le parti.

Ciò in pratica significa che nel valutare o fissare il periodo di assenza atto a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro, si renderà necessario considerare la situazione di handicap e la sua idoneità a complicare la guarigione anche in relazione alla possibilità o meno di adottare degli accomodamenti ragionevoli.

Fabio Petracci

 

CASSAZIONE: Diritto dei dipendenti in distacco sindacale a ricevere i compensi incentivanti

Corte di cassazione civile – Sezione lavoro, Sentenza 16 ottobre 2024, n. 26908 diritto dei dipendenti in distacco sindacale a ricevere i compensi incentivanti, nel caso di specie presso l’INPS – insussistenza in base alla previsione inderogabile di cui all’articolo 2, punti 2 e 3 bis del DLGS 165/2001 e articolo 7 punto 5 del medesimo DLGS.

La Cassazione con la sentenza di cui in epigrafe, è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla sussistenza o meno del diritto ai compensi incentivanti per i dipendenti in distacco sindacale ancorati alla presenza in servizio del dipendente.

Di fronte al ricorrente che ha richiamato anche l’articolo 42 del CCNL14.2.2001 applicato dall’INPS e l’articolo 28 del medesimo CCNL del 16.2.1999 laddove indicavano espressamente tra le voci retributive spettanti in caso di distacco sindacale i compensi incentivanti, richiamando altresì l’articolo 71 comma 3 del  CCNL della Dirigenza che contiene analoga previsione, la Corte di Cassazione con la sentenza in epigrafe ha ribadito come l’articolo 7, comma 5 del DLGS 165/2001, lungi dal poter essere derogato, costituiva con il divieto alle amministrazioni pubbliche di erogare trattamenti economici accessori non corrispondenti alle prestazioni rese, costituiva invece  norma inderogabile dalla quale derivava la nullità della normativa contrattuale citata.

Fabio Petracci

CASSAZIONE: Rapporto di lavoro giornalistico.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 12/09/2024) 10/10/2024, n. 26466

Lavoro dipendente  – individuazione dei requisiti – attività di fotoreporter – prevalenza dell’elemento subordinazione – altri elementi carattere integrativo nel caso di difficoltà nel riscontrare in pieno la subordinazione.

La Corte di Cassazione di fronte ad una pronuncia di una Corte di merito che aveva respinto la domanda di un fotoreporter a vedersi riconosciuta la qualifica di giornalista lavoratore subordinato, rileva che qualora sussista il pieno accertamento della subordinazione, il giudice non deve ricorrere ad altri criteri di supporto come la titolarità di una ditta individuale o la disponibilità di un proprio studio fotografico, o l’attività svolta per altri committenti.

Ha quindi ribadito il giudice di legittimità che soltanto qualora l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa del concreto atteggiarsi del rapporto può farsi ricorso ad elementi dal carattere sussidiario e funzione indiziaria (Cass. SS.UU. n. 379/1999), che ne accertano in via indiretta l’esistenza quali evidenze sintomatiche di un vincolo non rintracciabile aliunde.

Di conseguenza, la Suprema Corte ha ritenuto censurabili i criteri generali ed astratti atti ad individuare la subordinazione.

Per quanto riguarda nello specifico la subordinazione nel settore giornalistico, la Corte di Cassazione ha precisato (Sez. L, Sentenza n. 19681 del 11/09/2009, Rv. 609940 – 01) che, a norma dell’art. 5 del C.C.N.L. 10 gennaio 1959, reso efficace erga omnes con D.P.R. 16 gennaio 1961, n. 153, ai fini della sussistenza del requisito della subordinazione non si richiede l’impegno in una attività quotidiana con l’obbligo di osservare un orario di lavoro; devono tuttavia ricorrere i requisiti della “continuità di prestazione, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio” (art. 2 del citato C.C.N.L.), i quali sussistono quando il giornalista, pur senza essere impegnato in una attività quotidiana, assicuri con continuità, in conformità dell’incarico ricevuto, una prestazione non occasionale rivolta alle esigenze formative o informative riguardanti uno specifico settore di sua competenza, con responsabilità di un servizio, cioè con l’impegno di redigere normalmente e con carattere di continuità articoli su specifici argomenti o compilare rubriche, e con un vincolo di dipendenza, contraddistinto dal fatto che l’obbligo di porre a disposizione la propria opera non viene meno fra una prestazione e l’altra.

