CASSAZIONE – Infortunio sul lavoro. Omissione di soccorso per mancato tempestivo intervento del datore di lavoro.

Commette omissione di soccorso il datore di lavoro che, verificatosi un infortunio di una certa gravità, non provvede tempestivamente al trasporto in ospedale dell’infortunato.

La Corte di Cassazione Sezione Penale conferma la pena inflitta ad un datore di lavoro che aveva omesso di prestare soccorso all’infortunato che aveva subito nell’ambito del cantiere un grave incidente.

Da quanto si desume dalla sentenza in esame, il datore di lavoro incriminato e condannato si era limitato a dare notizia dell’infortunio al committente.

In tal modo, l’infortunato rimaneva in attesa per oltre quaranta minuti prima di essere trasportato all’ospedale.

Secondo la Corte d’Appello che aveva emesso la condanna poi confermata dalla Corte di Cassazione,  le modalità dell’infortunio e l’evidente sofferenza dell’infortunato, avrebbero dovuto consigliare il datore di lavoro ad attivarsi per l’immediato soccorso, realizzandosi così la fattispecie penale di cui all’articolo 593, comma 2 del codice penale.

Fabio Petracci

Di seguito la sentenza della Corte di Cassazione.

 

Cassazione Sezione Penale sentenza n.47322 del 14.12.2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZAZA Carlo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. MICCOLI Grazia – Consigliere –

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.A., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 23/03/2021 della CORTE APPELLO di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALFREDO GUARDIANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore OLGA MIGNOLO che ha concluso chiedendo.

udito il difensore.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Torino riformava parzialmente in favore dell’imputato, limitatamente alla dosimetria della pena, la sentenza con cui il tribunale di Cuneo, in data 7.1.2019, aveva condannato A.A. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato ex art. 593, comma 2, c.p., in rubrica ascrittog li.

In particolare al A.A. viene addebitato, in concorso con B.B., di avere omesso di prestare la necessaria assistenza alla persona offesa C.C., dipendente della ditta individuale del B.B., con la qualifica di muratore, vittima di un grave incidente nel cantiere allestito presso la sede della ditta committente dei lavori, il “Caseificio A.A. Srl “, di cui il ricorrente era il legale rappresentante, e di dare immediato avviso alla competente autorità di quanto era accaduto.

Il C.C., infatti, mentre era intento con altri lavoratori a sostituire il manto di copertura di un fabbricato, posto a circa 2,9 metri di altezza, era caduto nel locale sottostante, attraverso una botola non adeguatamente protetta o segnalata, riportando le lesioni personali gravi indicate nel capo n. 3) dell’imputazione.

Secondo l’impianto accusatorio, fatto proprio dai giudici di merito, il A.A., invece di prestare immediato soccorso al lavoratore infortunato, aveva informato innanzitutto il B.B., assente dal cantiere nel momento del verificarsi del sinistro, attendendo per circa quaranta minuti l’arrivo di quest’ultimo, senza allertare le autorità sanitarie, limitandosi a caricare il C.C. sul furgone della ditta, con cui, poi l’infortunato, una volta giunto in loco il B.B., sarebbe stato accompagnato presso l’ospedale di (Omissis).

Ad avviso della corte territoriale, le modalità della caduta, tenuto conto dell’altezza di circa tre metri da cui la vittima era precipitata, e l’evidente sofferenza della persona offesa, che, quando il A.A. era intervenuto, si trovava ancora per terra, sia pure appoggiato a un muro, attorniato dagli altri operai, “erano palesemente tali da destare preoccupazione e giustificare da parte del A.A. la richiesta di immediato soccorso da parte delle Autorità Sanitarie o, al più, l’effettuazione di un immediato trasporto al vicino nosocomio, senza indugiare nell’attesa del datore di lavoro” (cfr. pp.11-13 della sentenza oggetto di ricorso).

  1. Avverso la sentenza della corte di appello, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando 1) vizio di motivazione, in quanto, premesso che il reato di cui all’art. 593, c.p., non si configura come un reato proprio, la corte territoriale ha omesso di indicare le ragioni, per cui, accertata la presenza di una serie di soggetti diversi dal A.A. nel momento del verificarsi dell’incidente di cui fu vittima la persona offesa, solo quest’ultimo sia stato ritenuto, in qualità di committente dei lavori, l’unico responsabile del dovere di prestare assistenza, la cui violazione integra il reato di cui all’art. 593, c.p.; 2) manifesta illogicità della motivazione, in quanto la corte territoriale ha desunto la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui si discute, che si atteggia in termini di dolo, secondo un ragionamento deduttivo, incentrato sulla natura delle lesioni, emersa solo ex post, grazie all’accertamento operato dal consulente tecnico del pubblico ministero, tipico della ricostruzione dell’elemento soggettivo nei reati colposi, omettendo di considerare che risponde dell’omissione solo chi voglia non compiere un’azione che sa di dover compiere.
  2. Con requisitoria scritta del 29.7.2022, depositata sulla base della previsione del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137art. 23, comma 8, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.

Con conclusioni scritte del 13.9.202, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia dell’imputato, avv. Giuseppe Sandri, insiste per l’accoglimento del ricorso.

  1. Il ricorso va dichiarato inammissibile.

4.1. Con particolare riferimento al primo motivo di ricorso non può non rilevarsene la manifesta infondatezza, posto che la presenza di più persone, diverse dall’imputato, quando si verificò il sinistro di cui si discute e nei momenti immediatamente successivi a esso, non esonera da responsabilità il A.A..

Come è noto l’art. 593, c.p., che disciplina la fattispecie di omissione di soccorso, recita testualmente: “Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’Autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a duemilacinquecento Euro.

Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata”.

Orbene, il reato di cui all’art. 593, c.p., sia nell’ipotesi di cui al comma 1, che in quella di cui al comma 2 (contestata al A.A.), non si configura come reato proprio, non richiedendo la fattispecie incriminatrice tra i suoi elementi costitutivi una particolare qualità personale del soggetto attivo, che può essere chiunque, anche se, come è stato fatto notare, posto che per la sussistenza del reato è necessario che sussista un contatto materiale, attraverso gli organi sensoriali, tra l’agente e la persona oggetto del ritrovamento (cfr. Sez. 5, n. 20480 del 15/03/2002, Rv. 221916), sarebbe opportuno qualificare il reato come proprio, in ragione del rapporto materiale che deve necessariamente legare l’autore con il soggetto passivo.

Proprio la particolare natura del reato di cui si discute, comporta che, in presenza di una persona in stato di presunto o accertato pericolo, l’obbligo di assistenza diretta o indiretta imposto dalla norma, in cui si concretizza, come sottolineato da autorevole dottrina, l’adempimento sul terreno penalistico dei doveri inderogabili di solidarietà sociale di cui all’art. 2, Cost., incombe su tutti coloro che entrano in contatto con il soggetto bisognoso di assistenza, indipendentemente dalla qualità dei soggetti obbligati.

Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità con orientamento risalente nel tempo, ma non formante oggetto di rivisitazione critica nel corso degli anni, in tema di omissione di soccorso, il termine “trovare” deve intendersi nel senso di “imbattersi”, “venire in presenza di”, e implica un contatto materiale diretto, attraverso gli organi sensoriali, con l’oggetto del ritrovamento. Non importa perciò la distanza fra l’agente e il soccorrendo, purchè essa sia tale che il primo possa percepire lo stato di pericolo in cui versa il secondo, cosi come pure è irrilevante la presenza in loco dell’agente prima che il pericolo sorga, non potendo escludersi l’obbligo del soccorso sol perchè il contatto sensoriale fra agente e soccorrendo si verifica non a causa di una condotta posta in essere dal primo ma a causa di una condotta dello stesso soccorrendo o di terzi (cfr. Sez. 5, n. 6339 del 31/01/1978, Rv. 139066).

Del pari da tempo la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come il reato di omissione di soccorso posto a carico di un soggetto, non può venir meno in caso di possibile intervento di terze persone (cfr. Sez. 6, n. 11148 del 04/03/1988, Rv. 179741).

