CASSAZIONE: Lecita l’installazione di telecamere nascoste per verificare il fondato sospetto di furti da parte del lavoratore

La Suprema Corte, sezione V penale, con la pronuncia n. 28613/2025 del 5 agosto 2025 si è espressa sul caso di una dipendente a cui era contestato di aver reiteratamente sottratto banconote dal registratore di cassa e prodotti della farmacia presso cui lavorava.

Le condotte erano accertate mediante l’impianto di videosorveglianza situato all’interno della farmacia; le telecamere erano state installate senza avvertire i dipendenti.

La giurisprudenza di legittimità ritiene lecito l’impiego delle telecamere nascoste, non segnalata da cartelli e installata senza accordo coi sindacati o autorizzazione dell’Ispettorato, se rivolte a controllare uno specifico dipendente nei confronti del quale ci siano già dei validi sospetti di commissione di comportamenti illeciti.

Sono dunque utilizzabili, sia nel processo civile sia in quello penale, le registrazioni video realizzate ad insaputa del dipendente sul luogo di lavoro per proteggere il patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori.

L’impiego delle telecamere nascoste non può essere operato, quindi, né con scopo preventivo né verso soggetti nei confronti dei quali non sussistono sospetti di colpevolezza, e neppure sarebbe possibile fare verifiche a campione.

L’installazione delle telecamere non può dunque servire quale strumento volto al controllo a distanza dei dipendenti, tale da ledere il loro diritto alla riservatezza, bensì deve essere finalizzato a ottenere la conferma dell’attività illecita che il datore di lavoro aveva il sospetto che si compisse all’interno dei locali aziendali e, quindi, per difendere il patrimonio della sua azienda.

Il datore di lavoro, quindi, può ben installare nei locali della propria azienda telecamere per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, e questo perché le norme dello Statuto dei Lavoratori tutelano sì la riservatezza del dipendente, ma non fanno divieto al tempo stesso di effettuare i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale, e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio.

avv. Alberto Tarlao

Licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese: incostituzionale il limite di sei mensilità

Con la sentenza n. 118 del 21 luglio 2025, la Corte Costituzionale si è espressa in merito all’indennità prevista dall’articolo 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (Jobs Act), là dove stabilisce che, nel caso di licenziamenti illegittimi intimati da un datore di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (più di quindici lavoratori presso un’unità produttiva o nell’ambito di un Comune e comunque non occupi più di sessanta dipendenti), non potesse essere superato il limite delle sei mensilità di indennità.

Nel dettaglio, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.

In effetti, la previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, ad avviso della Corte Costituzionale si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere diverse, ponendosi dunque in violazione del principio di eguaglianza.

La predeterminazione dell’indennità risarcitoria deve sempre tendere a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. Non può, pertanto, discostarsene in misura apprezzabile, come può avvenire quando viene adottato un meccanismo rigido e uniforme quale quello dell’art. 9 comma 1 d.lgs. n. 23/2015.

Ancora, è stato ritenuto che ciò che confligge espressamente con i principi costituzionali, dando luogo a una tutela monetaria incompatibile con la necessaria “personalizzazione del danno subito dal lavoratore” sia l’imposizione di un tetto, predeterminato e insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, che dunque comprime eccessivamente l’ammontare dell’indennità.

In ogni caso, è opportuno segnalare che la Corte Costituzionale ha nuovamente rinnovato il proprio auspicio relativamente all’intervento da parte del legislatore sul tema, ribadendo come il criterio del numero dei dipendenti non possa costituire l’esclusivo indice della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale.

avv. Alberto Tarlao

Assenza ingiustificata e dimissioni del lavoratore

Il collegato lavoro Legge 13 dicembre 2024 n.203 mediante l’articolo 29 ha modificato l’articolo 26 del DLGS 151/2001 – collegato lavoro.

Il nuovo articolo 26 del DLGS 151/2001 con il comma 7 bis ha stabilito che “ in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre i termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato o in mancanza di previsione contrattuale nel caso di assenza superiore a 15 giorni, si ritiene lo stesso dimissionario.

Perché ciò avvenga, il datore di lavoro ne deve dare comunicazione all’ispettorato nazionale del lavoro che procederà alle opportune verifiche.