La stessa Corte ha anche affermato,(tra le altre, Sez. L, Sentenza n. 8068 del 02/04/2009, Rv. 607603 – 01, nonché Sez. L, Sentenza n. 22785 del 07/10/2013, Rv. 628530 – 01) che, in tema di attività giornalistica, sono configurabili gli estremi della subordinazione – tenuto conto del carattere creativo del lavoro – ove vi sia lo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nell’organizzazione aziendale così da poter assicurare, quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di un’esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, e permanga, nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, la disponibilità del lavoratore alle esigenze del datore di lavoro, non potendosi escludere la natura subordinata della prestazione per il fatto che il lavoratore goda di una certa libertà di movimento ovvero non sia tenuto ad un orario predeterminato o alla continua permanenza sul luogo di lavoro, né per il fatto che la retribuzione sia commisurata alle singole prestazioni; costituiscono, per contro, indici negativi alla ravvisabilità di un vincolo di subordinazione la pattuizione di prestazioni singolarmente convenute e retribuite, ancorché continuative, secondo la struttura del conferimento di una serie di incarichi professionali ovvero in base ad una successione di incarichi fiduciari.

Fabio Petracci

CASSAZIONE: Spoil System Enti locali, limiti di applicabilità.

Con l’ordinanza del 7 giugno 2024 n.15971, la Corte di Cassazione affronta il tema dell’individuazione dei soggetti dirigenziali cui applicare l’istituto dello Spoil System (decadenza dall’incarico a seguito dell’entrata in carica dei nuovi organi di governo).

Attualmente, a livello di Testo Unico del Pubblico Impiego, l’istituto dello Spoil System è previsto dall’articolo 19 del DLGS 165/2001, laddove al comma 3 è prevista l’attribuzione degli incarichi di dirigenza generale apicale e si legge:

“Gli incarichi di Segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente sono conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 o, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali e nelle percentuali previste dal comma 6.”

Di seguito, il  medesimo articolo al successivo comma 8, con riferimento alle funzioni sopra descritte, stabilisce che:

Gli incarichi di funzione dirigenziale di cui al comma 3 cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo”.

Nel caso di specie, sottoposto all’esame della Corte di Cassazione, un dirigente della Regione Calabria con l’incarico di dirigente di settore per la durata di tre anni, è dichiarato decaduto dall’incarico, dopo la nomina della nuova giunta regionale sulla base dell’articolo 50, comma 6 dello Statuto Regionale.

Inoltre l’articolo 25 comma 7 della legge regionale della Calabria n.14/2000 consente in linea con la normativa regionale, la revoca dell’incarico per i soli dirigenti generali.

L’articolo 16 del DLGS 165/2001 in tema di dirigenza pubblica elenca le attribuzioni ed i poteri dei dirigenti con incarichi di dirigenza generale.

Nel caso di specie, prima il giudice di merito e quindi la Cassazione ritengono fondamentale la verifica dei poteri attribuiti al presunto dirigente generale e verificatane l’insussistenza, ritengono non applicabile l’istituto dello Spoil System al dirigente in questione.

L’istituto dello Spoil System è stato oggetto di numerosi interventi da parte della Corte Costituzionale principalmente alla luce dell’articolo 97 della Costituzione.

Con la sentenza del 22 febbraio 2019 n.23, la Consulta ebbe a dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 99 commi 2 e 3 del DLGS n.267 del 18 agosto 2000 secondo il quale il segretario comunale resta in carica per un periodo corrispondente a quello del sindaco e cessa automaticamente dall’incarico al termine del mandato di quest’ultimo.