In altri termini l’affermazione della responsabilità del A.A. trova la sua giustificazione nella violazione del dovere di assistenza previsto dall’art. 593, comma 2, c.p., che, pur in presenza di altre persone del pari astrattamente destinatarie del medesimo dovere, comunque incombeva su di lui, non in qualità di committente dei lavori o di datore di lavoro della persona offesa, ma di soggetto entrato in contatto diretto con la persona pericolante, vale a dire bisognosa di assistenza, dopo il verificarsi del sinistro, in ragione delle conseguenze riportate a causa della caduta da un’altezza di circa tre metri.

Tale dovere egli ha violato, quanto meno non avvisando immediatamente, cioè senza alcuna dilazione non indispensabile, le autorità sanitarie e di polizia (cfr. Sez. 5, n. 3397 del 14/12/2004, Rv. 231409) dell’incidente verificatosi presso la sede del suo caseificio, attendendo, piuttosto, l’arrivo del B.B., senza che ve ne fosse ragione ai fini del soccorso, per accompagnare il C.C. presso il nosocomio di (Omissis).

4.2. Manifestamente infondato e generico appare il secondo motivo di ricorso, con il quale, in definitiva, il ricorrente reitera acriticamente le doglianze rappresentate nell’atto di appello in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui di discute, che si atteggia in termini di dolo generico (integrato dalla consapevolezza della necessità del soccorso e dell’omissione: cfr. Sez. 5, n. 4003 del 14/12/1977, Rv. 138535, nonchè Sez. 5, n. 13310 del 14/02/2013, Rv. 254983), senza confrontarsi con la motivazione della sentenza della corte di appello.

Al riguardo si osserva come, secondo un condivisibile arresto della giurisprudenza di questa Corte, in tema di omissione di soccorso, lo stato di pericolo è elemento costitutivo delle diverse ipotesi di reato previste nel primo e comma 2 dell’art. 593, c.p., e in quest’ultima fattispecie – a differenza della prima nella quale il pericolo è “presunto” in presenza delle situazioni descritte – lo stato di pericolo deve essere accertato, in base agli elementi che caratterizzano il reato, con valutazione “ex ante” e non “ex post” (cfr. Sez. 4, n. 36608 del 19/09/2006, Rv. 235424).

Orbene la corte territoriale ha fatto buon governo di tale principio, evidenziando che proprio le modalità dell’incidente e la condizione di oggettiva sofferenza dell’infortunato immediatamente percepibili e percepite dall’imputato quando entrò in contatto diretto con il C.C., consentivano al ricorrente di avere piena consapevolezza dell’esistenza di una condizione di pericolo quanto meno per l’integrità fisica dell’infortunato, che richiedeva un soccorso immediato attraverso la subitanea allerta delle competenti autorità sanitarie, per cui l’omesso adempimento del dovere di soccorso correttamente è stato ritenuto frutto di una consapevole e volontaria scelta del A.A., sulle cui motivazioni, inoltre, la corte territoriale si sofferma specificamente (cfr. pp. 13-14).

In questa prospettiva gli esiti della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero sulla natura e gravità delle lesioni patite dalla persona offesa non integrano una valutazione “ex post” della situazione di pericolo, ma solo un ulteriore approfondimento degli esiti dell’incidente, foriero di un evidente pericolo per il C.C. già nel momento del suo verificarsi.

  1. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3000,00 a favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2022

Pubblica Amministrazione. I requisiti per gli incarichi esterni.

Il presente scritto riguarda la materia concernente l’affidamento di incarichi a liberi professionisti da parte di enti pubblici, al di fuori delle fattispecie dell’appalto e del lavoro dipendente.

Sarà quindi dato rilievo alla normativa fondamentale che disciplina il conferimento di incarichi da parte della pubblica amministrazione.

Esamineremo innanzitutto l’articolo 7 del DLGS 165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego) che pone le condizioni di legittimità perché una pubblica amministrazione possa instaurare con un soggetto un rapporto di lavoro autonomo.

Come potremo vedere l’articolo 7 è stato oggetto di numerosi interventi restrittivi per eliminare gli abusi ed i reali pericoli di alimentare il precariato.

Il concetto che in primo luogo se ne ricava anche a fissarne la differenziazione dal lavoro subordinato è che debba trattarsi effettivamente di una prestazione individuale i cui termini di prestazione non debbono essere organizzati dalla pubblica amministrazione.

Deve trattarsi inoltre di un estrema ed ultima risorsa per la pubblica amministrazione che normalmente dovrebbe prevedere la presenza delle risorse umane per ogni necessità.

Se almeno all’apparenza ricorrono questi elementi, sarà opportuno confrontarli con la normativa che segue, per un esame di ammissibilità.

  1. Il testo unico del pubblico impiego

L’articolo 7 del DLGS 165/2001 costituisce la base cui riferirsi allorquando deve trattarsi della disciplina del conferimento di incarichi professionali da parte delle pubbliche amministrazioni.

Normalmente l’attività della pubblica amministrazione è svolta per il tramite di lavoratori dipendenti sottoposti a peculiari forme di assunzione e di trattamento contemplate dal DLGS 165/2001 Testo Unico del Pubblico Impiego e contestualmente per gli enti locali dal DLGS 267/2000 Testo Unico dell’ordinamento degli enti locali.

Per incarichi professionali invece intendiamo delle prestazioni che si pongono al di fuori del lavoro dipendente in un contesto di autonomia che va dalle prestazioni coordinate continuative, al lavoro organizzato dal committente e quindi assimilato in quanto al trattamento giuridico al lavoro dipendente sino alle vere e proprie forme di lavoro autonomo e professionale, anche regolamentato dalle norme ordinistiche.

Nell’ultimo periodo, abbiamo assistito al varo di normative volte a diminuire la spesa pubblica e d’altro canto a ridurre in favore della tipologia della subordinazione le varie forme di lavoro para subordinato spesso al limite della legalità.

Da una parte, interveniva in funzione di razionalizzare la Pubblica Amministrazione e contenerne i costi, il decreto Madia DLGS 75/2017 e dall’altra a ridurre le diverse alternative al lavoro subordinato il  il Jobs Act Dlgs 81/2015.

Ne ha risentito anche la materia degli incarichi professionali, laddove l’articolo 7 imponeva restrizioni alla materia degli incarichi professionali esterni.

Quando i contratti di collaborazione con le pubbiche amministrazioni sono vietati.

Il Testo Unico del Pubblico Impiego, D. Lgs. n. 165/2001, all’art. 7, comma 5-bis, prevede il divieto – a far data dal 1 luglio 2019 – per le amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

Pertanto, da tale data non sono più utilizzabili nelle pubbliche amministrazioni i contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

I limitati casi di ammissibilità

Il successivo comma 6 dell’art. 7 prevede tuttavia che per specifiche esigenze cui non possano far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire esclusivamente incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo (artt. 2222 e ss. del codice civile), ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità:

“a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente;

  1. b) l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
  2. c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata;
  3. d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione; non è ammesso il rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell’incarico, oggetto e compenso della collaborazione.”

E’ possibile prescindere dal requisito della comprovata specializzazione universitaria, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore, nel caso di conferimento di incarichi per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell’arte, dello spettacolo dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro.

Ancora, l’eventuale ricorso ai contratti di lavoro autonomo (c.d. incarichi) per lo svolgimento di funzioni ordinarie dell’Amministrazione e l’eventuale utilizzo dei soggetti incaricati con modalità tali da costituire lavoro subordinato sono cause di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti.

In sostanza, lo scopo dell’attribuzione degli incarichi è quello di reperire all’esterno dell’organizzazione dell’Amministrazione risorse che permettano di soddisfare esigenze dell’Ente connotate da carattere temporaneo e per le quali è necessaria un’elevata professionalità, senza dover ricorrere ad assunzioni di personale di ruolo.

L’opportunità di creare un apposito regolamento

Infine, il comma 6-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 165/2001 prevede che le amministrazioni pubbliche debbano disciplinare e rendere pubbliche, secondo i propri ordinamenti, le procedure comparative per il conferimento degli incarichi.

