Pubblico Impiego – Sanzioni Disciplinari. Ufficio Procedimenti disciplinari.

Cassazione n.13911/2021

Il titolare può delegare ad altri dipendenti addetti alla struttura amministrativa dell’ufficio l’attività di istruttoria disciplinare, in quanto le competenze del titolare l’UPD restano circoscritte alle attività valutative r deliberative.

Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n.13911/2021.

La Corte ha affermato che le norme sulla competenza non vanno confuse con le regole del procedimento per cui, ove risulti che quest’ultimo sia stato, comunque, gestito dal soggetto cui è attribuito il potere disciplinare, non ogni difformità rispetto alla previsione normativa, produce la nullità della sanzione, la quale è invece configurabile solo qualora l’interferenza di organi esterni all’UPD abbia determinato in senso decisivo e sostitutivo la compartecipazione di soggetto estraneo all’ufficio con conseguente ed inammissibile sostanziale trasferimento della competenza ad un diverso organo non competente ( Cassazione 11632/2016).

Va anche notato come gli atti del procedimento disciplinare siano ormai espressione di un potere privatistico del datore di lavoro (Cassazione 14200/2018) non avendo gli stessi natura amministrativa e non operando quindi i principi che in relazione agli atti autoritativi limitano la delega di funzioni.

L’istituzione dell’Ufficio per i Procedimenti disciplinari è sancita dall’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 con il DLGS 75/2017 (Decreto Madia) la competenza dell’ufficio e quindi la sua necessaria partecipazione al procedimento disciplinare è stata estesa a tutte le procedure disciplinari ad eccezione di quelle dove è prevista la sanzione del rimprovero verbale.

Il comma 2 del DLGS 165/2001 prevede che ciascuna amministrazione nell’ambito della propria organizzazione è tenuta ad individuare l’ufficio per i procedimenti disciplinari per le infrazioni punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale, attribuendone apposita titolarità e responsabilità.

Di fronte alle evidenti difficoltà per i piccoli enti soprattutto locali, la legge articolo 55 bis comma 3 prevede che le amministrazioni, previa convenzione, possono prevedere la gestione unificata delle funzioni dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, senza maggiori oneri per la finanza pubblica.

La recente sentenza della Corte di Cassazione trova avvallo anche in precedente pronuncia della Corte stessa (Cassazione n.14200/2018).

Quest’ultima stabilisce che Nel pubblico impiego contrattualizzato, il titolare dell’ufficio dei procedimenti disciplinari può delegare a dipendenti esterni allo stesso il compimento di atti istruttori, facendone propri i risultati, purché detti atti non abbiano contenuto valutativo o decisorio ed il soggetto delegato offra garanzia di terzietà ed imparzialità, non essendo gli stessi soggetti ai limiti della delega di funzioni in quanto espressione del potere privatistico del datore di lavoro e non di quello pubblicistico.

Sempre in tema di Ufficio per i Procedimenti Disciplinari, Cassazione 9.1.2019 n.271 ha ritenuto come non sia necessaria la costituzione ex novo ed in maniera espressa di un ufficio destinato ai procedimenti disciplinari, essendo sufficiente che all’organo che ha inflitto la sanzione siano stati ufficialmente riconosciuti i relativi poteri e che esso garantisca idonea terzietà.

Nel caso di identificazione dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari con la figura del direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate è stata ritenuta garantire, stante la posizione di vertice di tale organo, il sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale era addetto il dipendente e dunque la terzietà dell’ufficio disciplinare (Cassazione n.20417/2019).

Chiarisce molti punti ed indirizzi Cassazione n.1753/2017 la quale afferma che in tema di pubblico impiego contrattualizzato, il principio di terzietà dell’ufficio dei procedimenti disciplinari ne postula la distinzione sul piano organizzativo con la struttura nella quale opera il dipendente, e non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo, rispetto al lavoratore ed alla P.A., potrebbe assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto. Ne consegue che qualora il suddetto ufficio abbia composizione collegiale, e sia distinto dalla struttura nella quale opera il dipendente sottoposto a procedimento, la terzietà dell’organo non viene meno solo perché sia composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione disciplinare.

Fabio Petracci.

CONVEGNO – Il procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico e privato.

Pubblichiamo il video Youtube del convegno “Il procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico e privato” organizzato dall’Ordine degli avvocati di Roma e tenutosi in diretta streaming il 25 maggio 2021 contenente l’intervento dell’avv. Petracci “La difesa ed il contraddittorio nel procedimento disciplinare” che ha inizio al minuto 1.14.13

Il contraddittorio nel procedimento disciplinare del lavoro pubblico e privato e la sua rilevanza nella fase processuale

  1. Considerazioni generali – Due diversi procedimenti disciplinari.

 

Nel trattare il tema è sicuramente utile premettere un breve esame della struttura del procedimento disciplinare nel lavoro privato e nel lavoro pubblico contrattualizzato.

 

  1. Nel lavoro alle dipendenze dei privati.

 

Nel lavoro alle dipendenze dei privati datori di lavoro, la procedura disciplinare era introdotta con lo statuto dei lavoratori che con l’articolo 7 inserito nel titolo I della libertà e della dignità del lavoratore, introduce , quella che è stata una rilevante innovazione per l’epoca, quale il diritto del lavoratore a conoscere le condotte destinate a dar luogo alla sanzione disciplinare e ad avere tempestiva contezza delle mancanze che gli venivano addebitate al fine di potersi adeguatamente difendere.

