Il valore del pasto può considerarsi parte della retribuzione?

Sul tema vi sono due indirizzi apparentemente contraddittori.

Il decreto legge 11.7.1992 n.333 all’articolo 6 stabilisce come l’erogazione del servizio di mensa nell’ambito di un rapporto di lavoro costituisce retribuzione in natura.

Nel contempo stabilisce pure come il valore economico di detto servizio ed anche l’eventuale indennità sostitutiva non sono considerati far parte della retribuzione ai fini degli istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato, e ciò a meno che le disposizioni della contrattazione collettiva non stabiliscano diversamente.

La norma fa salvi in ogni caso i diritti stabiliti da accordi e contratti collettivi anche se stipulati prima della decorrenza della norma di legge.

La stessa disposizione di legge conferma le normative esistenti concernenti la base imponibile comprensiva del servizio di mensa ai fini dei contributi previdenziali.

La legge appena citata introduce inoltre una modifica all’articolo 11 dello statuto dei lavoratori, aggiungendovi un ulteriore comma che stabilisce in capo alle RSA aziendali il diritto di controllare la qualità del servizio di mensa secondo modalità stabilite dalla contrattazione collettiva.

La giurisprudenza di legittimità che ha fatto seguito (Sezione Lavoro n.31720 del 10.12.2024 ) ha confermato tali disposizioni in tema di computo dell’indennità di mensa negli istituti contrattuali.

Con l’ordinanza 27 settembre 2024 n.25840 invece, la Cassazione confermando la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Napoli stabilendo come il ticket mensa doveva considerarsi a pieno titolo una componente della retribuzione e che quindi nel corso delle ferie il dipendente avrebbe dovuto percepire la retribuzione comprensiva del valore del pasto, per evitare che il lavoratore possa essere dissuaso dal godere delle ferie per evitare una penalizzazione economica.

In tal senso, la decisione richiamava la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE 20 gennaio 2009 C-350/06 e C-520/06).

Quest’ultima sentenza non si pone in contraddizione con il disposto di cui al già menzionato articolo 6 del decreto legge 11.7.1992 n.333.

Infatti, la norma appena menzionata ribadisce la natura retributiva del pasto erogato al dipendente con l’eccezione che il costo del medesimo non va computato nei diversi istituti contrattuali, eccezion fatta per il godimento delle ferie che rientra invece nell’ambito della tutela sancita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Fabio Petracci

E’ lecita la registrazione della conversazione con il datore di lavoro con finalità di tutela dei diritti del lavoratore

Corte di Cassazione – sez. I civ.- ordinanza n. 24797 del 16-09-2024.

La Corte di Cassazione anche nella vigenza dell’attuale GDPR ha ritenuto come la registrazione di conversazione ai fini della tutela in eventuale giudizio (procedimento di lavoro) dei propri diritti debba considerarsi lecito in forza del bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e altri diritti fondamentali dell’individuo.

Così espone la Cassazione nel corso della motivazione:

“Occorre tenere presente, in particolare, quanto esposto nel considerando 4 del regolamento UE, laddove si legge che “Il trattamento dei dati personali dovrebbe essere al servizio dell’uomo. Il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità”.

Ancora, il considerando 47 precisa che “i legittimi interessi di un titolare del trattamento, compresi quelli di un titolare del trattamento a cui i dati personali possono essere comunicati, o di terzi possono costituire una base giuridica del trattamento, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato, tenuto conto delle ragionevoli aspettative nutrite dall’interessato in base alla sua relazione con il titolare del trattamento”.

Altresì deve tenersi presente il considerando 20 il quale così si esprime: “Non è opportuno che rientri nella competenza delle autorità di controllo il trattamento di dati personali effettuato dalle autorità giurisdizionali nell’adempimento delle loro funzioni giurisdizionali, al fine di salvaguardare l’indipendenza della magistratura nell’adempimento dei suoi compiti giurisdizionali, compreso il processo decisionale”.