Il divieto di instaurare CO.CO.CO come e da quando opera

Scatta così il divieto di instaurare nell’ambito del pubblico impiego le prestazioni coordinate e continuative.

Dopo alcune proroghe, dal 1 luglio 2019, gli enti pubblici non potranno più stipulare collaborazioni coordinate e continuative, l’ultima proroga era stata prevista dall’articolo 1, comma 131 della legge 145/2018.

In realtà, l’articolo 7 del DLGS 165/2001 al comma 5 bis fa divieto alle pubbliche amministrazioni di stipulare collaborazioni coordinate continuative o a progetto, ma qualsiasi forma di collaborazione non genuinamente autonoma e dove intervenga l’organizzazione della stessa da parte dell’ente anche in relazione al tempo ed al luogo di lavoro.

In sostanza l’ente pubblico può ricorrere a liberi professionisti, laddove le risorse interne non permettano di sopperire a talune esigenze istituzionali dell’ente medesimo.

Le sanzioni

Sanzioni sono previste per il mancato rispetto della norma.

In primo luogo, il contratto stipulato in violazione di legge dovrà considerarsi nullo e naturalmente il dipendente non potrà pretendere il riconoscimento della subordinazione e la stabilizzazione del rapporto. Di conseguenza esso verrà meno, il dipendente non sarà tenuto in forza dell’articolo 2126 del codice civile a restituire quanto percepito ed otterrà comunque se il periodo sarà riconosciuto come subordinato il pagamento dei contributi. Nel caso sia invece instaurato un rapporto di lavoro autonomo comunque in violazione dell’articolo 7 del DLGS 165/2001 ad esempio in quanto nell’ambito dell’ente sussistevano le professionalità necessarie, il professionista potrà agire per il risarcimento del danno ex articolo 2043 del codice civile. Le conseguenti spese andranno quindi a carico del dirigente che ha instaurato indebitamente il rapporto.

Altre sanzioni di natura aministrativa contabile e disciplinare attendono inoltre il dirigente che abbia operato in violazione dell’articolo 7 del DLGS 165/2001 .

I casi che legittimano l’instaurazione di contratti di lavoro autonomo – le ipotesi tassative

Ma quando allora le pubbliche amministrazioni possono ricorrere alle collaborazioni esterne, tenuto presente il divieto di instaurare collaborazioni continuative ed organizzate dall’ente datore di lavoro?

Le collaborazioni lecite debbono rispondere ai seguenti requisiti:

  • Il collaboratore esterno deve identificarsi in un esperto di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria e l’incarico deve essere in linea con la specializzazione del soggetto e corrispondere o servire all’oggetto delle competenze istituzionali dell’amministrazione;
  • L’amministrazione deve quindi aver preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare per lo scopo propri dipendenti;
  • La prestazione deve essere di natura temporanea;
  • Devono essere preventivamente determinati la durata l’oggetto ed i compensi.

Si fa presente che si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria per le prestazioni da effettuarsi da professionisti iscritti ad ordini o albi e per soggetti che operino nel campo dell’arte e dello spettacolo, per mestieri artigianali, per l’attività informatica  e per i servizi di orientamento e collocamento.

Ciò in concreto significa che ogni affidamento di incarico professionale nelle amministrazioni pubbliche andrà preceduto da uno delibera che evidenzi il sussistere di tutti i requisiti di liceità dell’affidamento.

Nella successiva lezione, evidenzieremo specificamente il ricorrere di tutte le condizioni di ammissibilità cui ora abbiamo fatto cenno.

  1. Il Codice degli Appalti

 Nel 2016 è entrato in vigore il D. Lgs. n. 50/2016, c.d. Codice degli Appalti o dei contratti pubblici, che disciplina i contratti di appalto e di concessione delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori aventi ad oggetto l’acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere, nonché i concorsi pubblici di progettazione.

Quivi, l’art. 17 precisa a quali appalti e concessioni di servizi non si applicano le disposizioni del Codice agli appalti ed alle concessioni di servizi, ovvero quelli:

“a) aventi ad oggetto l’acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni;

  1. b) aventi ad oggetto l’acquisto, lo sviluppo, la produzione o coproduzione di programmi destinati ai servizi di media audiovisivi o radiofonici che sono aggiudicati da fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici, ovvero gli appalti, anche nei settori speciali, e le concessioni concernenti il tempo di trasmissione o la fornitura di programmi aggiudicati ai fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici. Ai fini della presente disposizione il termine «materiale associato ai programmi» ha lo stesso significato di «programma»;
  2. c) concernenti i servizi d’arbitrato e di conciliazione;
  3. d) concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi legali:

1) rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, e successive modificazioni:

1.1) in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato membro dell’Unione europea, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o conciliativa internazionale;

1.2) in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro dell’Unione europea o un Paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali;

2) consulenza legale fornita in preparazione di uno dei procedimenti di cui al punto 1), o qualora vi sia un indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento, sempre che la consulenza sia fornita da un avvocato ai sensi dell’articolo 1 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, e successive modificazioni;

3) servizi di certificazione e autenticazione di documenti che devono essere prestati da notai;

4) servizi legali prestati da fiduciari o tutori designati o altri servizi legali i cui fornitori sono designati da un organo giurisdizionale dello Stato o sono designati per legge per svolgere specifici compiti sotto la vigilanza di detti organi giurisdizionali;

5) altri servizi legali che sono connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri;

  1. e) concernenti servizi finanziari relativi all’emissione, all’acquisto, alla vendita e al trasferimento di titoli o di altri strumenti finanziari ai sensi del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, servizi forniti da banche centrali e operazioni concluse con il Fondo europeo di stabilità finanziaria e il meccanismo europeo di stabilità;
  2. f) concernenti i prestiti, a prescindere dal fatto che siano correlati all’emissione, alla vendita, all’acquisto o al trasferimento di titoli o di altri strumenti finanziari;
  3. g) concernenti i contratti di lavoro;
  4. h) concernenti servizi di difesa civile, di protezione civile e di prevenzione contro i pericoli forniti da organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro identificati con i codici CPV 75250000-3, 75251000-0, 75251100-1, 75251110- 4, 75251120-7, 75252000-7, 75222000-8; 98113100-9 e 85143000-3 ad eccezione dei servizi di trasporto dei pazienti in ambulanza;
  5. i) concernenti i servizi di trasporto pubblico di passeggeri per ferrovia o metropolitana;
  6. l) concernenti servizi connessi a campagne politiche, identificati con i codici CPV 79341400-0, 92111230-3 e 92111240-6, se aggiudicati da un partito politico nel contesto di una campagna elettorale per gli appalti relativi ai settori ordinari e alle concessioni”.

Con specifico riferimento al settore dei servizi legali, sono state approvate dall’ANAC (Autorità Nazionale Anti Corruzione) le Linee Guida n. 12, con delibera n. 907 del 24/10/2018.

Quando l’affidamento di servizi legali deve essere trattato come appalto?

Nelle citate Linee Guida viene precisato che l’affidamento dei servizi legali costituisce appalto qualora la stazione appaltante affidi la gestione del contenzioso in modo continuativo o periodico al fornitore nell’unità di tempo considerata (di regola il triennio); il singolo incarico conferito ad hoc costituisce invece un contratto d’opera professionale, consistendo nella trattazione della singola controversia o questione, ed è sottoposto al regime di cui all’articolo 17 del D. Lgs. n. 50/2016 (contratti esclusi dall’applicazione del Codice degli Appalti).

Con riferimento ai contratti esclusi dall’applicazione delle disposizioni previste dal Codice degli Appalti, l’art. 4 del D. Lgs. n. 50/2016 precisa che l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture debba in ogni caso avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità e tutela dell’ambiente ed efficienza energetica.

La differenza tra appalto di servizi e contratto d’opera

Resta intesa, come rilevante la differenziazione tra appalto di servizi e contratto d’opera.

La Corte dei Conti Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia con deliberazione n.178 del 15 maggio 2014 in un parere reso ad un Comune della Provincia di Milano, delimita il confine tra la fattispecie dell’appalto di servizi e l’affidamento di un incarico professionale – contratto d’opera.