Nella sostanza un bilanciamento innovativo tra il potere imprenditoriale e la libertà e dignità del lavoratore.

In concreto, la semplice realizzazione dell’articolo 41 della carta costituzionale che vuole armonizzare la libertà organizzativa dell’impresa con la dignità umana.

 

  1. Nel lavoro contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Diversa invece la genesi e l’impostazione del sistema disciplinare nel lavoro pubblico contrattualizzato.

In tale ambito, diamo per scontato quanto posto dallo statuto dei lavoratori, ma è contestualmente considerata l’innovativa natura contrattuale del rapporto di lavoro, accanto alla quale come elemento di specialità, si vuole introdurre un impianto disciplinare funzionale ai principi di buon andamento della pubblica amministrazione contenuti nell’articolo 97 della carta costituzionale.

Quindi, in quest’ultimo caso, la tutela del lavoratore deve bilanciarsi con questo principio costituzionale, dove il buon andamento si coniuga oltre che con l’interesse della pubblica amministrazione che dovrebbe riflettere quello della comunità, anche con il principio di imparzialità contenuto nello stesso articolo 97.

La sintesi è data dall’impianto normativo contenuto nel testo unico del pubblico impiego agli articoli da 55 a 55 sexies.

Trattasi di un corpo di norme inderogabili improntate a principi di officialità, dove l’avvio dell’azione disciplinare è obbligatoria, a scanso di responsabilità del dirigente, dove sussiste l’obbligo dei dipendenti a collaborarvi.

Sussiste in tale ambito un principio di terzietà che tocca l’intera fase di applicazione della sanzione affidata ad apposito ufficio dei procedimenti disciplinari.

La fase segnalazione contestazione, difesa e decisione è scandita da termini definiti e precisi laddove il termine massimo per la segnalazione ed il termine finale per la conclusione del procedimento non possono essere superati a pena di nullità dell’intero procedimento.

Tornando all’esame della fase procedimentale e delle tutele difensive, le differenze delle impostazioni qui rilevate assisteranno le considerazioni che saranno di seguito svolte.

Notiamo in ogni caso che al rigore ed all’ufficialità della normativa corrispondono maggiori garanzie difensive per gli incolpati, come se in qualche modo, anche impropriamente, il procedimento disciplinare pubblico venisse ad avvicinarsi al processo penale.

Di seguito esamineremo le varie fasi dei procedimenti disciplinari rilevando le opportunità ed i limiti del contraddittorio nell’ambito del processo disciplinare.

 

  1. Fase delle indagini.

 

Con la sentenza n.16598 del 20.6.2019, la Corte di Cassazione ritiene legittime le indagini preliminari del datore di lavoro volte ad acquisire le prove del ritenuto illecito.

Di fronte alle obiezioni relative allo svolgimento delle indagini, inaudita altera parte, la corte ha ritenuto che il rispetto della regola del contraddittorio interessa solo la parte del procedimento disciplinare successiva alla contestazione.

Il principio è applicabile anche al procedimento disciplinare nell’ambito del pubblico impiego.

 

  1. La contestazione.

 

E’ questa la fase che consente l’avvio della procedura disciplinare e che pertanto deve consentire l’esercizio del diritto di difesa.

Quindi, la contestazione deve essere:

 

 

La reazione all’illecito posto in essere dal dipendente deve essere tempestiva a dimostrare l’interesse del datore di lavoro ed anche al fine di garantire all’incolpato una pronta e precisa ricostruzione dei fatti.

Nel rapporto di lavoro privatistico l’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori non stabilisce dei termini rigidi e quindi sarà il giudicante a valutare la tempestività.

La Cassazione con una recente pronuncia n.12193 del 22.6.2020, ha ritenuto come nel valutare l’immediatezza della contestazione, occorra tenere conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro ad assumere sufficienti elementi a sostenere la contestazione e del lavoratore a difendersi su fatti recenti che egli sia in grado di trattare a livello difensivo.

Nel caso di specie, era ritenuta tardiva una contestazione effettuata all’esito di un procedimento penale conclusosi a lunga distanza dai fatti addebitati.

Nel procedimento disciplinare di cui al testo unico del pubblico impiego, è stabilito un termine di 10 giorni dalla conoscenza del fatto per la segnalazione all’ufficio incaricato dei procedimenti disciplinari, mentre quest’ultimo ha a disposizione un termine di 20 giorni per procedere alla contestazione.

 

 

  1. Specificità.

 

Al fine di consentire adeguata difesa, la contestazione deve contenere una dettagliata descrizione del fatto contestato al lavoratore, del luogo e del tempo in cui la condotta si è realizzata, oltre ad una precisa descrizione della stessa. Non sono imposti schemi rigidi e prestabiliti nella lettera di contestazione. Quest’ultima deve inoltre contenere l’invito a rendere le proprie giustificazioni nei termini di legge. Sul punto vedasi Cassazione 15 maggio 2014 n.10662.

 

  1. Immutabilità.

 

Una volta contestati dei fatti, sugli stessi sarà impostata tutta la procedura disciplinare.

Rilevanti mutamenti dei fatti addebitati risultano idonei a ledere il diritto di difesa. Ciò accade secondo la pronuncia della Cassazione n.28756 del 2019, allorquando sia intervenuta una sostanziale modifica del fatto addebitato tale da modificare sostanzialmente il fatto addebitato mediante il riferimento ad un quadro diverso da quello posto a fondamento della sanzione.