La dimostrazione da parte del datore di lavoro dell’impossibilità o della forza maggiore nel comunicare all’assenza o di fatto imputabile al datore di lavoro, fa venir meno l’effetto delle dimissioni.

In tal caso, il lavoratore, essendo ritenuto dimissionario, perde il diritto alla NASPI che spetta soltanto a chi è stato licenziato, a chi si sia dimesso per giusta causa e a chi abbia accettato l’offerta di conciliazione in sede di licenziamento.

Spetta la NASPI anche in caso di trasferimento a distanza superiore a 50 chilometri o con destinazione raggiungibile con i mezzi pubblici nel termine di 80 minuti o superiore ad esso.

Resta per il datore di lavoro la possibilità di contestare disciplinarmente l’assenza procedendo nei termini ordinari (nota INL n.579/2025).

Lo stesso Ispettorato del Lavoro ha messo a disposizione dei datori di lavoro un apposito modulo di comunicazione.

Nel caso di termine contrattuale concernente la durata dell’assenza deve farsi riferimento al solo contratto nazionale con esclusione dei contratti territoriali i aziendali.

L’effetto risolutivo del rapporto deve considerarsi a far tempo dalla comunicazione all’Ispettorato del Lavoro.

Allorquando si verifichino le dimissioni con questa causale. Il datore di lavoro non sarà tenuto al pagamento del contributo NASPI.

Ci si chiede cosa accada nel caso in cui l’Ispettorato del Lavoro, una volta ricevuta la comunicazione del datore di lavoro, ritenga l’inefficacia delle dimissioni per fatti concludenti?

Qualora si dovesse ritenere l’inefficacia della procedura, potrebbe propendersi per la prosecuzione del rapporto di lavoro con possibilità per il datore di lavoro di contestare l’assenza ingiustificata al dipendente.

La posizione del lavoratore con l’accertamento ispettivo a lui favorevole potrà essere oggetto di contenzioso.

Del resto, anche il datore di lavoro potrà impugnare il provvedimento dell’Ispettorato del Lavoro.

Fabio Petracci

CASSAZIONE: Illegittimo il licenziamento di dipendente giustificato dalla soppressione della funzione cui era addetto.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 03/12/2024) 29/01/2025, n. 2054

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.ssa DORONZO Adriana – Presidente

Dott. PANARIELLO Francescopaolo – Consigliere rel.

Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi – Consigliere

Dott. MICHELINI Gualtiero – Consigliere

Dott.ssa CIRIELLO Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2164/2021 r.g., proposto da:

Latte Carso Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elett. dom.to in Via Tommaso Salvini n. 55, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Carlo Cester, Nicolò Fiorentin e Simonetta De Sanctis Mangelli.

– ricorrente – controricorrente incidentale –

contro

A.A., elett. dom.to in Via L. G. Faravelli n. 22, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Roberto Crasnich ed Enzo Morrico.

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Trieste n. 109/2020 pubblicata in data 12/11/2020, n.r.g. 207/2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 03/12/2024 dal Consigliere dott. Francescopaolo Panariello.

Svolgimento del processo

  1. – A.A. era stato dipendente di Latterie Carsiche Spa dal 04/12/2012, poi di Latte Carso Srl (affittuaria di azienda dal 28/02/2017), con mansioni di impiegato tecnico di I livello, responsabile delle tecnologie.

Deduceva che nell’anno 2017 la società aveva comunicato l’esistenza di vari esuberi, cui aveva fatto seguito una fase di trattativa con le parti sociali, culminato con il licenziamento collettivo di alcuni dipendenti, fra cui lui, licenziato con nota del 16/02/2018 giustificata dall’asserita soppressione della funzione cui era addetto.

Adiva il Tribunale di Gorizia con impugnazione del licenziamento secondo il rito c.d. Fornero, deducendo molteplici profili di illegittimità e/o nullità del recesso datoriale, in quanto discriminatorio, ritorsivo e comunque fondato su una giustificazione inesistente.

  1. – Costituitosi il contraddittorio, espletata prova testimoniale, all’esito della fase a cognizione sommaria il Tribunale accoglieva la domanda per violazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare, ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e condannava la società a pagarle l’indennità risarcitoria in misura non superiore a dodici mensilità.
  2. – Proposta opposizione dalla società, istruita la causa con ordine di esibizione ed acquisizioni documentali, il Tribunale confermava l’ordinanza e rigettava l’opposizione.
  3. – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello rigettava il reclamo proposto dalla società.

Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

  1. a) non vi sono elementi istruttori che avvalorino la tesi aziendale della soppressione della funzione svolta dal dipendente;
  2. b) le conseguenze della violazione dei criteri di scelta sono dettate dall’ 5, co. 3, L. n. 223/1991, da coordinare con l’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970;
  3. c) quanto all’accordo aziendale in deroga ex  8D.L. n. 138/2011, stipulato in data 14/02/2017, esso non rileva per vari motivi: risulta concluso non da Latte Carso Spa, bensì da Latterie Carsiche Spa; non contiene un chiaro riferimento alle finalità perseguite, come invece necessario; prevede un importo indennitario minimo e indifferenziato rispetto al momento del licenziamento; risulta comunque illogico ed incomprensibile l’impegno datoriale a non risolvere i rapporti di lavoro (salvo iniziativa dei lavoratori o il ricorso alla CIGS) e dall’altro lato la previsione dell’indennità proprio per i casi di licenziamento, che confliggono con quell’impegno a non risolvere il rapporto di lavoro assunto dalla società.
  4. – Avverso tale sentenza Latte Carso Spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo.
  5. – A.A. ha resistito con controricorso ed a sua volta ha proposto ricorso incidentale condizionato, senza motivi.
  6. – Latte Carso Spa ha resistito al ricorso incidentale condizionato con controricorso.
  7. – Entrambe le parti hanno depositato memoria.
  8. – Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.

Motivi della decisione

  1. – Con l’unico motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e 4), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2112c.c., 8 D.L. n. 138/2011(conv. in L. n. 148/2011), 1362, 1363 e 1366 c.c., nonché la nullità della sentenza per totale assenza di motivazione, per avere la Corte territoriale negato rilevanza all’accordo sindacale in deroga stipulato in data 14/02/2017 ai sensi dell’art. 8 D.L. n. 138/2011.

Il motivo è fondato, anche alla luce di specifici precedenti di questa Corte relativi alla medesima vicenda (Cass. ord. n. 10213/2024Cass. ord. n. 10263/2024), dai quali non vi è motivo di discostarsi.

Sul piano oggettivo dei contenuti, in quell’accordo sindacale – come riportato dalle parti – era sì previsto l’impegno a non risolvere il rapporto di lavoro mediante licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma tale impegno era stato espressamente limitato nel tempo ad una durata di dodici mesi. Quindi non sussiste quella incompatibilità o illogicità ritenuta dalla Corte territoriale, anche perché poi il licenziamento è stato di tipo collettivo (e non per giustificato motivo oggettivo) ed è intervenuto dopo il periodo di dodici mesi. Pertanto, contrariamente all’assunto della Corte territoriale, effettivamente si è trattato di una vicenda collettiva che non sconfessa quell’impegno, anzi rispettato sul piano letterale (art. 1362 c.c.).

Sul piano dell’efficacia soggettiva, poi, come deduce e documenta l’odierna ricorrente, in data 15/02/2017 – in vista dell’imminente stipula del contratto di affitto dell’azienda – la società Latterie Carsiche Spa (poi cedente l’azienda) sottoscrisse verbali di conciliazione individuale in sede sindacale ex art. 411 c.p.c., nei quali ciascun lavoratore dichiarava di prendere atto che il rapporto di lavoro sarebbe proseguito e sarebbe stato disciplinato, fra l’altro, dal predetto accordo sindacale in deroga, che il lavoratore dichiarava di conoscere e di accettare.

Come ricorda ancora la ricorrente, in quell’accordo sindacale in deroga era stato anche previsto che, qualora fossero poi intervenuti un licenziamento (individuale o collettivo) illegittimo, l’indennità risarcitoria sarebbe stata corrisposta in una misura ivi prevista da un minimo di 500 ad un massimo di 1.500 Euro.