5.2.- Deve quindi osservarsi che difendersi in giudizio, specie ove la controversia attenga a diritti della persona strettamente connessi alla dignità umana -e quindi i diritti dei lavoratori, secondo quanto dispone l’art. 36 Cost.- è un diritto fondamentale e che nella relazione tra il datore di lavoro e i dipendenti si creano legittime aspettative e tra queste quella delle reciproca lealtà e del rispetto dei diritti del dipendente. Gli artt. 17 e 21 del GDPR rendono palese che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio può essere ritenuto prevalente sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali. In particolare l’art. 17 comma 3 lettera e) del regolamento dispone che i paragrafi 1 e 2 (diritto alla cancellazione) non si applicano nella misura in cui il trattamento sia necessario per l’accertamento l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria e l’art. 21 (diritto di opposizione) consente al titolare del trattamento di dimostrare “l’esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento che prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell’interessato oppure per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”.

Più specificamente la Corte di giustizia UE con sentenza del 2 marzo 2023, (C-268/21 – Norra Stockholm Bygg AB contro Per Nycander AB) ha chiarito che qualora dati personali di terzi vengano utilizzati in un giudizio è il giudice nazionale che deve ponderare, con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità, gli interessi in gioco e che “tale valutazione può, se del caso, indurlo ad autorizzare la divulgazione completa o parziale alla controparte dei dati personali che gli sono stati così comunicati, qualora ritenga che una siffatta divulgazione non ecceda quanto necessario al fine di garantire l’effettivo godimento dei diritti che i soggetti dell’ordinamento traggono dall’articolo 47 della Carta” (par. 58).

In termini, anche la giurisprudenza nazionale è consolidata nel ritenere che l’uso di dati personali non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso del titolare quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa (Cass. n. 9314 del 04/04/2023Cass. s.u. n. 3034 del 08/02/2011) Si è così affermato che il trattamento dei dati personali in ambito giudiziario, anche nel vigore della disciplina di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta, non siano utilizzati per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne è avvenuta l’acquisizione e sussista il provvedimento autorizzatorio (Cass. n. 1263 del 17/01/2022 ; v. Cass. n. 39531 del 13/12/2021).

Inoltre, questa Corte ha ritenuto che anche nella vigenza del GPR vadano confermati i consolidati principi in ordine alla legittimità del trattamento di dati personali senza il consenso dell’interessato, purché effettuato nel rispetto del criterio della “minimizzazione” ove sia indispensabile per la tutela di interessi vitali della persona che li divulga o della sua famiglia (Cass. n. 9922 del 28/03/2022).”

Assenza ingiustificata e dimissioni del lavoratore

Il collegato lavoro Legge 13 dicembre 2024 n.203 mediante l’articolo 29 ha modificato l’articolo 26 del DLGS 151/2001 – collegato lavoro.

Il nuovo articolo 26 del DLGS 151/2001 con il comma 7 bis ha stabilito che “ in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre i termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato o in mancanza di previsione contrattuale nel caso di assenza superiore a 15 giorni, si ritiene lo stesso dimissionario.

Perché ciò avvenga, il datore di lavoro ne deve dare comunicazione all’ispettorato nazionale del lavoro che procederà alle opportune verifiche.

La dimostrazione da parte del datore di lavoro dell’impossibilità o della forza maggiore nel comunicare all’assenza o di fatto imputabile al datore di lavoro, fa venir meno l’effetto delle dimissioni.

In tal caso, il lavoratore, essendo ritenuto dimissionario, perde il diritto alla NASPI che spetta soltanto a chi è stato licenziato, a chi si sia dimesso per giusta causa e a chi abbia accettato l’offerta di conciliazione in sede di licenziamento.

Spetta la NASPI anche in caso di trasferimento a distanza superiore a 50 chilometri o con destinazione raggiungibile con i mezzi pubblici nel termine di 80 minuti o superiore ad esso.

Resta per il datore di lavoro la possibilità di contestare disciplinarmente l’assenza procedendo nei termini ordinari (nota INL n.579/2025).

Lo stesso Ispettorato del Lavoro ha messo a disposizione dei datori di lavoro un apposito modulo di comunicazione.

Nel caso di termine contrattuale concernente la durata dell’assenza deve farsi riferimento al solo contratto nazionale con esclusione dei contratti territoriali i aziendali.

L’effetto risolutivo del rapporto deve considerarsi a far tempo dalla comunicazione all’Ispettorato del Lavoro.