Un tanto non si verifica, allorquando siano dedotti fatti nuovi ma marginali rispetto al fatto contestato ( Cassazione 13.10.2020 n.22076).

Il principio delineato vale anche nell’ambito del procedimento disciplinare nel pubblico impiego.

 

  1. Giustificazione e Audizione.

 

  1. Chi può assistere l’incolpato?

 

E’ questa la fase dove principalmente si esplica il diritto di difesa.

Nel procedimento disciplinare del lavoro privato disciplinato dall’articolo 7 della legge 300/70 oltre che da eventuali norme contrattuali collettive, l’audizione dell’incolpato è solo eventuale e bene può il lavoratore limitarsi ad una difesa scritta.

Qualora il dipendente incolpato chieda di essere sentito, il datore di lavoro, a pena di nullità del procedimento, vi deve provvedere.

L’articolo 7 stabilisce che il lavoratore incolpato può chiedere di essere sentito con l’assistenza di un rappresentante sindacale.

Stante la disposizione, si è ritenuto che il dipendente incolpato non possa fari assistere da un legale.

La Corte di Cassazione con la pronunzia n.9305/2017 ha ritenuto non sussistere il diritto del lavoratore a rendere le proprie giustificazioni orali in presenza di un avvocato.

In particolare, quanto allo svolgimento del procedimento disciplinare ex Art. 7, St. lav. (L. 300/1970), la Corte Suprema ha avuto modo di precisare come, in occasione dell’audizione orale, il diritto del lavoratore ad essere assistito da un rappresentante sindacale esaurisca le tutele previste dal legislatore per siffatto procedimento. Ciò significa, allora, che il datore di lavoro ha la semplice facoltà, ma non l’obbligo, di ascoltare il lavoratore in presenza di un avvocato, anche quando, per i medesimi fatti oggetto di contestazione disciplinare, il dipendente sia stato chiamato a rispondere nell’ambito di un procedimento penale.

Secondo i giudici della Cassazione, infatti, procedimento disciplinare e procedimento penale attengono a sfere di interessi giuridici diversi, per cui il diritto all’assistenza tecnica di un difensore è previsto solo nel caso del processo penale, data la rilevanza pubblicistica del medesimo.

Nell’ambito del procedimento regolato dal Testo Unico sul Pubblico Impiego DLGS 165/2001 articolo 55 bis , il dipendente potrà invece farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

Dunque chiunque in quanto munito di procura potrà assistere l’incolpato ed a maggior ragione un legale.

  1. Quale rappresentante sindacale?

Una sentenza della Cassazione, alquanto datata, la n.1965/82 riteneva che il mandato alla difesa potesse essere conferito esclusivamente alle organizzazioni firmatarie del contratto collettivo.

Più di recente, Cassazione 30 agosto 1993 n.9177, ebbe invece a sostenere che qualsiasi organizzazione sindacale era legittimata ad assistere il lavoratore.

  1. E’ possibile richiedere in fase difensiva copia della documentazione che sostiene l’incolpazione?

Spesso le contestazioni disciplinari si fondano su atti e documenti del datore di lavoro e l’incolpato può avere interesse all’accesso nella fase di audizione.

L’articolo 7 della legge 300/70 non contempla un simile diritto.

Con diverse sentenze questo diritto era stato negato (Cassazione 6.10.2017, Cassazione 21 ottobre 2010 n.21612).

Con sentenza n.7581 del 27 marzo 2018, la Corte di Cassazione ammetteva il diritto non tanto in ragione del diritto di difesa che poteva ritenersi limitato nella sede disciplinare, quanto piuttosto con riferimento agli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sulle parti ed a patto di chiara indicazione della documentazione richiesta e della sua stretta inerenza alle difese da svolgere.

Nell’ambito del procedimento disciplinare del lavoro pubblico contrattualizzato, l’articolo 55 bis al comma 4 prevede per il dipendente il diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento.

 

 

  1. Ripercussioni del procedimento disciplinare in ambito giudiziale.

La fase procedimentale cui abbiamo accennato pur essendo estranea al procedimento giudiziale è spesso destinata a confluire nel medesimo con ripercussioni spesso rilevanti.

Ci riferiamo in primo luogo alla contestazione che in nome del principio di immutabilità cui abbiamo fatto cenno dovrà essere aderente alle difese processuali del convenuto e i casi di difformità potranno essere eccepiti dal ricorrente.

Anche la genericità della contestazione potrà rilevare in sede giudiziale, ma in questo caso se l’eccezione è fondata non si perverrà neppure alla fase istruttoria.

Nel caso in cui, venga rilevata la genericità della contestazione, ritengo opportuno rilevarla già in sede disciplinare, evitando di svolgere una difesa compiuta, va rilevato che la mancata risposta alla contestazione non equivale ad ammissione del fatto. Il tenere in eccessivo conto un eccezione dall’esito incerto potrebbe comunque inficiare la fase difensiva.

Nel caso di tardività della contestazione, è pure opportuno rilevarlo formalmente in fase disciplinare, espletando le difese e facendo notare l’eccezione di tardività.

Nel caso di mancato conferimento della documentazione su cui si fonda l’incolpazione, sarà opportuno farlo notare in sede di audizione, astenendosi da altre dichiarazioni.

Per quanto attiene invece alle giustificazioni.