Riteneva la Consulta che il Segretario Comunale sebbene titolare di funzioni di controllo di legalità e di certificazione che potevano ritenersi neutrali rispetto all’azione politica, era investito anche di attribuzioni di carattere manageriale e di supporto propositivo all’azione degli organi comunali capaci di orientare le scelte dell’ente.

Fabio Petracci

CASSAZIONE – Non è valida la conciliazione in sede sindacale stipulata presso la sede aziendale.

Lo afferma la Cassazione Sezione Lavoro con la pronuncia n.10065 del 15.4.2024.

Nel caso di specie, il lavoratore e il datore di lavoro avevano sottoscritto un accordo per la riduzione stipendiale in base all’articolo 2103 del codice civile, siccome novellato dall’articolo 3 DLGS 81/2015, in sede aziendale, ripromettendosi poi di formalizzarlo nelle sedi indicate dalla legge.

L’articolo 2103 nel testo attuale richiama per la validità dello stesso la necessità che esso avvenga nelle sedi dell’articolo 2113 quarto comma o innanzi alle Commissioni di Certificazione.

L’articolo 2113 al quarto comma richiama a sua volta l’articolo 185 del codice di procedura civile riferito alla conciliazione in sede giudiziale e quindi, il riferimento va all’articolo 410 del codice di procedura con il riferimento al tentativo di conciliazione che può precedere l’avvio del contenzioso giudiziale, e quindi sempre l’articolo 2113 fa menzione dell’  412 ter del codice di procedura civile che stabilisce: “La conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’articolo 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.”

L’articolo 412 quater prevede poi, sempre richiamato dall’articolo 2113 del codice civile l’ipotesi della procedura di conciliazione ed arbitrato nell’ambito della quale si possono formulare valide transazioni in tema di lavoro.

Il ragionamento esposto nell’ordinanza della Suprema Corte non va quindi inteso siccome ristretto esclusivamente alla censura della sede topografica per la stipula di una valida conciliazione, ma in qualche modo richiama la formazione della volontà delle parti che in quello che può essere definito un preaccordo, pur raggiungendo l’accordo transattivo nella sede aziendale, si erano riproposte di formalizzare l’accordo medesimo nelle cosiddette “sedi protette” indicate dalla legge. In nessun naso, però, ha sostenuto la Cassazione la sede aziendale può considerarsi come sede protetta.

Dunque due sono i motivi in base ai quali la Cassazione ha confermato la sentenza appellata.

Il primo è la mancata formalizzazione del preaccordo ed il secondo anche di conseguenza la mancata individuazione anche in senso letterale e materiale della sede sindacale.

Fabio Petracci

CASSAZIONE – Gli oneri di allegazione che incombono sul lavoratore che chiede un risarcimento a seguito di infortunio.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 05/04/2024, n. 9120.

La Cassazione ha affermato che nel caso sia evocata la responsabilità del datore di lavoro a seguito di infortunio non è necessaria da parte del lavoratore l’allegazione specifica delle norme di cautela violate, essendo sufficiente l’esposizione delle modalità di infortunio che consenta l’emergere della responsabilità datoriale.

È, comunque, necessario, afferma la Corte, che il lavoratore alleghi la condizione di pericolo insita nella conformazione del luogo di lavoro, nella organizzazione o nelle specifiche modalità di esecuzione della prestazione, ed il nesso causale tra la concretizzazione di quel pericolo ed il danno psicofisico sofferto, incombendo a questo punto su parte datoriale l’onere di provare l’inesistenza della condizione di pericolo oppure di aver predisposto tutte le misure atte a neutralizzare o ridurre, al minimo tecnicamente possibile, i rischi esistenti (Nel caso di specie, richiamati gli enunciati principi, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel respingere la domanda di risarcimento del danno differenziale conseguente ad un infortunio verificatosi mentre il lavoratore ricorrente era intento a rifornire di gasolio il camion che, in veste di autista, gli era stato assegnato in dotazione, aveva, da un lato, ritenuto necessaria l’individuazione delle norme di prevenzione violate, e dall’altro considerato la negligenza di quest’ultimo idonea da sola ad elidere la responsabilità datoriale).