Allorquando si verifichino le dimissioni con questa causale. Il datore di lavoro non sarà tenuto al pagamento del contributo NASPI.

Ci si chiede cosa accada nel caso in cui l’Ispettorato del Lavoro, una volta ricevuta la comunicazione del datore di lavoro, ritenga l’inefficacia delle dimissioni per fatti concludenti?

Qualora si dovesse ritenere l’inefficacia della procedura, potrebbe propendersi per la prosecuzione del rapporto di lavoro con possibilità per il datore di lavoro di contestare l’assenza ingiustificata al dipendente.

La posizione del lavoratore con l’accertamento ispettivo a lui favorevole potrà essere oggetto di contenzioso.

Del resto, anche il datore di lavoro potrà impugnare il provvedimento dell’Ispettorato del Lavoro.

Fabio Petracci

CASSAZIONE – L’infermiere professionale è tenuto a svolgere compiti tipici degli Operatori Socio Sanitari?

Un’interessante sentenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione n.7683/2025 interviene a fare chiarezza in tema di mansioni del personale infermieristico ed anche alle mansioni accessorie che possono essere richieste a questa tipologia di professione e che normalmente appartengono alla categoria degli Operatori Socio Assistenziali O.S.S.

A seguito di numerose anche recenti innovazioni normative, si è assistito ad una valorizzazione delle mansioni del personale infermieristico al quale ora si richiede il possesso almeno di una laurea breve e lo svolgimento di compiti di assistenza medica, cui si contrappongono gli Operatori Socio Sanitari cui sono affidate mansioni di carattere assistenziale – esecutivo.

La sentenza è originata da alcune controversie mosse in primo grado da infermieri professionali cui erano richieste con una certa continuità mansioni inferiori ascrivibili alla declaratoria contrattuale degli Operatori Socio Assistenziali.

Le istanze degli infermieri erano state respinte tanto in primo grado che in appello sul presupposto che pur sussistendo l’affidamento di mansioni inferiori, esse dovevano considerarsi complementari e saltuarie rispetto a quelle attribuite di infermiere professionali e comunque connesse ad una difficile situazione organizzativa aziendale

La Corte di Cassazione con il cennato giudizio rovescia queste impostazioni.

Si è infatti ritenuto da parte della Suprema Corte che le motivate esigenze aziendali devono avere carattere temporaneo, sicché l’utilizzo di fatto costante secondo un turno programmato di un lavoratore o di una lavoratrice in mansioni inferiori, neanche complementari a quelle del profilo rivestito, sia pure in maniera non particolarmente ricorrente in termini di ore adibite alla mansione inferiore, ma finalizzato di fatto alla copertura di posizioni lavorative non presenti nell’organico aziendale, non può ritenersi rispettoso del principio di tutela della professionalità di cui all’articolo 2103 cod. civ. mancando proprio quelle motivate esigenze aziendali, anche connotate da temporaneità o da altrettante obiettive ragioni contingenti, che legittimano l’utilizzo del dipendente in mansioni non corrispondenti al livello o alla qualifica rivestita.

Ha ritenuto la Corte che tali principi, enunciati in materia di impiego privato, sono stati ritenuti estensibili al lavoro pubblico contrattualizzato (v. Cass. n. 17774/2006); si è in particolare affermata l’esigibilità di attività corrispondenti a mansioni inferiori, da parte del datore di lavoro pubblico, solo quando le stesse abbiano carattere marginale e rispondano ad esigenze organizzative di efficienza e di economia del lavoro, ovvero di sicurezza.

Nel caso di specie, il contenuto delle mansioni attribuite all’infermiere professionale è stabilito dal contratto collettivo nell’ambito della categoria – D – che fa quindi riferimento al profilo contenuto nel DM 739/1994 con il quale si richiede per l’accesso mediante diploma universitario.

Il decreto ministeriale fa riferimento a  compiti sono quelli di assistenza preventiva, curativa, palliativa, riabilitativa e di partecipazione all’identificazione dei bisogni e degli obiettivi nonché di garante della corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico terapeutiche.

Trattasi di compiti che si affiancano seppure in maniera complementare a quelli del personale medico.