Va posta molta attenzione ad evitare dichiarazioni confessorie del lavoratore o a non contestare i punti su cui si basa l’incolpazione chiedendone la verbalizzazione.

Dichiarazioni confessorie e mancata contestazione in presenza di valida incolpazione possono formare in sede giudiziale elemento di convincimento del giudice.

Per l’audizione, la presenza del sindacalista non è sempre appropriata in quanto questa tipologia di assistenza tende a privilegiare il discorso di insieme e la trattativa anche in senso favorevole al lavoratore, omettendo spesso un compiuto esame del fatto e la sua contestazione.

 

Avvocato Fabio Petracci.

 

Relazione tenuta dall’avvocato Fabio Petracci

nel convegno Il Procedimento Disciplinare nei Rapporti di Lavoro Pubblico e Privato

organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Roma e tenutosi presso la Corte di Cassazione in data 25.5.2021.

I sanitari che non si vaccinano possono essere collocati in ferie – breve commento e testo integrale dell’ordinanza del Tribunale di Belluno

L’ordinanza emessa dal Tribunale di Belluno affronta il quanto mai attuale tema concernente l’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione da parte del personale sanitario.

Il caso affrontato dal Tribunale, vede il rifiuto di alcuni dipendenti operatori sanitari di sottoporsi alla vaccinazione anti COVID-19. Il datore di lavoro li colloca pertanto forzosamente in ferie.

I dipendenti in questione si rivolgono al locale Tribunale del Lavoro chiedendo in via d’urgenza (articolo 700 CPC)  di poter continuare a svolgere le ordinarie mansioni.

Il tutto sul presupposto in base al quale i lavoratori in questione svolgevano mansioni ad alto rischio di contagio.

Va considerato come l’articolo 32 della Costituzione disponga che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Ma a questo punto, secondo chi scrive va rimosso un equivoco.

Nel caso del vaccino di personale sanitario ad alto rischio di contagio, non si tratta di un obbligo, ma bensì di una condizione di sicurezza per poter lavorare.

L’obbligo cui allude la Costituzione è quello dotato di un’assolutezza totale per cui il soggetto deve in ogni modo, anche costretto con la forza aderire.

Nel caso di specie, si tratta esclusivamente di una condizione o meglio di un onere che incombe su chi voglia esercitare in determinate condizioni una professione sanitaria.

 

TRIBUNALE DI BELLUNO n. 12/2021 R.G.

Il Giudice sciogliendo la riserva assunta con verbale di trattazione scritta in data 16.3.21; ritenuto che risulta difettare il fumus boni iuris, disponendo l’art. 2087 c.c. che “ L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro “; ritenuto che è ormai notoria l’efficacia del vaccino per cui è causa nell’impedire l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus SARS -CoV-2, essendo notorio il drastico calo di decessi causati da detto virus, fra le categorie che hanno potuto usufruire del suddetto vaccino, quali il personale sanitario e gli ospiti di RSA, nonché, più in generale, nei Paesi, quali Israele e gli Stati Uniti, in cui il vaccino proposto ai ricorrenti è stato somministrato a milioni di individui; rilevato che è incontestato che i ricorrenti sono impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro; ritenuto che è, pertanto, evidente il rischio per i ricorrenti di essere contagiati, essendo fra l’altro notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l’infezione; ritenuto che la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti; che è ormai notorio che il vaccino per cui è causa – notoriamente offerto, allo stato, soltanto al personale sanitario e non anche al personale di altre imprese, stante la attuale notoria scarsità per tutta la popolazione – costituisce una misura idonea a tutelare l’integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l’evoluzione della malattia; ritenuto, quanto al periculum in mora, che l’art. 2109 c.c. dispone che il prestatore di lavoro “ Ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro “; che nel caso di specie prevale sull’eventuale interesse del prestatore di lavoro ad usufruire di un diverso periodo di ferie, l’esigenza del datore di lavoro di osservare il disposto di cui all’art. 2087 c.c.; ritenuta l’insussistenza del periculum in mora quanto alla sospensione dal lavoro senza retribuzione ed al licenziamento, paventati da parte ricorrente, non essendo stato allegato da parte ricorrente alcun elemento da cui poter desumere l’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento; ritenuto che, attesa l’assenza di specifici precedenti giurisprudenziali, sussistono le condizioni di cui all’art. 92 co. II c.p.c. per compensare le spese processuali. P.Q.M. visto l’art. 700 c.p.c.; 1. rigetta il ricorso

 

Risorse destinate alle assunzioni – non possono essere utilizzate per nuove posizioni organizzative.

Corte dei Conti – Delibera n.1 /2021/Sezione Regionale di Controllo per La Toscana.

Il comune toscano di Pienza richiede alla locale Sezione della Corte dei Conti se sia possibile utilizzare le risorse destinate alle assunzioni per finanziare nuove posizioni organizzative.

La Sezione risponde negativamente al quesito che pone il tema della disapplicazione del limite posto dall’articolo 23, comma 2, del DLGS 75/2017 circa l’ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale, applicando l’articolo 11 bis comma 2 del DL 135/2018.

Nel merito, la Sezione ritiene di dare risposta negativa al quesito posto dal Sindaco del comune di Pienza, per le ragioni di seguito rappresentate. Il quesito fa leva sull’art. 11 bis, comma 2, del citato DL 135, per sollecitare la disapplicazione del limite posto dall’art. 23, comma 2, del D. Lgs. n. 75/2017 all’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale. Dispone il detto art. 11 bis, comma 2, che: “Fermo restando quanto disposto dall’art. 1 commi 557-quater e 562 L. n. 296/2006, per i comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al personale del comparto funzioni locali – Triennio 2016-2018, limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l’eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all’utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario”.