Su tutte queste clausole la Corte territoriale ha taciuto, limitandosi a sostenerne l’inapplicabilità in quanto contenute in un accordo non stipulato dalla società reclamante, argomento errato perché in violazione dell’art. 2112 c.c. Infatti, in virtù del trasferimento d’azienda (circostanza pacifica), il rapporto di lavoro è transitato alle dipendenze di Latte Carso Srl (ora Spa), ivi compresi sia gli effetti dell’accordo sindacale del 14/02/2017, sia i diritti e gli obblighi nascenti dall’accordo individuale del 15/02/2017, che a quell’accordo sindacale faceva espresso riferimento. Anche a questo riguardo fondata, infatti, è altresì la censura di violazione dell’art. 1362 c.c. ossia del criterio di interpretazione letterale, posto che nella conciliazione individuale del 15/02/2017 il lavoratore aveva espressamente dichiarato di “conoscere ed accettare” proprio quell’accordo sindacale in deroga.

Ne deriva che il predetto accordo sindacale è certamente invocabile dalla odierna ricorrente perché non si tratta di res inter alios: nella posizione contrattuale di uno dei contraenti (l’originaria datrice di lavoro, Latterie Carsiche Spa) è succeduta – in virtù del trasferimento d’azienda (art. 2112 c.c.) – la nuova datrice di lavoro (Latte Carso Srl poi Spa). Di tale accordo, dunque, la Corte territoriale dovrà tenere conto, atteso che in esso sono indicate le ragioni della sua stipula e vi è l’espressa previsione delle conseguenze indennitario-risarcitorie per eventuali licenziamenti illegittimi, ferma la reintegrazione. La sentenza impugnata va pertanto cassata e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, perché rivaluti la controversia alla luce dell’accoglimento del ricorso principale, nonché per la regolamentazione delle spese ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

  1. – Il ricorso incidentale condizionato è inammissibile, perché con esso il controricorrente, lungi dal censurare la sentenza di secondo grado, si limita ad eccepire l’inammissibilità del ricorso principale.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, affinché decida le conseguenze risarcitorie del licenziamento illegittimo alla luce dell’accoglimento del ricorso principale, nonché per la regolamentazione delle spese ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, D.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1-bis, D.P.R. cit., se dovuto.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data 3 dicembre 2024.

Depositata in Cancelleria il 29 gennaio 2025

CASSAZIONE: Malattia e calcolo del comporto, le novità della giurisprudenza.

Il comporto non è uguale per tutti. Un periodo di comporto determinato astrattamente può determinare discriminazione indiretta nei confronti del disabile.

La recente ordinanza n.24052 del 6.9.2024 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha ritenuto come gli ordinari termini di comporto di cui alla contrattazione collettiva non sempre appaiano in grado di garantire il lavoratore portatore di handicap nei confronti di un trattamento di discriminazione indiretta.

Nel caso di lavoratore portatore di handicap, non è sufficiente infatti una determinazione astratta dell’assenza per determinarne l’idoneità a risolvere automaticamente il rapporto di lavoro, ma è necessaria una valutazione soggettiva dell’inabilità con l’applicazione degli accorgimenti ragionevoli prescritti dalla direttiva  2000/78/CE e dall’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2006.

La pronuncia appare in linea con i recenti precedenti della Cassazione Corte secondo cui (Cass. n. 9095/2023), in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio e secondo cui (Cass. n. 14316/2024) la conoscenza dello stato di disabilità del lavoratore – o la possibilità di conoscerlo secondo l’ordinaria diligenza – da parte del datore di lavoro fa sorgere l’onere datoriale – a cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore – di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l’eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità, al fine di individuare possibili accorgimenti ragionevoli imposti dall’art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, la cui adozione presuppone l’interlocuzione ed il confronto tra le parti.

Ciò in pratica significa che nel valutare o fissare il periodo di assenza atto a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro, si renderà necessario considerare la situazione di handicap e la sua idoneità a complicare la guarigione anche in relazione alla possibilità o meno di adottare degli accomodamenti ragionevoli.

Fabio Petracci

 

Autista di linea urbana, sussiste la giusta causa di licenziamento grave a seguito di condanna per reati in ambito familiare

Corte di Cassazione Sezione Lavoro sentenza n.31866 depositata 11 dicembre 2024.

Condotta extra lavorativa del dipendente – rilievo ai fini del licenziamento – rilievo sugli oneri accessori alla prestazione – sussiste ove la condotta del lavoratore appaia idonea a ledere la fiduciarietà del rapporto in relazione a condotte ed aspettative connesse alla prestazione.