Viceversa, il medesimo contratto collettivo nella categoria BS inquadra il personale definito come Operatore Socio Assistenziale definito come il soggetto che su indicazione dei preposti porge assistenza diretta, supporto e gestione di ambiente e di vita, intervento igienico sanitario a carattere sociale, supporto gestionale, organizzativo, formativo.

Esso viene identificato come il personale che su indicazione dei preposti porge assistenza diretta, supporto e gestione ambiente vita, intervento igienico sanitario a carattere sociale, supporto gestionale, organizzativo, formativo. L’accesso a quest’ambito professionale avviene tramite un corso di formazione a base regionale.

Non vi è dubbio come significativo sia lo stacco sia lo stacco tra le due tipologie di mansioni.

La prima appare come appendice dell’attività medico – curativa.

La seconda come esplicazione delle cure materiali connesse all’ospedalizzazione.

Appare quindi difficile individuare una complementarietà e contiguità tra le due attribuzione e le considerazioni della Corte di Cassazione appaiono esatte.

avv. Fabio Petracci

Permessi legge 104 ed attività accessorie all’assistenza

Con l’ordinanza n. 1227/2025 la Suprema Corte si pronuncia sul caso di un dipendente licenziato per aver fruito dei permessi ex legge n. 104/1992 in 5 diverse giornate ed aver dedicato al beneficiario soltanto un’ora al giorno, impiegando tutto il resto della giornata in attività personali sulla base delle risultanze di apposita attività investigativa.

Il lavoratore valorizzava lo svolgimento nel corso della giornata di incombenze esterne come l’acquisto di medicinali e di altri generi di prima necessità e che comunque era rimasto presso l’abitazione del beneficiario anche dopo che l’attività investigativa era terminata.

La Suprema Corte precisa che ai fini dell’interpretazione dell’art. 33, co. 3, L. n. 104/1992 va evidenziato che la nozione di diritto al permesso per assistenza a familiare disabile (e quella correlativa di “uso distorto” o “abuso del diritto” al permesso) implica un profilo non soltanto quantitativo, bensì anche – e soprattutto – qualitativo.

Sotto il profilo quantitativo va tenuto conto non soltanto delle prestazioni di assistenza diretta alla persona disabile, ma anche di tutte le attività complementari ed accessorie, comunque necessarie per rendere l’assistenza fruttuosa ed utile, nel prevalente interesse del disabile.

In questo senso devono rilevare le attività (e i relativi tempi necessari) finalizzate ad esempio all’acquisto di medicinali, al conseguimento delle relative prescrizioni dal medico di famiglia, all’acquisto di generi alimentari e di altri prodotti per l’igiene, la cura della persona e il decoro della vita del disabile, o infine alla possibile partecipazione di quest’ultimo ad eventi di relazione sociale, sportiva, religiosa etc.

Sotto il profilo qualitativo vanno valutate portata e finalità dell’intervento assistenziale (da parte del dipendente) in favore del familiare disabile, tenuto conto del complessivo contesto, anche relazionale, rispetto ad eventuali strutture sanitarie, pubbliche o private, presso le quali sia necessario espletare accertamenti o effettuare ricoveri.

Dunque deve essere accertato se la condotta contestata in via disciplinare al lavoratore abbia comunque preservato le finalità primarie dell’intervento assistenziale voluto dal legislatore, perché in tal caso il fatto contestato in termini di “uso distorto” o di “abuso del diritto” si rivelerebbe insussistente.

Nell’ambito di questa imprescindibile verifica non sono sufficienti meri dati quantitativi, ma occorre compiere una valutazione complessiva, sia quantitativa che qualitativa, della condotta tenuta dal lavoratore, tenendo altresì conto del contesto in cui quella condotta è stata tenuta.

Ne consegue che il c.d. abuso del diritto potrà configurarsi soltanto quando l’assistenza al disabile sia mancata del tutto, oppure sia avvenuta per tempi così irrisori oppure con modalità talmente insignificanti, da far ritenere vanificate le finalità primarie dell’intervento assistenziale voluto dal legislatore, in vista delle quali viene sacrificato il diritto del datore di lavoro ad ottenere l’adempimento della prestazione lavorativa.