La Corte dei Conti, richiamando anche la sentenza n.2730/2012 del Consiglio di Stato ritiene che l’elemento qualificante dell’appalto di servizi sia dato dal fatto che l’affidatario di un appalto di servizi necessiti per l’espletamento dello stesso, di apprestare una specifica organizzazione finalizzata a soddisfare i bisogni dell’ente.

Conclude la Corte dei Conti che il codice dei contratti pubblici adotti una nozione più ampia di appalto di servizi, ma solo al fine di individuare l’applicabilità della disciplina di affidamento.

Rimane ferma però, a detta della Corte dei Conti, la nozione di appalto di servizi  così come delineata dal codice civile, che presuppone che la prestazione oggetto dell’obbligazione sia caratterizzata dalla sussistenza di una specifica organizzazione che possa garantire l’adempimento di una prestazione caratterizzata dalla complessità dell’oggetto e dalla predeterminazione della durata”.

In ogni caso, a prescindere da tali differenze la stipula di un contratto d’opera da parte della pubblica amministrazione, va preceduta dai seguenti requisiti:

  • l’affidamento dell’incarico deve essere preceduto da un accertamento reale sull’assenza di servizi o di professionalità, interne all’ente, in grado di adempiere l’incarico;
  • Va espletata una procedura di selezione comparativa, adeguatamente pubblicizzata, finalizzata ad assicurare alla P.A. la migliore offerta da un punto di vista qualitativo e quantitativo;
  • Deve essere acquisito il parere obbligatorio del Collegio dei revisori dell’ente ai sensi dell’art. 1, comma 42 della L. n. 311/2004;
  • Vanno  rispettati gli obblighi di comunicazione e pubblicità: il conferimento dell’incarico va comunicato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica ai sensi dell’articolo 53, comma 14, secondo periodo, del d.lgs. 165/2001 e ne deve essere curata la pubblicazione sul sito web ai sensi dall’art. 15, comma 2 del d.lgs. 33/2013.
  1. Le ultime novità dal punto di vista giurisprudenziale

La Corte dei Conti Sezione Campania, con la sentenza n.88/2018, ha ritenuto che l’Amministrazione, pur seguendo le procedure in materia di appalti, nel caso di specie avesse in realtà conferito un incarico individuale ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs. n. 165/2001.

Nello specifico, un tanto era affermato in quanto risultava evidente che nella fattispecie oggetto d’esame fosse prevalente il “carattere personale o intellettuale della prestazione” nella persona del professionista di riferimento, anziché quello imprenditoriale in cui assume rilievo, assieme al requisito della gestione a proprio rischio, la qualità di imprenditore commerciale (art. 2195 cod. civ.), ovvero l’organizzazione dei mezzi necessari.

Ne conseguiva che la dichiarazione ai fini fiscali di aver fornito “servizi di impresa” risultava del tutto irrilevante rispetto alla fattispecie lavorativa prestata e alle sue caratteristiche oggettive che doveva invece essere qualificata come affidamento di incarico di un contratto d’opera intellettuale (artt. 2222 e 2229 c.c.). Invero, anche la necessità di utilizzare, da parte di un professionista, mezzi compresi tra gli ordinari strumenti cognitivi ed operativi a disposizione di qualunque lavoratore del settore, non può essere sufficiente a far ritenere che il contratto debba essere inquadrato nell’appalto di servizi.

Quindi, la Corte dei Conti confermava che la fattispecie in esame rientrasse nell’ipotesi dei c.d. “servizi esclusi” del codice dei contratti pubblici, trovando applicazione in ogni caso i principi dettati dall’art. 4 del D. Lgs. n. 50/2016.

Quanto invece alla distinzione tra incarico legale ed appalto di servizi legali, già la Sentenza del Consiglio di Stato n. 2730/2012 aveva delineato che l’appalto costituisce qualcosa in più rispetto ad un singolo incarico di patrocinio legale: l’appalto è configurabile quando il servizio legale viene prestato per un determinato arco temporale ed in ragione di un predeterminato corrispettivo.

Ciò appare peraltro confermato dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 6 giugno 2019 (C264/2018). La Corte di Giustizia ha infatti ribadito che gli incarichi legali sono esclusi dalla normativa generale sugli appalti in quanto diversi da ogni altro contratto, perché le relative prestazioni possono essere rese solo in ragione di un ambito fiduciario tra l’avvocato ed il cliente, peraltro caratterizzato dalla massima riservatezza.

In ogni caso, ciascuna amministrazione ben può organizzare, se lo ritiene opportuno, una apposita procedura selettiva tesa a comparare tra loro più professionisti per individuare lo specifico professionista da incaricare.

In merito, anche con riferimento ai principi generali del codice dei contratti pubblici, l’ANAC ha suggerito – senza obbligo alcuno di conformazione – alle amministrazioni di predisporre degli “elenchi” di avvocati ai quali eventualmente attingere per affidare eventuali incarichi.

Ancora, la Corte dei Conti, sezione d’Appello, con sentenza n. 155/2019, ha riformato la sentenza di condanna in primo grado per alcuni dirigenti di un Ente per aver dato luogo a rapporti di collaborazione esterna con alcuni professionisti senza aver svolto un effettivo e concreto accertamento sul personale interno da eventualmente utilizzare per rendere il servizio oggetto di incarico esterno.

Le motivazioni degli appellanti sono state accolte in quanto è stato ritenuto che i dirigenti fossero esenti da responsabilità per mancanza della colpa grave, in considerazione non solo delle gravi carenze degli organici, ma soprattutto della tempestiva attivazione di concorsi pubblici per la dotazione delle professionalità richieste per l’Ente.

Da ultimo, risulta opportuno ricordare anche la recente sentenza n. 11410/2019 del TAR Lazio, relativa alla legittimità di un avviso pubblico del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che intendeva ricercare un supporto tecnico ad elevato contenuto specialistico di professionalità altamente qualificate per svolgere consulenze a titolo gratuito.

Il TAR ha valutato che, date le caratteristiche indicate dall’avviso – che riguardava una consulenza eventuale ed occasionale nell’arco temporale di due anni – la consulenza non poteva essere qualificata come contratto di lavoro autonomo, ex art. 7, commi 6 e 6 bis, del D. Lgs n. 165/2001 e che non si trattava neppure di servizio il cui affidamento sarebbe stato sottoposto alla disciplina del Codice degli Appalti, considerata l’assenza della previsione del numero ben definito di incarichi da conferire, dell’individuazione puntuale dell’oggetto e della consistenza di ciascun incarico, nonché di una selezione per l’aggiudicazione.

Per tali ragioni, il carattere gratuito della consulenza è stato ritenuto legittimo, in quanto nel nostro ordinamento non si rinviene alcun divieto in tal senso.

Da ultimo, la legge delega 21.6.2022 n.78 in tema di contratti pubblici , esclude la gratuità degli stessi salvo motivate eccezioni.

Fabio Petracci

CASSAZIONE – Impugnazione dei contratti a termine in sequela.

Articolo 32 legge n.183/2010

Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., 23/09/2022, n. 27970

In tema di successione di contratti di lavoro a termine in somministrazione, l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa, poichè l’inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro (il quale potrà determinarsi solo ex post, a seguito dell’eventuale accertamento della illegittimità del termine apposto) comporta la necessaria conseguenza che a ciascuno dei predetti contratti si applichino le regole inerenti la loro impugnabilità” (Cass. n. 30134 del 2018Cass. n. 32702 del 2018Cass. n. 24356 del 2019Cass. n. 5037 del 2020; da ultimo, Cass. n. 11001 del 2021);

 

CASSAZIONE – Avvocato non iscritto alla Cassa Forense deve pagare la contribuzione alla Gestione Separata INPS.

Mancata compilazione denuncia parametri per contribuzione – non è occultamento doloso del debito – prescrizione decorrenza.

Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., 03/11/2022, n. 32424.

L’oggetto della controversia.