Un autista di linea urbana di Milano era condannato a due anni e sei mesi di reclusione per reati (di violenza sessuale, maltrattamenti familiari e lesioni personali).

L’azienda datrice di lavoro ne provvedeva al licenziamento motivando come l’autore di simili reati, quale conducente di autobus, potesse ritenersi a rischio di mancanza di autocontrollo e rispetto nei confronti degli utenti.

Il Tribunale di Milano e successivamente la Corte d’Appello riconoscevano la legittimità del licenziamento.

La Suprema Corte quale giudice di ultima istanza.

Ha ritenuto la Cassazione in linea di principio come  la condotta illecita extralavorativa sia suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva (Cass. n. 267 del 2024n. 28368 del 2021n. 16268 del 2015).

Quindi, ne ha dedotto la Corte come sia certamente sussumibile nella nozione legale di giusta causa di licenziamento una condotta extralavorativa, avente rilievo penale e sfociata in una sentenza irrevocabile di condanna, caratterizzata, sia pure nell’ambito di rapporti interpersonali o familiari, dal mancato rispetto della altrui dignità e da forme di violenza e sopraffazione fisica e psichica, non sporadiche, bensì abituali, specie ove le mansioni del lavoratore, incaricato di pubblico servizio come il conducente di autobus, comportino costante contatto col pubblico ed esigano rigoroso rispetto verso gli utenti e capacità di autocontrollo.

Fabio Petracci

Pubblico Impiego: da quando decorre il termine di 40 giorni per la contestazione disciplinare?

Attualmente, a seguito del DLGS 75/2017 (riforma Madia), il termine per la contestazione di cui all’articolo 55 bis,  è stato ridotto a 30 giorni ed è previsto che L’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, con immediatezza e comunque non oltre trenta giorni decorrenti dal ricevimento della predetta segnalazione, ovvero dal momento in cui abbia altrimenti avuto piena conoscenza dei fatti ritenuti di rilevanza disciplinare, provvede alla contestazione scritta dell’addebito e convoca l’interessato, con un preavviso di almeno venti giorni, per l’audizione in contraddittorio a sua difesa.

In precedenza e quindi prima della novella attuata con il DLGS 75/2017 lo stesso articolo al comma 2 prevedeva che il responsabile, con qualifica dirigenziale, della struttura in cui il dipendente lavora, anche in posizione di comando o di fuori ruolo, quando ha notizia di comportamenti punibili con taluna delle sanzioni disciplinari di cui al comma 1, primo periodo, senza indugio e comunque non oltre venti giorni contesta per iscritto l’addebito al dipendente medesimo e lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, con l’eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell’associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato, con un preavviso di almeno dieci giorni.

E’ ora previsto pure che, il dipendente ha diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento. L’ufficio competente per i procedimenti disciplinari conclude il procedimento, con l’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro centoventi giorni dalla contestazione dell’addebito.

In precedenza, rispetto all’entrata in vigore del DLGS 275/2017 tutti i termini sopra indicati dovevano essere rispettati a pena di decadenza.

Attualmente dopo l’entrata in vigore della suddetta normativa (DLGS 275/2017) le ipotesi di decadenza sono state attenuate e l’articolo 55 bis al comma 9 ter così prevede:

La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento

Quindi, allo stato, gli unici termini perentori, stabiliti a pena di decadenza, sono quello per la contestazione dell’addebito e per la conclusione del procedimento.

In tema di definizione della decorrenza del termine perentorio per la contestazione dell’addebito, la Cassazione con ordinanza n.33394 del 30 novembre 2023 ha precisato che ” ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la contestazione dell’addebito dall’art 55 bis, comma 4, d.lgs. n. 165/2001, assume rilievo esclusivamente il momento in cui l’ufficio competente abbia acquisito una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio del procedimento mediante la contestazione, la quale può essere ritenuta tardiva solo se l’Amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere, sicché il suddetto termine non può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati preliminari per circostanziare l’addebito”. La Corte di Cassazione ha anche precisato che nel caso in cui il dipendente sia destinatario di più addebiti per fatti che singolarmente valutati non siano idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, il termine per la conclusione del procedimento disciplinare deve considerarsi rispettato se il dies a quo decorre dal momento in cui la condotta complessivamente addebitata può considerarsi definita e dunque la condotta assume connotati tali da integrare l’infrazione disciplinare oggetto del procedimento(Cass. 4 maggio 2021 n. 11635).