La Ratio della norma appena citata, afferma la Corte dei Conti, è con tutta evidenza quella di introdurre una deroga all’art. 23, comma 2 D. Lgs. n. 75/2017 (richiamato anche dall’art. 33, comma 2, ultimo periodo, del DL n. 34/2019 in riferimento ai limiti del trattamento accessorio del personale); tale deroga consente, ai soli comuni privi di dirigenza, di sottrarre dall’applicazione del limite di cui al citato art. 23 (consistente nell’invarianza della spesa relativa al trattamento accessorio del personale rispetto agli importi del 2016) le indennità dei soggetti titolari di posizione organizzativa, attingendo alle risorse disponibili per le assunzioni di personale a tempo indeterminato, ma ciò soltanto a concorrenza del differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l’eventuale maggiorazione delle medesime retribuzioni successivamente attribuita ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL.

Fabio Petracci.

Pubblico Impiego – azione disciplinare – Sospensione Cautelare – assenza di provvedimento disciplinare – restitutio in integrum – spetta.

Corte di Cassazione Sezione Lavoro n.4411 del 18.2.2021.

Un dipendente pubblico è imputato di peculato. Viene sospeso in base all’articolo 4 della legge n.97/2001 che impone in tali fattispecie di reati e di condanna anche non definitiva per taluni reati contro la Pubblica Amministrazione la sospensione cautelare del dipendente, con la precisazione che il provvedimento perde efficacia in caso di successivo proscioglimento o assoluzione o dopo il decorso di un termine pari al periodo di prescrizione del reato. L’accusa alla fine cade per intervenuta prescrizione. Il dipendente si dimette e non viene perseguito disciplinarmente.

Egli pertanto nei diversi gradi di giudizio, richiede il pagamento delle somme non percepite in quanto oggetto di sospensione cautelare.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza in esame precisa come la sospensione cautelare nel pubblico impiego tanto quella obbligatoria come nel caso di specie, tanto quella facoltativa prevista anche dalla contrattazione collettiva sono provvedimenti interinali funzionali alla successiva sanzione e, pertanto il venir meno di quest’ultima produce il venir meno degli effetti della sospensione anche sotto l’aspetto economico.

L’istituto della sospensione cautelare nel pubblico impiego ha trovato una prima disciplina nel D.P.R. n. 3 del 1957, per gli impiegati civili dello Stato, articoli da 91 a 99. Tali norme sono state richiamate per il personale delle Unità Sanitarie Locali dal D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, art. 51, comma 1. Dopo la privatizzazione, con la stipula dei contratti collettivi, la regolamentazione è stata fissata dalla contrattazione collettiva, secondo quanto disposto dall’attuale DLGS 165/2001 artt. 69 e 71.

Alle ipotesi di sospensione cautelare previste da tali fonti si è aggiunta una sospensione di carattere speciale e di natura obbligatoria legata alla condanna per specifici reati. La relativa disciplina è stata fissata dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 4,

Nella fattispecie in esame la sospensione è stata disposta ai sensi dell’art. 4 della suddetta L. n. 97 del 2001; la norma sancisce la sospensione obbligatoria del dipendente di amministrazioni o enti pubblici (nonchè degli enti a prevalente partecipazione pubblica) in caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei più gravi delitti contro la pubblica amministrazione. Tra essi figura il delitto di peculato, per il quale il dipendente in questione veniva condannato dal Tribunale penale, procedimento che poi nelle successive fasi processuali diveniva oggetto di prescrizione.

L’art. 4 cui si è fatto cenno stabilisce la inefficacia della sospensione a seguito sia alla sentenza di assoluzione che a quella di proscioglimento. Tale ultima espressione individua le sentenze di non doversi procedere per ragioni processuali, tra le quali è compresa la sentenza di estinzione del reato per prescrizione. Il legislatore del 2001 nell’introdurre la normativa attuale mediante la legge 97/2001, ha recepito sul punto i principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza 3 giugno 1999 n. 206, nell’offrire l’interpretazione conforme a Costituzione della disciplina allora contenuta nella L. n. 55 del 1990, art. 15, comma 4 septies.

La sentenza di cui in epigrafe è stata chiamata a definire, cessati gli effetti della sospensione obbligatoria, la sorte della obbligazione retributiva che fa carico al datore di lavoro pubblico.

In riferimento alla sospensione facoltativa disposta a seguito di procedimento penale – a norma del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 91 o secondo la regolamentazione della contrattazione collettiva, la Suprema Corte con orientamento consolidato (fra le altre, Cass. nn. 5147/2013, 15941/2013, 26287/2013, 13160/2015, 9304/2017, 10137/2018, 20708/2018, 7657/2019, 9095/2020) ed in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa (C.d.S., Ad plen. 28.2.2002 n. 2) e costituzionale (Corte Cost. 6 febbraio 1973 n. 168), ha chiarito che la sospensione cautelare, in quanto misura interinale, ha il carattere della provvisorietà e della rivedibilità, nel senso che solo al termine e secondo l’esito del procedimento disciplinare si potrà stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata e debba sfociare nella destituzione o nella sospensione disciplinare, ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti. In particolare, ogni qualvolta la sanzione disciplinare non venga inflitta o ne sia irrogata una di natura ed entità tali da non giustificare la sospensione sofferta sorge il diritto alla restitutio in integrum, che ha natura retributiva e non risarcitoria, e ciò a prescindere dalla espressa previsione della legge o della contrattazione collettiva.