Di seguito, la motivazione della sentenza:

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  1. Con l’unico motivo del ricorso il lavoratore ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 2087c.c., degli artt. 1518 del D.Lgs. n. 81 del 2008, dell’art. 116 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto storico decisivo.
  2. Il ricorrente ha dedotto di avere allegato, fin dal ricorso introduttivo del giudizio (che ha trascritto nelle parti essenziali a p. 8), che l’infortunio si era verificato nell’espletamento dell’attività lavorativa, presso la sede operativa della società datoriale sita in N e che, nell’effettuare il rifornimento di gasolio al camion in dotazione presso il distributore ivi collocato, era caduto a terra a causa dell’intralcio costituito dal tubo di erogazione sprovvisto di sistema di sicurezza. Ha aggiunto che tale dinamica era riportata nella denuncia di infortunio (riprodotta nel corpo del ricorso e localizzata – doc. 6 allegato al ricorso di primo grado) trasmessa dalla società all’Inail, che aveva riconosciuto e indennizzato l’infortunio. Ha affermato di avere, fin dal ricorso introduttivo del giudizio (v pp. 11-12 del ricorso in cassazione), argomentato sulla nocività del luogo di lavoro e, precisamente, sul fatto che “il tubo andava a cadere su una piattabanda posizionata in maniera irregolare al di sotto del distributore e per l’intera estensione dello stesso, creando una sporgenza da uno dei due lati (cfr. rilievi fotografici allegati). La collocazione della piattabanda determinava un dislivello tra la superficie di calpestio e il distributore, atteso che la stessa fuoriusciva da uno dei due lati dell’erogatore, creando una sporgenza.. L’incidente poteva essere evitato modificando lo stato dei luoghi ovvero apponendo delle apposite barriere protettive eliminando il dislivello…nonché adottando un sistema di riavvolgimento automatico della pompa…L’incidente …è da attribuirsi alla esclusiva responsabilità del datore di lavoro…per non avere apprestato le opportune misure di sicurezza nell’area di sosta dove è ubicato il serbatoio del gasolio per consentire il rifornimento dei mezzi”.
  3. Il ricorso è fondato.
  4. L’art. 2087c.c., norma di chiusura del sistema di prevenzione e di sicurezza nel rapporto di lavoro, impone all’imprenditore di adottare tutte le misure e le cautele atte a preservare l’integrità psicofisica dei lavoratori, tenuto conto delle caratteristiche concrete dei luoghi di lavoro e, in generale, della realtà aziendale. L’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087c.c. si inserisce nella struttura del rapporto obbligatorio tra lavoratore e datore di lavoro ed è fonte di responsabilità contrattuale.
  5. La formulazione della norma in esame, attraverso l’espresso riferimento alle “misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, correla l’obbligo di protezione alle concrete e indefinite situazioni di rischio a cui il lavoratore può trovarsi esposto e in tal modo impone al datore di lavoro l’adozione non solo delle misure cd. nominate ma anche di tutte quelle che, seppure non tipizzate, siano richieste dalle conoscenze tecniche e dall’esperienza riferite ad un determinato momento storico.
  6. Le caratteristiche dell’obbligo di sicurezza, come appena delineate, si riflettono sul contenuto degli oneri di allegazione e prova che gravano sul creditore dell’obbligo medesimo, il lavoratore. Questi, ove agisca verso il datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio, ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione ex art. 1218c.c. (Cass. n. 10319 del 2017n. 14467 del 2017n. 34 del 2016n. 16003 del 2007).
  7. Sulla allegazione del “fatto costituente inadempimento” occorre, tuttavia, svolgere alcune precisazioni, partendo dalla premessa che “l’inadempimento esprime la qualificazione giuridica di una determinata condotta, commissiva o omissiva, adottata in violazione di un obbligo preesistente, (e ciò) comporta che la relativa allegazione debba modularsi in relazione alle caratteristiche ed al contenuto di tale obbligo” (v. Cass. n. 29909 del 2021, in motivazione, p. 6 par. 5.8., e precedenti ivi richiamati).