Fabio Petracci

Cooperative e Licenziamenti. Le novità della legge Cartabia.

Dal 1 marzo 2023, il Giudice del Lavoro è competente a giudicare il licenziamento del socio lavoratore di cooperativa ed è altresì competente a decidere le questioni relative al rapporto associativo.

E’ così stato introdotto l’articolo 441 ter CPC che ora così stabilisce:

Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative sono assoggettate alle norme di cui agli articoli 409 e seguenti e, in tali casi, il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo.

Ciò significa che nel caso di licenziamento di socio lavoratore dipendente da cooperativa, unico giudice competente sarà il Tribunale del lavoro e ciò anche qualora oggetto del giudizio sul licenziamento, sia il rapporto associativo che prima era di esclusiva competenza del Giudice ordinario.

Prosegue così il processo di attrazione della normativa in tema di lavoro nelle cooperative a quella del lavoro subordinato nell’impresa che ha attraversato diversi momenti e fasi.

Inizialmente il rapporto di lavoro nell’ambito delle cooperative era considerato principalmente un semplice rapporto associativo cui comunque si applicavano taluni istituti del diritto del lavoro come il regime previdenziale previsto dal RD 1424/1924 e la disciplina in tema di orario di lavoro (RDL n.692/1923).

Fu solo con la sentenza n.10906 del 30.10.1998 che le Sezioni Unite della Corte di cassazione, ferma la natura associativa del rapporto cooperativo cui si applicavano le regole dello statuto e del contratto associativo, avevano stabilito la competenza del Giudice del Lavoro a giudicare di tale rapporto in quanto l’articolo 409 n.3 del codice di procedura civile aveva esteso la competenza del Giudice del lavoro anche a fattispecie diverse dal lavoro subordinato.

Più tardi, era promulgata la legge n.142 / 2001 che suddivideva i soci di cooperativa a seconda del contratto di lavoro che le cooperative erano tenute a stipulare a margine del contratto di adesione alla cooperativa, in soci lavoratori autonomi, lavoratori parasubordinati, lavoratori dipendenti.

Il successivo articolo 5 della medesima disposizione di legge stabiliva quindi che:

“Le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell’articolo 1 rientrano nella competenza funzionale del giudice del lavoro; per il procedimento, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile.”

La stessa norma poi però precisava che restavano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo.

In sostanza, tutte le questioni inerenti il rapporto di lavoro instaurato erano di competenza del Giudice del Lavoro, tranne le questioni societarie che restavano di competenza del giudice ordinario.

Era inoltre previsto, in tema di licenziamento che l’applicazione dell’articolo 18 della legge 300/70 ( quindi reintegra o risarcimento ) non avveniva allorquando fosse cessato con il rapporto di lavoro anche il rapporto associativo.

In quest’ultimo caso, di fronte ad un licenziamento illegittimo, se la cooperativa anche superava il limite di dipendenti previso dall’articolo 18, in presenza della legittima cessazione del rapporto associativo, era applicata la sola tutela risarcitoria prevista per le aziende o cooperative inferiori ai 15 dipendenti.

Con la legge 30/2023 era invece affermata nuovamente la natura associativa del rapporto di lavoro in cooperativa e tornava quindi il dubbio che anche il rapporto di lavoro dei soci dovesse passare alla competenza dell’allora costituito tribunale delle imprese.

L’attuale e più recente innovazione è contenuta nella Legge Cartabia che introdotto nel codice civile l’articolo 441 ter che ha stabilito la competenza del Giudice del Lavoro per i licenziamenti nell’ambito delle cooperative anche quando sia in discussione la risoluzione del rapporto societario.

Ciò significa che nel caso di licenziamento del lavoratore di cooperativa e contestuale risoluzione del rapporto associativo, il Giudice del Lavoro potrà conoscere di entrambe le questioni.

Va tenuto presente che la risoluzione del rapporto associativo andrà impugnata nel termine di 60 giorni come pure l’avvenuto licenziamento.