Si è ritenuto, dunque, che in caso di omissione del procedimento disciplinare anche l’eventuale condanna penale intervenuta nei confronti del dipendente non sia suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio disposta in corso del procedimento penale e stabilita dalla amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto.

Per quanto attiene invece la cessazione dal servizio intervenuta nel corso del procedimento disciplinare, la legge DLGS 165/2001 all’articolo 55 bis , comma 9, prevede che la cessazione del rapporto con la pubblica amministrazione (non il trasferimento ad un’altra amministrazione) provoca la cessazione del procedimento disciplinare, salvo il caso di licenziamento disciplinare ed il caso in cui sia in corso la sospensione cautelare e la decisione in sede disciplinare porti alla irrogazione del provvedimento disciplinare cui la stessa è finalizzata.

Dunque, nel caso di specie, l’Amministrazione avrebbe potuto portare a termine il procedimento disciplinare anche di fronte al trasferimento del dipendente al fine di mantenere l’efficacia della sospensione cautelare, cosa che non ha fatto e quindi, secondo la Cassazione citata il provvedimento ha perso ogni effetto.

Fabio Petracci

Licenziamento – reintegra – ferie – spettano. Corte di Giustizia Europea Sentenza del 25/6/2020 Prima Sezione – Cause riunite C-762/18 e C-37/19

Le ferie si maturano anche in caso di licenziamento illegittimo.

 Lo afferma la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La decisione ha ad oggetto un licenziamento illegittimo che determina la reintegra del lavoratore il quale essendo rimasto forzatamente assente chiede il riconoscimento del periodo di ferie maturate dalla data del recesso e la reintegrazione, sul presupposto che detto periodo debba a tutti gli effetti essere riconosciuto quale periodo di effettivo lavoro.
A tale riguardo, la Corte di Giustizia afferma che in caso di licenziamento, successivamente dichiarato illegittimo, le ferie maturate nel periodo compreso tra il recesso e la reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro, deve essere assimilato ad un periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione delle ferie maturate o in alterativa, laddove per qualsivoglia ragione non possa fruirne, ad un’indennità sostitutiva delle stesse. Ciò in quanto, non avere potuto svolgere la propria prestazione, rientra tra i motivi indipendenti dalla volontà del dipendente.

Contratto di somministrazione e contratto a termine illegittimi – risarcimento del danno – pubblica amministrazione – applicazione dei criteri risarcitori comuni del diritto del lavoro.

Cassazione n.3815 del 15.2.2021.

Di fronte ad un contratto di somministrazione a tempo determinato instaurato con l’INPS la Corte di Cassazione con sentenza n.3815 del 15.2.2021 nel ribadire l’insussistenza di un diritto del lavoratore alla ricostituzione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, afferma invece il pieno diritto del lavoratore ad ottenere retroattivamente e per il passato la conversione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore ed a tempo indeterminato ai fini e quindi il risarcimento del danno nei termini di cui all’allora vigente articolo 32 comma 5 L.183/2010 ed attuale articolo 28 comma 2 del DLGS 165/2001 (da 2,5 a 12 mensilità).

La sentenza appare d’interesse in quanto oltre a considerare il predetto danno (danno comunitario) come non soggetto all’onere della prova, considera come possibile nel caso delle pubbliche amministrazioni, la sussistenza di un ulteriore danno, in merito al quale l’onere della prova incomberà sul lavoratore. La stessa sentenza inoltre meglio definisce e differenzia la natura del danno cosiddetto comunitario nel caso del dipendente privato e di quello pubblico, così testualmente affermando:

 “Ciò non dà luogo ad una posizione di favore del dipendente pubblico rispetto al lavoratore privato, atteso che per il primo l’indennità forfetizzata agevola l’onere probatorio del danno subito pur rimanendo salva la possibilità di provare un danno maggiore mentre per il lavoratore privato essa funge da limite al danno risarcibile, ma questa restrizione è bilanciata dal diritto alla conversione del rapporto di lavoro, insussistente nel lavoro pubblico”

La pronuncia qui menzionata trova le proprie ragioni nella precedente Cassazione n.3189/2019 e nella precedente autorevole pronuncia delle Sezioni Unite n.5072/2016.

 

 

 

Pubblico Impiego. Festività soppresse e Ferie – monetizzazione.

E’ richiesto all’ARAN un parere in merito alla monetizzazione delle festività soppresse nell’ambito del comparto delle Amministrazioni Centrali (già Comparto Ministeri).

Nello specifico si chiede se sia possibile monetizzare le giornate di riposo ex L. n. 937/1977 nel caso di mancato godimento nell’anno di maturazione, precedente all’anno di cessazione del rapporto di lavoro, qualora non godute dal dipendente per causa diversa dai motivi di servizio (es. malattia o altro oggettivo impedimento)?

