Corte Costituzionale. Verso un ulteriore ridimensionamento del Jobs Act sulle tutele crescenti.

Corte Costituzionale – Sentenza n.22/2024 – Questione di legittimità costituzionale articolo 2, primo comma del DLGS 4 marzo 2015 n.23 – nullità del licenziamento – reintegrazione – ammissibilità a prescindere dalla tassatività delle disposizioni di legge in materia.

La Corte Costituzionale è chiamata dalla Corte di Cassazione Sezione Lavoro con ordinanza del 7 aprile 2023 a pronunciarsi in merito alla illegittimità costituzionale dell’articolo 2 DLGS 4 marzo 2015 ( Jobs Act) laddove restringe le ipotesi di nullità del licenziamento e di conseguente reintegra ai casi tassativamente ivi indicati.

Ha ritenuto la Corte di Cassazione quale giudice remittente che sul punto il DLGS 4 marzo 2015 n.23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della L. 10 dicembre 2014, n. 183) abbia violato l’articolo 76 della Carta Costituzionale per difformità rispetto alla delega contenuta nella legge 10 dicembre 2014 n.183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro).

Il caso concreto riguardava un dipendente da una società di trasporto pubblico che era stato licenziato – destituito senza passare come da sua richiesta per il Consiglio di Disciplina (che pare non fosse stato istituito)  senza quindi  il rispetto delle procedure previste dal RD 8 gennaio 1931 n.148 (Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione).

La Cassazione si vedeva quindi limitata sulla base della vigente normativa ritenuta incostituzionale, a riconoscere in base al Jobs Act alla lavoratrice esclusivamente un risarcimento pari a sei mensilità.

In pratica il recesso senza quel passaggio procedurale non avrebbe potuto dar luogo ad una causa di nullità del recesso, in quanto l’articolo 2 del DLGS 23/2015 ( Jobs Act – Tutele Crescenti) non lo prevedeva come espresso caso di nullità del licenziamento.

La Corte Costituzionale anche sulla base di queste ragioni ha ritenuto ‘incostituzionalità dell’articolo 2 del DLGS n.23/2015 per violazione dell’articolo 76 della Costituzione nel punto in cui eccedendo alla delega rappresentata dall’articolo 1 comma 7, lettera c) della legge 183/2014 stabilisce che le forme di nullità del recesso debbano essere quelle previste espressamente dalla legge.

Ne deriva che qualunque violazione di norme imperative di legge comporta ormai la nullità del licenziamento e la conseguente reintegra.

Notiamo che mano a mano, la Corte Costituzionale ridimensiona alla luce dell’ordinamento generale le modifiche introdotte in tema di licenziamenti dalla legge 92/2012 e successivamente dalle cosiddette tutele crescenti previste dal DLGS 23/2015.

Poiché gli interventi della Consulta avvengono in base a specifiche ordinanze di rimessione dei singoli giudici, riteniamo possibili ulteriori graduali interventi.

Lo stesso DLGS 23/2015 all’articolo 4 prevede espressamente che qualora il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto.

Non vi è dubbio, a giudizio di chi scrive, che la mancanza di motivazione di un provvedimento come il licenziamento venga a violare norme imperative di legge e principi dell’ordinamento nazionale e comunitario.

L’articolo 24 della Carta Sociale Europea prevede il diritto di tutela nel caso di licenziamento e, la presenza di un valido motivo.

Attento esame merita pure, anche se non di provenienza comunitaria, la convenzione OIL n.158/1982.

Essa pone limiti di livello internazionale alla facoltà di licenziare.

La convenzione si snoda in una serie compiuta di previsioni che risultano complete e precise.

L’articolo 4 nel riaffermare l’obbligo della motivazione , rispetto alla normativa comunitaria sinora esposta, specifica quali debbano essere i motivi leciti di recesso che devono essere limitati all’attitudine o alla condotta del lavoratore o alle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Il testo dell’articolo 4 della convenzione OIL n.158/1982 è il seguente:

Un lavoratore non dovrà essere licenziato senza che esista un motivo valido di licenziamento legato all’attitudine o alla condotta del lavoratore, o fondata sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.

Sul successivo articolo 7, si fonda un ulteriore principio che restringe ulteriormente nell’ambito della valutazione dei casi di non attitudine o cattiva condotte , la valutazione a talune ipotesi di carattere generale ed impone a garanzia dell’incolpato delle procedure di difesa-

Così si legge all’articolo 7: Un lavoratore non dovrà essere licenziato per motivi legati alla sua condotta o al suo lavoro prima che gli sia stata offerta la possibilità di difendersi contro le accuse formulate.

Quindi non è escluso che il prossimo appuntamento con la Consulta non riguardi il diritto alla reintegra nel caso di licenziamento privo di motivazione.

Fabio Petracci