Qualora la risoluzione del rapporto societario non sia più possibile, il Tribunale del Lavoro potrà conoscere esclusivamente del licenziamento ed in caso di illegittimità di quest’ultimo, il lavoratore non potrà in nessun caso chiedere la reintegra, ma esclusivamente un risarcimento nei limiti stabiliti per le aziende con meno di 15 dipendenti.

CASSAZIONE – Licenziamento illegittimo se le contestazioni sono tratte dal telepass in uso al dipendente.

Illegittimo il licenziamento, se le contestazioni sono tratte dal telepass in uso al dipendente e se manca la previa informativa circa il possibile uso disciplinare dell’apparato ed il giustificato sospetto circa la commissione di illeciti.

Cassazione Sezione Lavoro 3.6.2024 n.15391

Il datore di lavoro non può procedere ad irrogare un licenziamento disciplinare sulla base delle mere risultanze del telepass, senza allegare prima e provare le circostanze che lo hanno spinto ad attivare il controllo mediante l’apparato tecnologico in dotazione al proprio dipendente.

Il telepass apposto sull’autovettura aziendale deve considerarsi un controllo tecnologico finalizzato alla tutela dei beni aziendali e solo a seguito di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, possono dar luogo a controlli disciplinari.

Quindi, la legittimità dei controlli ed. difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più dipendenti, ed è stato, quindi, specificato che spetta al datore di lavoro l’onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l’hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post, sia perché solo il predetto sospetto consente l’azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell’art. 4 st. lav., sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex art. 5 L. n. 604 del 1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento (Cass., sez. lav., 26.6.2023, n. 18168).

Ritiene quindi la Cassazione come la società non abbia fornito la prova di aver rispettato gli adempimenti indicati” all’articolo 4 della legge 300/70 , non avendo fornito nella corrispondenza e nell’informativa intercorsa con il dipendente alcun  riferimento al telepass sistemato sull’autovettura in dotazione al A.A.

Appare quindi chiaro come l’azienda non abbia rispettato la disposizione di cui all’art. 4, comma 3, L. n. 300/1970, facendone discendere l’inutilizzabilità dei dati attinti attraverso tale apparecchio che consegue al non aver assolto l’obbligo di adeguata informazione del lavoratore ivi sancito.

Ne deriva che i dati provenienti da apparecchiature telefoniche in dotazione al lavoratore non possono essere utilizzati per un controllo generico della protezione.

Il loro utilizzo principale è finalizzato alla protezione del patrimonio aziendale.

Il controllo di natura disciplinare può scattare esclusivamente previa informativa di tale eventualità ed a fronte di giustificato e dimostrabile sospetto circa la commissione di illeciti.

Utilizzo improprio dei permessi di cui alla legge 104/92 e licenziamento

L’utilizzo improprio dei permessi di cui alla legge 104/92 può giustificare il licenziamento del lavoratore.

È legittimo l’utilizzo dell’opera di un’agenzia investigativa qualora finalizzato a confermare i sospetti di un uso fraudolento dei permessi. Conferma questo orientamento una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 12/03/2024, n. 6468).

Cosa accade e cosa può fare il datore di lavoro di fronte ad un utilizzo dei permessi di cui alla legge 104/92 non coerente con le finalità della legge?

La fattispecie.

L’articolo 33 della legge 104/1992 comma 3 e 3 bis così stabilisce:

  1.   Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno, rispetto alla quale il lavoratore sia coniuge, parte di un’unione civile ai sensi dell’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge, parente o affine entro il secondo grado. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un’unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità. Fermo restando il limite complessivo di tre giorni, per l’assistenza allo stesso individuo con disabilità in situazione di gravità, il diritto può essere riconosciuto, su richiesta, a più soggetti tra quelli sopra elencati, che possono fruirne in via alternativa tra loro. Il lavoratore ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone con disabilità in situazione di gravità, a condizione che si tratti del coniuge o della parte di un’unione civile di cui all’articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, o del convivente di fatto ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della medesima legge o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.

3-bis.    Il lavoratore che usufruisce dei permessi di cui al comma 3 per assistere persona in situazione di handicap grave, residente in comune situato a distanza stradale superiore a 150 chilometri rispetto a quello di residenza del lavoratore, attesta con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell’assistito”.