La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l’opposizione proposta da A.A., nel contraddittorio dell’I.N.P.S. e dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, avverso l’avviso di addebito con il quale era stato preteso dalla predetta il pagamento della contribuzione dovuta alla gestione separata, quale avvocato, per l’anno 2009.

Inoltre , la Corte territoriale riteneva sussistente il debito contributivo ed infondata l’eccezione di prescrizione, in quanto nel presentare la dichiarazione dei redditi la ricorrente aveva omesso di compilare il quadro riguardante i parametri rilevanti rispetto alla sua denuncia (c.d. quadro RR) e ciò comportava la sospensione del termine prescrizionale per occultamento doloso del debito.

Sintesi della decisione.

La Corte di Cassazione con la sentenza di cui in epigrafe ha ritenuto sussistere il debito previdenziale ritenendo che, gli avvocati iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie che, svolgendo attività libero professionale priva del carattere dell’abitualità, non hanno – secondo la disciplina vigente “ratione temporis“, antecedente l’introduzione dell’automatismo della iscrizione – l’obbligo di iscrizione alla Cassa Forense, sono tenuti comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS, in virtù del principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale la disposizione di cui alla L. n. 335 del 1995art. 2, comma 26, secondo cui l’unico versamento contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione previdenziale.

Precisa la Corte che “l’obbligo di iscrizione alla gestione separata è genericamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante dall’esercizio abituale (anche se non esclusivo) ma anche occasionale – in questo caso se siano superati i limiti di cui al D.L. n. 269 del 2003art. 44, comma 2, n.d.r. – di un’attività professionale per la quale è prevista l’iscrizione ad un albo”, se il corrispondente reddito non sia già oggetto di obbligo assicurativo presso la cassa di riferimento.

In merito alla mancata decorrenza della prescrizione a seguito del doloso occultamento del debito.

Precisa la Corte che, se è pur vero che la giurisprudenza di legittimità,  ha ritenuto che l’apprezzamento in ordine alla possibilità di ricondurre la mancata compilazione del quadro RR ad una fattispecie di doloso occultamento del debito non è avvenuto ad opera del giudice del merito.

Precisa la Corte che il dolo che impedisce il decorso della prescrizione non consiste nella sola intenzionalità di non dichiarare una situazione rilevante a fini contributivi, ma deve altresì essere tale da impedire al creditore di esercitare il proprio diritto, profilo che la Corte territoriale non ha in alcun modo indagato e che, tenuto conti dei poteri ispettivi degli enti previdenziali e dei profili di evidenza esterna, anche formale (iscrizione all’albo etc.) della professione forense, non possono certamente essere presunti.

CASSAZIONE Rapporto di lavoro extraistituzionale di dipendente part.time.

Corte di Cassazione 18 luglio 2022 n.22497.

Il DPR n.3 del 1957 all’articolo 60 stabiliva il principio dell’esclusività della prestazione lavorativa, stabilendo che L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, nè alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.

La ratio di tale divieto risiede nell’articolo 97 della Costituzione che vuole l’imparzialità della Pubblica Amministrazione e più specificamente dell’articolo 98 Costituzione che segue e stabilisce che i pubblici dipendenti sono al servizio esclusivo della nazione.

Di seguito il rapporto di pubblico impiego era sempre meno ispirato da principi autoritativi ed il rapporto di lavoro iniziava a collocarsi su di un piano contrattuale.

Quindi, il principio di esclusività era mitigato con il DLGS 165/2001 e già in precedenza con il DLGS n.29/2003 che consentivano al pubblico dipendente previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza di svolgere incarichi conferiti da altre amministrazioni o soggetti privati anche retribuiti, purchè non incompatibili.

In precedenza con l’entrata in vigore della legge 662/1996 l’articolo 1 ai commi 57 e 62 consentiva ai dipendenti pubblici, tranne il personale militare le Forze di Polizia ed i vigili de fuoco, di instaurare rapporti di lavoro a tempo parziale.

L’instaurazione del rapporto di lavoro a tempo parziale consente poi al dipendente pubblico l’instaurazione di un secondo rapporto di lavoro che l’amministrazione non ritenga incompatibile.

Stabilisce la norma appena citata che il secondo rapporto di lavoro non può intercorrere con altra amministrazione.

E’ previsto inoltre che i dipendenti degli enti locali possano svolgere prestazioni per conto di altri enti, previa autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza.

La sanzione è rappresentata dal comma 61 dell’articolo 1 che stabilisce come la violazione del divieto di cui al comma 60 e la mancata comunicazione di cui al comma 58 determinano la risoluzione del rapporto per giusta causa.

Nel caso di specie, però, ritiene la Corte di Cassazione, come l’articolo 53 comma 1 del DLGS non trovi applicazione all’articolo 1, comma 56 della legge 662/1996 che esclude l’applicazione della normativa concernente l’autorizzazione al secondo lavoro ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno”.

Ne deriva, secondo la pronuncia in esame della Corte di Cassazione che il regime dei “dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno” non è interessato dalla regolamentazione introdotta dal D.Lgs. n. 165 del 2001art. 53, comma 1, e, quindi, dal richiamo ivi contenuto alla L. 23 dicembre 1996, n. 662art. 1, commi 57 e ss.” (con l’unica eccezione di quanto stabilito dal comma 58-bis, su cui si tornerà in seguito).

Non a caso, ritiene la Cassazione, il DLGS. n. 165 del 2001art. 53, comma 6, stabilisce, per quel che qui interessa, che “I commi da 7 a 13 del predetto articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, compresi quelli di cui all’art. 3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.

Fabio Petracci.

 

 

CASSAZIONE – Esposizione Amianto – La prescrizione decorre dalla data della maturata consapevolezza dell’esposizione.

Corte di Cassazione ordinanza n.28465 del 30.9.2022.

Articolo 2935 Codice Civile.

La Corte di Cassazione Sezione Lavoro di cui in epigrafe ha ritenuto in linea con il precedente orientamento (Cassazione 2856/2017) in tema di rivalutazione contributiva per l’esposizione all’amianto come il diritto sia soggetto a prescrizione decennale sia un diritto autonomo rispetto al diritto alla pensione e che, come tale, il termine di prescrizione decorra dal momento in cui il lavoratore abbia avuto cognizione della sua esposizione all’amianto.

CASSAZIONE – Medici di base – Illegittime le misure unilaterali di contenimento dei compensi contrattati.

Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., 30/09/2022, n. 28526

Sintesi della controversia.

La Corte d’appello di L’Aquila, adita dall’Azienda Sanitaria Locale Avezzano Sulmona l’Aquila e nel contraddittorio con A.A., medico di medicina generale operante in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto l’opposizione della ASL avverso il decreto monitorio con il quale le era stato ingiunto il pagamento nella misura intera dei corrispettivi previsti dall’Accordo Integrativo Regionale per la medicina generale approvato con Delib. Giunta Regionale 9 agosto 2006, n. 916, in relazione alle voci “Nuclei di Cure Primarie – in rete; Nuclei di Cure Primarie – in gruppo; Personale addetto al NCP di gruppo; Assistenza Domiciliare Integrata”, il cui importo unitario mensile per assistito era stato ridotto unilateralmente dall’ASL a fronte di prestazioni rimaste invariate;

la Corte territoriale ha rilevato, in sintesi, che le esigenze di contenimento della spesa sanitaria, pur legittime, non autorizzavano la modifica unilaterale degli impegni assunti in sede di contrattazione collettiva, tanto più che l’intervento unilaterale aveva riguardato il solo corrispettivo mentre era rimasta immutata, quanto ad impegno qualitativo e quantitativo, la prestazione richiesta al medico convenzionato;

ha precisato che la Delib. G.R. Abruzzo n. 592 del 2008, nel fissare alle ASL i tetti di spesa, aveva dettato le linee guida alle quali le aziende avrebbero dovuto attenersi specificando che la riduzione doveva essere attuata attraverso la riapertura dei tavoli di concertazione e ciò in attuazione di un principio generale quale è quello della vincolatività dei contratti collettivi;

Anche il decreto del Commissario ad acta n. 27 del 2011 aveva escluso che le ASL potessero unilateralmente modificare i contenuti normativi ed economici degli MR, tanto più che occorreva evitare che si producessero di Spa rità di trattamento in ambito regionale per le medesime prestazioni ed indennità.