 

L’ articolo  28 del CCNL di comparto fa riferimento alle ferie ed al recupero delle festività soppresse, stabilendo che:

  1. Il dipendente ha diritto, in ogni anno di servizio, ad un periodo di ferie retribuito. Durante tale periodo al dipendente spetta la normale retribuzione ivi compresa l’indennità di posizione organizzativa, esclusi i compensi per le prestazioni di lavoro straordinario, nonché le indennità che richiedano lo svolgimento della prestazione lavorativa e quelle che non siano corrisposte per dodici mensilità.
  2. In caso di distribuzione dell’orario settimanale di lavoro su cinque giorni, la durata delle ferie è di 28 giorni lavorativi, comprensivi delle due giornate previste dall’ art. 1, comma 1, lettera “a”, della L. 23 dicembre 1977, n. 937.
  3. In caso di distribuzione dell’orario settimanale di lavoro su sei giorni, la durata del periodo di ferie è di 32 giorni, comprensivi delle due giornate previste dall’ art. 1, comma 1, lettera “a”, della L. 23 dicembre 1977, n. 937.
  4. Per i dipendenti assunti per la prima volta in una pubblica amministrazione, a seconda che l’articolazione oraria sia su cinque o su sei giorni, la durata delle ferie è rispettivamente di 26 e di 30 giorni lavorativi, comprensivi delle due giornate previste dai commi 2 e 3.
  5. Dopo tre anni di servizio, ai dipendenti di cui al comma 4 spettano i giorni di ferie stabiliti nei commi 2 e 3.
  6. A tutti i dipendenti sono altresì attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell’anno solare ai sensi ed alle condizioni previste dalla menzionata legge n. 937/77.
  7. Nell’anno di assunzione o di cessazione dal servizio la durata delle ferie è determinata in proporzione dei dodicesimi di servizio prestato. La frazione di mese superiore a quindici giorni è considerata a tutti gli effetti come mese intero.
  8. Il dipendente che ha usufruito dei permessi retribuiti di cui agli artt. 31 e 33 conserva il diritto alle ferie.
  9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile, non sono monetizzabili. Esse sono fruite, previa autorizzazione, nel corso di ciascun anno solare, in periodi compatibili con le esigenze di servizio, tenuto conto delle richieste del dipendente. Le ferie non possono essere fruite ad ore.
  10. L’amministrazione pianifica le ferie dei dipendenti al fine di garantire la fruizione delle stesse nei termini previsti dalle disposizioni contrattuali vigenti.
  11. Le ferie maturate e non godute per esigenze di servizio sono monetizzabili solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di legge e delle relative disposizioni applicative.
  12. Compatibilmente con le esigenze del servizio, il dipendente può frazionare le ferie in più periodi. Esse sono fruite nel rispetto dei turni di ferie prestabiliti, assicurando comunque, al dipendente che ne abbia fatto richiesta, il godimento di almeno due settimane continuative nel periodo 1 giugno – 30 settembre.
  13. Qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio, il dipendente ha diritto al rimborso delle spese documentate per il viaggio di rientro in sede e per quello di ritorno al luogo di svolgimento delle ferie. Il dipendente ha inoltre diritto al rimborso delle spese anticipate per il periodo di ferie non godute.
  14. In caso di indifferibili esigenze di servizio che non abbiano reso possibile il godimento delle ferie nel corso dell’anno, le ferie dovranno essere fruite entro il primo semestre dell’anno successivo.
  15. In caso di motivate esigenze di carattere personale e compatibilmente con le esigenze di servizio, il dipendente dovrà fruire delle ferie residue al 31 dicembre entro il mese di aprile dell’anno successivo a quello di spettanza.
  16. Le ferie sono sospese da malattie adeguatamente e debitamente documentate che si siano protratte per più di tre giorni o abbiano dato luogo a ricovero ospedaliero. E’ cura del dipendente informare tempestivamente l’amministrazione, ai fini di consentire alla stessa di compiere gli accertamenti dovuti.
  17. Fatta salva l’ipotesi di malattia non retribuita di cui all’art. 37, comma 2, il periodo di ferie non è riducibile per assenze dovute a malattia o infortunio, anche se tali assenze si siano protratte per l’intero anno solare. In tal caso, il godimento delle ferie deve essere previamente autorizzato dal dirigente in relazione alle esigenze di servizio, anche oltre i termini di cui ai commi 14 e 15.

 

Come è dato a vedere è espressamente il comma 6 che disciplina l’istituto delle festività soppresse di cui alla legge 937/1977.

Per il resto la clausola contrattuale si occupa dell’istituto delle ferie cui è attribuita natura irrinunciabile.

Il parere dell’ARAN osserva come, l’istituto delle festività soppresse di cui alla L. n. 937/1977 appare fondamentalmente equiparato a quello dei congedi ordinari (rectius, ferie) sin dalla nota sentenza del Consiglio di Stato del 20/10/1986 n. 802.

Osserva l’ARAN come in via preliminare tuttavia, permangano delle sostanziali differenze in ordine alla disciplina ad esse applicabile.

Il parere passa quindi ad esaminare il contenuto dell’articolo 28 del CCNL comparto Funzioni Centrali del 12/02/2018 che non ha operato una equiparazione piena tra il regime delle quattro giornate di festività soppresse e quello generale delle ferie, dato che questa è limitata solo ad alcuni particolari profili della disciplina (come ad es. la maturazione di giorni nel corso dell’anno e l’importo dovuto al lavoratore in caso di mancata fruizione).

Ne è riprova, a detta dell’ARAN, che il comma 6 stabilisce almeno in parte, una disciplina specifica laddove afferma che i giorni di riposo per festività soppresse sono: “…da fruire nell’anno solare ai sensi ed alle condizioni previsti dalla menzionata Legge n.973/77”.