Quindi la legge 104/92 impone al datore di lavoro un sacrificio ed un limite alla propria attività ed alla naturale corrispettività del rapporto di lavoro, sacrificio finalizzato a ragioni di solidarietà sociale a favore del lavoratore chiamato ad assistere un proprio familiare gravemente invalido.

In sostanza, l’assenza dal lavoro e la mancata prestazione trovano ragione e giustificazione in base alla stretta attinenza con tale finalità.

Al di fuori di tali limiti, si concretizza una condotta del lavoratore idonea a determinate condizioni di gravità a giustificare il licenziamento.

L’ipotesi disciplinare.

L’orientamento della Corte di Cassazione e dei giudici di merito è quello di ravvisare l’ipotesi disciplinare del licenziamento, ogniqualvolta non sussista uno stretto nesso causale tra l’attività svolta dal lavoratore nel corso del permesso e le necessità dell’assistito.

Ciò significa in primo luogo che non sussiste il nesso causale allorquando il lavoratore utilizzi il permesso per riposarsi dall’attività di assistenza prestata. Non è pertanto consentito un riposo che potrebbe definirsi “compensativo” dell’assistenza prestata in altri momenti, Non sussiste inoltre in tutti i casi in cui il lavoratore utilizzi il tempo concessogli per finalità che alcuna attinenza hanno con l’opera di assistenza.

Sussiste invece, il nesso e la giustificazione laddove il dipendente risulti assente per effettuare compere o commissioni per conto dell’assistito.

Non sussiste l’ipotesi disciplinare allorquando il lavoratore si sia momentaneamente assentato per una necessità urgente ed imprevista.

L’ipotesi di utilizzo fraudolento dei permessi qualora grave per durata o intenzionalità o reiterazione, giustifica il licenziamento per giusta causa.

Minimi discostamenti tra tempo di assistenza e durata del permesso ove contenuti e non reiterati possono dar luogo a sanzioni disciplinari minori.

Si fa presente che anche la mancata comunicazione dell’avvenuto ricovero dell’assistito che in base all’articolo 33 fa venir meno il diritto all’assistenza può costituire mancanza disciplinare che nei casi più gravi può dar luogo anche al licenziamento.

Come procedere.

L’accertamento.

L’onere di provare l’utilizzo improprio dei permessi grava sul datore di lavoro.

Normalmente gli accertamenti è consigliabile siano affidati ad una agenzia investigativa.

Sul punto meritano attenzione alcune cautele.

Se l’agenzia investigativa non può verificare e controllare l’effettuazione della prestazione del dipendente, essa può invece indagare condotte truffaldine che arrechino pregiudizio all’azienda.

Quindi ben potrà l’agenzia investigativa verificare la presenza e l’attività del lavoratore in permesso per fornire l’assistenza di cui alla legge 104/92.

Si ritiene però da molte parti che l’attività investigativa sia comunque soggetta alla disciplina in materia di trattamento dei dati e quindi, secondo quanto disposto dall’articolo 4 n.1 e 2 del Regolamento 679/2016 – GDPR, l’investigatore potrà agire solo sulla base di concreti sospetti.

Si consiglia pertanto di dare atto di un tanto nella lettera con la quale viene conferito l’incarico all’agenzia investigativa sulla base di rilevati e concreti sospetti.

Alla fine della propria attività, l’investigatore dovrà redigere una relazione con i nominativi degli accertatori che potranno essere indicati in qualità di testi nell’eventuale procedimento di impugnazione del licenziamento.

La contestazione.

La procedura disciplinare di licenziamento è imperniata sulla lettera di contestazione che in apertura del procedimento deve essere inviata all’incolpato.

Si ricorda che per la validità del procedimento, la contestazione di addebito deve individuare in maniera chiara e specifica il fatto in merito al quale il lavoratore è chiamato a discolparsi.

Quindi dovranno essere indicate le giornate e l’ora di assenza dagli incombenti di cui alla legge 104/92 e preferibilmente anche le attività svolte in luogo della dovuta assistenza.

Molta attenzione dovrà essere posta alle giustificazioni poste dal lavoratore per verificare se siano idonee o meno a smentire l’esito degli accertamenti svolti.

Fabio Petracci