Sintesi dei motivi di ricorso.

L’ASL ricorrente sostiene che le delibere del D.G. dell’ASL e quelle del Commissario ad acta hanno natura autoritativa ed inderogabile e sono state adottate sulla base delle disposizioni richiamate in rubrica che hanno imposto alle Regioni di perseguire l’obiettivo del contenimento della complessiva spesa sanitaria e dell’equilibrio economico nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza;

Cosa ha detto la Cassazione?

il ricorso è infondato perchè la sentenza impugnata ha deciso la controversia in conformità ai principi di diritto recentemente enunciati da Cass. n. 11566/2021, Cass. n. 19327/2021, Cass. n. 22440/2021, Cass. n. 27782/2021 e da altre pronunce conformi, che hanno respinto analoghi ricorsi proposti dalle Aziende Sanitarie della Regione Abruzzo avverso le pronunce della Corte d’Appello di L’Aquila con le quali, sulla base delle medesime argomentazioni espresse nella pronuncia qui impugnata, era stata ritenuta illegittima la riduzione unilaterale dei compensi previsti dalla contrattazione, nazionale e integrativa regionale, seppure finalizzata al rispetto dei tetti di spesa imposti dal Piano di rientro;

con le richiamate pronunce, si è affermato che:

a) il rapporto convenzionale con il Servizio Sanitario Nazionale dei pediatri di libera scelta e dei medici di medicina generale è disciplinato, quanto agli aspetti economici, dagli accordi collettivi nazionali e integrativi ai quali devono conformarsi, a pena di nullità, i contratti individuali;

b) la disciplina dettata dalla  n. 833 del 1978art. 48e dal D.Lgs. n. 502 del 1992art. 8, non è derogata da quella speciale prevista per il rientro da eccessivi disavanzi del sistema sanitario e pertanto le esigenze di riduzione della spesa non legittimano la singola azienda sanitaria a ridurre unilateralmente i compensi previsti dalla contrattazione nazionale e da quella integrativa regionale;

c) le richiamate esigenze, sopravvenute alla valutazione di compatibilità finanziaria dei costi della contrattazione, devono essere fatte valere nel rispetto delle procedure di negoziazione collettiva e degli ambiti di competenza dei diversi livelli di contrattazione;

d) l’atto unilaterale di riduzione del compenso non ha natura autoritativa perchè il rapporto convenzionale si svolge su un piano di parità ed i comportamenti delle parti vanno valutati secondo i principi propri che regolano l’esercizio dell’autonomia privata;

CASSAZIONE – Qualificazione di rapporto di lavoro subordinato

Cooperativa – subordinazione – valgono gli ordinari indirizzi giurisprudenziali che reputano preminente il concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro a prescindere dalla qualifica attribuita dalle parti al rapporto.

  1. n. 142 del 2001art. 1, comma 3,

Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 26/10/2022, n. 31683

Ai fini dell’accertamento della subordinazione, nell’ambito del lavoro in una cooperativa,  la Cassazione con una recente sentenza, reputa imprescindibile e d’importanza preminente l’indagine sull’effettivo atteggiarsi del rapporto. Ritiene come tale indagine non possa arrestarsi al nomen iuris attribuito dalle parti (Cass., sez. lav., 1 marzo 2018, n. 4884).

Considera la Suprema Corte che anche al legislatore è precluso il potere di qualificare un rapporto di lavoro in termini dissonanti rispetto alla sua effettiva natura e di sottrarlo così allo statuto protettivo che alla subordinazione s’accompagna (Corte Cost., sentenze n. 76 del 2015n. 115 del 1994 e n. 121 del 1993). Ne deriva, secondo la Cassazione, quale conseguenza ineludibile, “l’indisponibilità del tipo negoziale sia da parte del legislatore, sia da parte dei contraenti individuali” (sentenza n. 76 del 2015, cit., punto 8 del Considerato in diritto).

In tale àmbito, difatti, ritiene la sentenza in esame, come sia canone primario d’interpretazione il “comportamento complessivo” delle parti, “anche posteriore alla conclusione del contratto” (art. 1362 c.c., comma 2), che illumina il significato delle pattuizioni consacrate nel testo negoziale e consente di saggiarne la coerenza con la successiva attuazione del rapporto.

Ritiene la Suprema Corte come la qualificazione convenzionale d’un rapporto di lavoro come autonomo, pur non potendo essere pretermessa, non abbia di per sè valenza dirimente e non dispensi comunque il giudice dal compito di verificare quelle concrete modalità attuative del rapporto in esame, che rappresentano il tratto distintivo saliente.

Ha inoltre aggiunto la Corte come il fatto che il rapporto di lavoro si affianchi al rapporto associativo, a sua volta contraddistinto dalla partecipazione al rischio d’impresa, non escluda che, all’interno dell’organizzazione societaria, si possa rinvenire, insieme al contratto di partecipazione alla comunità, quello commutativo di lavoro subordinato (Cass., S.U., 26 luglio 2004, n. 13967, punto 4). Possibilità, aggiunge la Corte, espressa a chiare lettere dalla L. n. 142 del 2001art. 1, comma 3, nella parte in cui consente al socio di stabilire con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, anche in forma subordinata.

CASSAZIONE: La prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti i rapporti non dotati di stabilità reale.

Un’importante sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro 6.9.2022 n.26246 in riforma a sentenza della Corte d’Appello di Brescia ha statuito come dopo le riforme che hanno reso solo eventuale il reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente anche nelle aziende che superano le dimensioni previste dall’articolo 18 legge 300/70, abbiano comportato l’estensione a queste ultime del regime di decorrenza della prescrizione dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ai crediti retributivi di lavoro si applica la prescrizione quinquennale siccome disposto dagli articoli 2948 n.4, 2955 n.2, 2956 n.1, del codice civile.

Nel 1966, la Corte Costituzionale (Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63),  dichiarava l’illegittimità di questi articoli nella parte in cui prevedevano il decorrere della prescrizione in costanza del rapporto di lavoro.

La Corte anche tenendo in considerazione il principio di irrinunciabilità della retribuzione in forza dell’articolo 36 della Costituzione e del fondato dubbio che il lavoratore fosse spinto a non agire contro il proprio datore di lavoro neppure inviando una lettera per l’interruzione della prescrizione, ebbe a ritenere la permanenza del rapporto di lavoro come ragione ostativa al decorrere della prescrizione.

Allorquando entrò in vigore lo statuto dei lavoratori, legge 300/70 che all’articolo 18 garantiva la reintegra nel caso di licenziamento illegittimo nelle aziende di maggiori dimensioni, venne in parte meno questa ragione.

In tal modo, la permanenza del rapporto permaneva come ragione ostativa al decorrere della prescrizione soltanto per i rapporti che l’articolo 18 della legge 300/70 escludeva dalla reintegra nel caso di licenziamento illegittimo. (Corte Costituzionale n. 174/1972).

Con l’entrata in vigore della legge n.92/2012 (legge Fornero) e del DLGS 23/2015 (Jobs Act) la stabilità reale del rapporto di lavoro con la conseguente reintegra in caso di licenziamento illegittimo divenne l’eccezione e non la regola.

Tornavano quindi attuali i dubbi sollevati dalla Corte Costituzionale nel 1966 che i lavoratori in assenza di una tutela reale, potessero essere indotti a non interrompere la prescrizione.

La sentenza oggi in esame ritiene come la mutata situazione renda attuale la situazione paventata a suo tempo dalla Corte Costituzionale e ritiene quindi che la prescrizione dei crediti di lavoro debba sempre decorrere dalla cessazione del rapporto.

Resta fermo come nei rapporti dotati di stabilità reale, come nel caso del pubblico impiego, la prescrizione continui a decorrere anche in costanza di rapporto.