  8. Posto che l’art. 2087c.c. pone un generale obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, senza ulteriori specificazioni in merito alle condotte omissive e commissive destinate a sostanziarlo, l’onere di allegazione del lavoratore non può estendersi fino a comprendere anche l’individuazione delle specifiche “norme di cautela violate”, come preteso dalla Corte di merito, specie ove non si tratti di misure tipiche o nominate ma di casi in cui molteplici e differenti possono essere le modalità di conformazione del luogo di lavoro ai requisiti di sicurezza. È, invece, necessario, che il lavoratore alleghi la condizione di pericolo insita nella conformazione del luogo di lavoro, nella organizzazione o nelle specifiche modalità di esecuzione della prestazione, ed il nesso causale tra la concretizzazione di quel pericolo e il danno psicofisico sofferto, incombendo a questo punto su parte datoriale l’onere di provare l’inesistenza della condizione di pericolo oppure di aver predisposto tutte le misure atte a neutralizzare o ridurre, al minimo tecnicamente possibile, i rischi esistenti.
  9. In altri termini, l’identificazione dell’inadempimento, quale componente dell’onere di allegazione del lavoratore, “deve essere modulata in relazione alle concrete circostanze e alla complessità o peculiarità della situazione che ha determinato l’esposizione al pericolo” (v. Cass. n. 29909 del 2021cit., in motivazione, con cui è stata cassata la pronuncia di merito che aveva rigettato una domanda di risarcimento del danno, in quanto carente di allegazioni circa le condotte, commissive od omissive necessarie a configurare l’inadempimento datoriale, pur rilevando come tale “deficit” discendesse dalla stessa dinamica dell’infortunio che aveva visto il dipendente, macchinista di Trenitalia Spa, colpito all’occhio da schegge metalliche prodotte dalla frenatura di un rotabile, mentre era in attesa di prendere la guida di un treno sul marciapiede di un binario).
  10. Nella fattispecie oggetto di causa, il lavoratore nel ricorso introduttivo della lite ha descritto lo stato dei luoghi aziendali, esattamente del distributore ove egli doveva fare rifornimento per il veicolo in dotazione, sottolineando l’esistenza di un dislivello tra il piano di calpestio e il distributore e la assenza di barriere protettive e di sistemi di riavvolgimento automatico della pompa, condizioni tali da rendere concreto il pericolo di caduta nell’esecuzione delle operazioni di rifornimento (v. ricorso per cassazione p. 11-12 in cui sono trascritti brani del ricorso introduttivo di primo grado).
  11. Occorre, ancora e sotto diverso profilo, considerare che, in materia di tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell’abnormità, dell’imprevedibilità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute. Ne consegue che, qualora non ricorrano simili caratteristiche nella condotta del lavoratore, l’imprenditore è integralmente responsabile dell’infortunio che sia conseguenza dell’inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell’obbligo di sicurezza integra l’unico fattore causale dell’evento, non rilevando in alcun grado l’eventuale concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza (Cass. n. 27127 del 2013n. 798 del 2017n. 16026 del 2018);
  12. La Corte d’appello non ha fatto corretta applicazione dei principi finora richiamati, sia quanto al contenuto dell’onere di allegazione e prova del lavoratore, avendo ritenuto necessaria l’individuazione delle norme di prevenzione violate, e sia nella valutazione della eventuale negligenza di quest’ultimo, avendo considerato la stessa idonea da sola ad elidere la responsabilità datoriale.
  13. Per tali ragioni, accolto il ricorso, deve cassarsi la sentenza impugnata e rinviarsi la causa alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie conformandosi ai principi di diritto sopra richiamati, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione

Così deciso nell’adunanza camerale del 30 gennaio 2024

Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2024