Pertanto, ritiene l’ARAN nel suo parere, tale riferimento contrattuale consente di affermare che, in ossequio alla L. n. 937/1977, le giornate di riposo devono essere fruite esclusivamente nell’anno di riferimento e che, conseguentemente, non è possibile in alcun modo la trasposizione di quelle maturate in un determinato anno all’anno successivo a quello di maturazione. In aggiunta a ciò, rileva l’ARAN, la medesima disposizione di legge sancisce che la monetizzazione delle stesse può avvenire solo “per fatto derivante da motivate esigenze inerenti alla organizzazione dei servizi, …” (cfr. art. 1, comma 3, della citata legge).

In conclusione, ribadisce l’ARAN, l’eventuale monetizzazione delle festività in parola (il cui importo rimane quello indicato dall’art. 1, comma 3, della L. n. 937/1977) potrà ammettersi solo nei ristretti e precisi limiti consentiti.

Sul punto giova citare il discorso dell’irrinunciabilità delle ferie e del diritto alla relativa indennità sostitutiva.

In proposito si è di recente pronunciata la Corte di Cassazione con l’ordinanza n.13613 del 2 luglio 2020 laddove in conformità a due pronunce della Corte di Giustizia Europea , la Cassazione ritiene che affinchè si determini la perdita del diritto alla monetizzazione, il datore di lavoro, nell’inerzia del lavoratore, è tenuto ad invitarlo, anche formalmente al godimento delle ferie.

Pubblico Impiego Sanità. La remunerazione delle guardie mediche spetta anche al personale non appartenente al Servizio di Pronto Soccorso

Viene posto all’ARAN il quesito se la remunerazione prevista per i medici di guardia al Servizio di Pronto Soccorso in base all’articolo 26, comma 5 del CCNL dell’Area Sanità, spetti pure al personale medico di altri reparti adibiti al turno di pronto soccorso.

 

Ritiene l’ARAN, interpellata, che il comma 5 dell’articolo 26 non fa riferimento alcuno alla struttura di appartenenza del dirigente medico chiamato a coprire il turno di guardia, riferendosi esclusivamente al turni nei servizio di pronto soccorso.

 

Per completezza, viene trascritta di seguito la citata normativa contrattuale.

 

Art. 26 Servizio di guardia 1.Nelle ore notturne e nei giorni festivi, la continuità assistenziale e le urgenze/emergenze dei servizi ospedalieri e, laddove previsto, di quelli territoriali, sono assicurate tenuto conto delle diverse attività di competenza della presente area dirigenziale nonché dell’art. 6 bis, comma 2 (Organismo paritetico), mediante: a) il dipartimento di emergenza, se istituito, eventualmente integrato, ove necessario da altri servizi di guardia o di pronta disponibilità; b) la guardia di unità operativa o tra unità operative appartenenti ad aree funzionali omogenee e dei servizi speciali di diagnosi e cura; c) la guardia nei servizi territoriali ove previsto. 2. Il servizio di guardia è svolto all’interno del normale orario di lavoro. E’ fatto salvo quanto previsto dal presente CCNL in materia di prestazioni aggiuntive di cui all’art. 115 comma 2 (Tipologie di attività libero professionale intramuraria). Di regola, sono programmabili non più di 5 servizi di guardia notturni al mese per ciascun dirigente. 3.Il servizio di guardia è assicurato da tutti i dirigenti esclusi quelli di struttura complessa. 4. Le parti, a titolo esemplificativo, rinviano all’allegato n. 2 del CCNL 3.11.2005 dell’Area IV e III con riferimento alla sola dirigenza sanitaria e delle professioni sanitarie per quanto attiene le tipologie assistenziali minime nelle quali dovrebbe essere prevista la guardia di unità operativa.

  1. La remunerazione delle guardie notturne e/o festive svolte in Azienda o Ente dopo aver detratto da quelle fuori dell’orario di lavoro il numero, non superiore al 12%, delle guardie complessive retribuibili ai sensi dell’art. 115 comma 2 bis (Tipologie di attività libero professionale intramuraria) è stabilita in € 100,00 per ogni turno di guardia notturno e/o festivo in orario e fuori dell’orario di lavoro e in € 120,00 per i medesimi turni nei servizi di pronto soccorso. Tale compenso, che è corrisposto a decorrere dal mese successivo alla data di entrata in vigore del presente CCNL, comprende ed assorbe l’indennità prevista dall’art. 98, comma 1, (Indennità per servizio notturno e festivo) che pertanto non compete per i soli turni di guardia. 44 Qualora si proceda al pagamento delle ore di lavoro straordinario per l’intero turno di guardia notturno e/o festivo prestato fuori dell’orario di lavoro, non si dà luogo all’erogazione del suddetto compenso. Detto compenso compete, invece, per le guardie fuori dell’orario di lavoro che diano luogo al recupero dell’orario eccedente.
  2. Per la corretta determinazione dei turni di guardia notturni da calcolare si rinvia all’allegato 1 del CCNL del 5.7. 2006 dell’Area IV e III con riferimento alla sola dirigenza sanitaria e delle professioni sanitarie. Resta fermo che la prestazione di turni di guardia notturna fuori dell’orario di lavoro dovrà avvenire nel rispetto, tra l’altro, della normativa vigente in materia di riposo giornaliero di cui in particolare al D.Lgs. n. 66/2003 e s.m.i.