Di seguito, la motivazione della cennata decisione della Corte di Cassazione:

 

Motivi della decisione

  1. Con unico motivo, le ricorrenti deducono violazione degli artt. 29352948c.c., n. 4 L. n. 300 del 1970art. 18art. 36 Cost., per avere la Corte territoriale errato, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenze n. 62 del 1966, n. 143 del 1969, n. 174 del 1972) e della giurisprudenza di legittimità, nel ritenere, anche dopo la novellazione del L. n. 300 del 1970 art. 18, con le riforme della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, la vigenza del regime di stabilità del rapporto di lavoro: tale essendo un rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo. Esse stimano pertanto irrilevante, a tal fine, il diritto alla reintegrazione, nelle ipotesi di nullità o di inefficacia del licenziamento, in quanto previste anche nell’area di applicabilità della L. n. 604 del 1966 (di tutela obbligatoria), incontestabilmente riconosciuta come non assistita da un regime di stabilità.

In via subordinata, le lavoratrici prospettano una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2935 e 2948, n. 4 c.c., con riferimento all’art. 36 Cost., qualora interpretati nel senso dell’integrazione di un regime di stabilità del rapporto di lavoro, idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, assistito da un dispositivo sanzionatorio che preveda la tutela reintegratoria per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo e, più in generale, così come realizzato dalle modifiche apportate al L. n. 300 del 1970 art. 18, dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42 e dagli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 23 e 4.

  1. Esso è fondato.
  2. La questione devoluta, per la prima volta, a questa Corte è scolpita nella formulazione, in via subordinata, del quesito relativo al dubbio di incostituzionalità, in ordine alla permanenza (tuttora) della garanzia, nel rapporto di lavoro degli occupati in imprese aventi i requisiti dimensionali stabiliti dal L. n. 300 del 1970art. 18, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1comma 42 della L. n. 92 del 2012 e dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, di quel regime di stabilità in presenza del quale l’art. 2948, n. 4 c.c., cosi come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 1966 e delle successive (in particolare: Corte Cost. n. 143 del 1969n. 86 del 1971 e n. 174 del 1972), consenta il decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro.

Ed è questione che, senza accedere alla Corte costituzionale, ben può essere affrontata e risolta in continuità sostanziale con l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il cd. “diritto vivente”), nella responsabile consapevolezza dell’indubbio e significativo cambiamento operato dalle riforme intervenute sul sistema introdotto dalla L. n. 300 del 1970, cui non si può semplicemente replicare con argomenti che non tengano di ciò conto.

Se quella suindicata è la questione in esame, il suo focus è costituito dalla individuazione del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4 c.c., in relazione all’art. 2935 c.c. (momento dal quale il diritto possa essere fatto valere), per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di (“adeguata”) stabilità o meno del rapporto di lavoro.

  1. Ebbene, l’art. 2948, n. 4 c.c. deve essere letto (così come gli artt. 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c.) nella sua accezione costituzionalmente legittima, in esito ai noti interventi evolutivi della Corte costituzionale:
  2. a) dapprima, di illegittimità costituzionale, in riferimento all’ 36Cost., limitatamente alla parte che consente la decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione durante il rapporto di lavoro (Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63), sulla base dell’esistenza di “ostacoli materiali”, individuati nel”la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto… per timore del licenziamento; cosicchè la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione” (sub p.to 3 del Considerato in diritto);
  3. b) successivamente, di delimitazione del perimetro della suddetta pronuncia, nel senso di non estensibilità ai rapporti di pubblico impiego (sia con lo Stato, sia con altri enti pubblici), per avere questi una particolare forza di resistenza, data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali avverso la sua illegittima risoluzione, tali da escludere che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti (Corte Cost. 20 novembre 1969, n. 143, Considerato in diritto, p.to 1);
  4. c) quindi, in coerente sviluppo interpretativo del principio (di stabilità del rapporto) affermato da quest’ultima sentenza, fatto allora “valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo”, di “applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i rapporti medesimi”: e pertanto, verificandosi una siffatta analogia, a quei rapporti di lavoro, ai quali siano applicabili le leggi n. 604 del 15 luglio 1966,  n. 300 del 20 maggio 1970, “di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare” (Corte Cost. 12 dicembre 1972, n. 174, Considerato in diritto, p.to 3).

4.1. Nel solco dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale, si è posta anche questa Corte di legittimità, che, con un noto arresto nella sua più autorevole composizione, ha ben chiarito la distinzione del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro. Essa ha così enunciato il principio, poi costantemente seguito, di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità: dovendosi ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi coincide(va) attualmente con l’ambito di operatività della L. n. 300 del 20 maggio 1970, (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dal L. n. 604 del 15 luglio 1966art. 8), può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d’opera una tutela di pari intensità (Cass. s.u. 12 aprile 1976, n. 1268).

  1. Appare evidente che la stabilità del rapporto di lavoro si fondi su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Al tempo stesso, come essa si saldi con la decorrenza della prescrizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2935 e (in particolare) 2948, n. 4 c.c. (nella sua lettura costituzionalmente legittima), nel corso del rapporto, mano a mano che maturino i diritti che il lavoratore possa far valere; essa decorrendo invece dalla sua cessazione, qualora non vi sia stabilità del rapporto.

5.1. E’ risaputo che la prescrizione, in quanto modalità generale di estinzione (per non esercizio per un tempo determinato dalla legge) dei diritti, sia istituto che invera il principio di certezza del diritto, in riferimento particolare alla sua decorrenza, ossia al momento in cui il diritto medesimo possa essere fatto valere. Giova qui sottolinearne la fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica di un Paese, quale principio di affidabilità per tutti: sull’effettività dei diritti e sulla loro tutela, sulle relazioni familiari e sociali, sulle transazioni economiche e finanziarie. E come esso si rifletta sulla stessa attrattività di uno Stato, per investimenti e iniziative di intrapresa economica in senso lato, in un sistema di relazioni e di scambi internazionali da tempo strettamente interconnesso, nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese.

Se questo è allora il tema, occorre che sia garantita una conoscenza, in termini di generalità e di sicura predeterminazione, di quali siano le regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.

Pertanto, dovendo ora tali regole essere conformate ad una disciplina dei rapporti di lavoro (instaurati con datori in possesso dei requisiti dimensionali prescritti dal L. n. 300 del 1970 art. 18, comma ottavo e 9, nel testo novellato dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42, lett. b) e pure richiamato dall’art. 1, comma 3 D.Lgs. n. 23/2015) più flessibilmente modulata in ordine alle tutele previste, a seconda delle vari ipotesi di licenziamento (queste pure suscettibili di una diversa qualificazione, rispetto alla domanda, in sede giurisdizionale), il criterio di individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve soddisfare un’esigenza di conoscibilità chiara predeterminata e di semplice identificazione.

Ciò presuppone che, fin dall’instaurazione del rapporto, ognuna delle parti sappia quali siano i diritti e soprattutto, per quanto qui rileva, quando e “fino a quando” possano essere esercitati: nel rispetto e nell’interesse del lavoratore, destinatario della previsione in quanto soggetto titolare dei diritti; ma parimenti del datore di lavoro, che pure deve conoscere quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti, per programmare una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d’impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino.

In realtà, si tratta di interessi (sia pure espressione di posizioni soggettive diversamente collocate nell’organizzazione dell’impresa, rette da un rapporto di subordinazione e tuttavia non antagoniste) largamente convergenti, in una prospettiva più ampia, che sempre andrebbe considerata nell’interpretazione e nella prassi operativa: perchè i rapporti di lavoro sono intimamente implicati nella vita dell’impresa, di cui costituiscono componente intrinseca costituendo essi stessi impresa. E si tratta di un’implicazione tale da modularne la disciplina, siccome decisivamente condizionata dal dato obiettivo dell’andamento dell’impresa medesima, in una sorta di comunione di destino.

Al riguardo, merita avere chiara la distinzione tra il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dalla Repubblica, la quale ne promuove (secondo un’evidente declinazione non già descrittiva, ma imperativa del verbo) le condizioni che lo rendano effettivo (art. 4, comma 1 Cost.), dal diritto al posto di lavoro, invece oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa. Essa si constata con la massima evidenza nelle situazioni di crisi, nelle quali i due diritti si misurano in una naturale frizione, dovendo quasi sempre la tutela del posto di lavoro cedere a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell’occupazione possibile con la condizione di crisi data.

Ebbene, da tempo la Corte costituzionale ha letto in questa prospettiva l’art. 4, comma 1 Cost.:

ossia, nel senso che il diritto al lavoro riconosciuto ad ogni cittadino (pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione nè, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto) debba essere considerato un diritto fondamentale di libertà, che lo Stato necessariamente riscontri con l’obbligo di indirizzo dell’attività dei pubblici poteri alla creazione di condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, onde l’esigenza che il legislatore, per quanto di sua competenza, introduca garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4). E questo insegnamento, secondo cui, non essendo il diritto al lavoro assistito dalla garanzia di stabilità dell’occupazione, spetta al legislatore, “nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale”, adeguare le tutele in caso di licenziamenti illegittimi, mantiene tutta la sua attualità nella sua recente ripresa da parte della stessa Corte costituzionale (sentenza 22 luglio 2022, n. 183, Considerato in diritto, p.to 4.2.).

  1. Ora, perchè del regime di stabilità o meno del rapporto lavorativo, ai fini di immediata e semplice individuazione del termine di decorrenza della prescrizione (in costanza di rapporto, nel primo caso; ovvero soltanto dalla sua cessazione, nel secondo), si abbia una chiara conoscibilità, in via di generale predeterminazione, occorre che esso risulti:
  2. a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato (in caso di successione di due o più contratti di lavoro a termine legittimi, per la decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi previsto dagli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c. dal giorno della loro insorgenza, nel corso del rapporto lavorativo e alla cessazione del rapporto, per quelli che maturino da tale momento, in ragione dell’autonoma e distinta considerazione dei crediti originati da ogni contratto, senza alcuna sospensione della prescrizione negli intervalli di tempo tra l’uno e l’altro, per la tassatività delle cause sospensive previste dagli  29412942c.c.; non sussistendo in tali casi il metus del lavoratore verso il datore, siccome presupposto da un rapporto a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità: Cass. s.u. 16 gennaio 2003, n. 575Cass. 5 agosto 2019, n. 20918Cass. 19 novembre 2021, n. 35676);
  3. b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all’esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post ( s.u. 28 marzo 2012, n. 4942Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774).

Infatti, l’individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, ai fini qui d’interesse, in base alla qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post, contraddice radicalmente quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex ante, coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, per l’affidamento di una tale selezione, delicata e fondamentale, al pernicioso criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale, fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema.

  1. A questo punto, occorre allora verificare quale sia il regime attuale di stabilità del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, oggetto dell’odierna controversia, una volta che si dia atto del superamento, per effetto delle significative riforme sopravvenute, della esclusività della tutela reintegratoria dell’originario testo del L. n. 300 del 1970art. 18, che detta stabilità ha garantito con la rimozione degli effetti di un’illegittima risoluzione del rapporto (come illustrato al superiore p.to 4).

7.1. Non è dubbio che le modifiche apportate dal L. n. 92 del 2012 art. 1 comma 42, e poi dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, al L. n. 300 del 1970 art. 18 abbiano comportato il passaggio da un’automatica applicazione, nel vigore del suo precedente testo, ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell’ultima retribuzione globale di fatto) ad un’ applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “forte”, ovvero “attenuata” o “debole”) assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2).

Sicchè, a seguito del modificato regime sanzionatorio, il giudice deve, come è noto secondo il consolidato insegnamento di questa Corte (bene esemplificato, in particolare da: Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, in motivazione, al p.to 5, con ampio richiamo di precedenti), procedere ad una valutazione più articolata in ordine alla legittimità dei licenziamenti disciplinari (o per giustificato motivo oggettivo), rispetto al periodo precedente; specialmente, accertando se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 “modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo” (così: Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 8). Nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve quindi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (“insussistenza del fatto contestato” ovvero fatto rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”): dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5 dell’art. 18, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale” (ancora Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 10.).

7.2. Al di là della natura eccezionale o meno della tutela reintegratoria, non è seriamente controvertibile che essa, rispetto alla tutela indennitaria e tanto più per effetto degli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 3 e 4, abbia ormai un carattere recessivo.

Nè tale quadro normativo si è qualitativamente modificato a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale, con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l’insussistenza “manifesta” del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere “può” come “deve”), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59).

Infatti, tali pronunce hanno certamente esteso le ipotesi in cui può essere disposta la reintegrazione, ma non hanno reso quest’ultima la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

7.3. Neppure si traggono argomenti significati ai fini qui in esame, dall’avere la Corte costituzionale ritenuto che anche l’indennità risarcitoria, prevista dal D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1, sia idonea “a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.3).

Per una sua corretta comprensione in via interpretativa, tale affermazione deve essere evidentemente collocata nel contesto del percorso argomentativo seguito dalla Corte, per fondare la pronuncia di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1 (sia nel testo originario sia in quello modificato dal D.L. 78 del 2018 art. 3, comma 1, conv. con mod. nella 1. 96/2018), limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Ebbene, il contesto è quello di un ripristino dell’indennità forfettizzata stabilita dalla disposizione normativa denunciata, stimata quale irragionevole rimedio, così come in essa prevista, “rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato… suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.2), proprio in quella funzione di adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore e di adeguata dissuasione del datore.

Sul presupposto dell’espressa negazione, da parte della medesima Corte, “che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto)’, essa ha pertanto ribadito come ben possa “il legislatore… nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purchè un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme” (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto)” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 9.2).

Sicchè, appare evidente come nemmeno la sentenza ora scrutinata, così come le altre più recenti della Corte costituzionale prima richiamate, modifichi il quadro normativo attuale, anzi confermandolo nell’adeguatezza dell’indennità risarcitoria, come resa costituzionalmente legittima, quale legittimo ed efficace rimedio a protezione del lavoratore nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento previste dal legislatore, accanto alla reintegrazione, pertanto non più forma di tutela ordinariamente affidata al giudice per rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

  1. Ebbene, così ricostruito il quadro normativo, significativamente modificato rispetto all’epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha individuato (ai superiori p.ti 4 e 4.1.) l’essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva del L. n. 300 del 1970art. 18, non pare che esso assicuri, sulla base delle necessarie caratteristiche scrutinate, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro.

Sicchè, deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico.

Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, come invece ritenuto dalla Corte d’appello di Brescia (dal secondo capoverso di pg. 5 al terz’ultimo di pg. 6 della sentenza), il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. n. 92 del 2012 (art. 18, comma 1), tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, comma 1), per il licenziamento (non tanto discriminatorio, impropriamente richiamato in proposito, oltre che non correttamente equiparato al licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”: al sesto alinea del secondo capoverso di pg. 5 della sentenza; ma soprattutto) ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575Cass. 7 novembre 2018, n. 28453).

Non si tratta, infatti, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa: come sottende la Corte bresciana, laddove argomenta (al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza) con la possibilità per il lavoratore (in “riferimento alla facoltà… di impugnare… un licenziamento che abbia, in concreto e al di là delle ragioni apparenti addotte dal datore di lavoro, quale unica ragione quella di reagire alle rivendicazioni avanzate dal dipendente in pendenza del rapporto di lavoro”) di ottenere “una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e insussistenti, e dunque su ragioni – veritiere – del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può configurare la situazione psicologica in questione).

Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse (“del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente”: secondo l’espressione della Corte lombarda) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell’impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti. Ma il procedimento argomentativo si fonda sul presupposto (chiaramente esplicitato) che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un’ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa).

Ebbene, esso rivela come l’individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all’esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato al superiore p.to 6, in fine, per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema).

  1. In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.

Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.

  1. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del ricorso, con la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità al Tribunale di Brescia in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:

“Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicchè, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Brescia in diversa composizione.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2022.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2022

SEMINARIO – Salario minimo garantito. Legge e contrattazione collettiva

Giovedì 14 luglio 2022 presso il Centro Congressi Fondazione Cariplo di Milano dalle 15:00.