No all’utilizzo del whistleblowing per fini personali

La pronuncia n. 1880/2025 della Suprema Corte tratta del caso di un lavoratore che aveva inviato due esposti alla Procura della Repubblica, rappresentando uno scenario privo di fondamento e abusando del proprio ufficio al fine di ledere l’onorabilità professionale della dirigenza dell’Ente pubblico di appartenenza.

Per quanto di interesse, la difesa del dipendente invocava la disciplina in materia di whistleblowing, per cui il dipendente che abbia segnalato condotte illecite delle quali sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto al altra misura organizzativa avente effetti negativi diretti o indiretti sulle condizioni di lavoro, in ragione della segnalazione effettuata.

La Cassazione osserva che l’istituto del whistleblowing risponde ad una duplice ratio, consistente da un lato nel delineare un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnala illeciti e, dall’altro, nel favorire l’emersione, dall’interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo forme più incisive di contrasto alla corruzione.

Il dipendente virtuoso non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misure discriminatorie, dirette o indirette, aventi effetti sulle condizioni di lavoro, per motivi collegati alla segnalazione effettuata, che deve avere ad oggetto una condotta illecita, non necessariamente penalmente rilevante.

Nel corso del giudizio, veniva accertato un interesse personale del dipendente alla presentazione delle denunce, in quanto l’Ente aveva gestito un contenzioso in contrasto con le indicazioni che il lavoratore in qualità di responsabile del procedimento aveva fornito all’Amministrazione.

Si era rivelata, dunque, la presenza di un interesse personale che portava ad escludere l’applicazione del citato art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001.

Non si è in presenza di una segnalazione ex art. 54-bis, D.Lgs. 165 del 2001, scriminante, allorquando il segnalante agisca per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori (in tal senso vi è anche giurisprudenza amministrativa).

L’istituto del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori.

In materia, è stato chiarito inoltre che le segnalazioni whistleblowing non possono riguardare lamentele di carattere personale del segnalante o richieste che attengono alla disciplina del rapporto di lavoro o ai rapporti con superiori gerarchici o colleghi, disciplinate da altre procedure.

CASSAZIONE: Illegittimo il licenziamento di dipendente giustificato dalla soppressione della funzione cui era addetto.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 03/12/2024) 29/01/2025, n. 2054

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.ssa DORONZO Adriana – Presidente

Dott. PANARIELLO Francescopaolo – Consigliere rel.

Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi – Consigliere

Dott. MICHELINI Gualtiero – Consigliere

Dott.ssa CIRIELLO Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2164/2021 r.g., proposto da:

Latte Carso Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elett. dom.to in Via Tommaso Salvini n. 55, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Carlo Cester, Nicolò Fiorentin e Simonetta De Sanctis Mangelli.

– ricorrente – controricorrente incidentale –

contro

A.A., elett. dom.to in Via L. G. Faravelli n. 22, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Roberto Crasnich ed Enzo Morrico.

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Trieste n. 109/2020 pubblicata in data 12/11/2020, n.r.g. 207/2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 03/12/2024 dal Consigliere dott. Francescopaolo Panariello.

Svolgimento del processo

  1. – A.A. era stato dipendente di Latterie Carsiche Spa dal 04/12/2012, poi di Latte Carso Srl (affittuaria di azienda dal 28/02/2017), con mansioni di impiegato tecnico di I livello, responsabile delle tecnologie.

Deduceva che nell’anno 2017 la società aveva comunicato l’esistenza di vari esuberi, cui aveva fatto seguito una fase di trattativa con le parti sociali, culminato con il licenziamento collettivo di alcuni dipendenti, fra cui lui, licenziato con nota del 16/02/2018 giustificata dall’asserita soppressione della funzione cui era addetto.

Adiva il Tribunale di Gorizia con impugnazione del licenziamento secondo il rito c.d. Fornero, deducendo molteplici profili di illegittimità e/o nullità del recesso datoriale, in quanto discriminatorio, ritorsivo e comunque fondato su una giustificazione inesistente.

  1. – Costituitosi il contraddittorio, espletata prova testimoniale, all’esito della fase a cognizione sommaria il Tribunale accoglieva la domanda per violazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare, ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e condannava la società a pagarle l’indennità risarcitoria in misura non superiore a dodici mensilità.
  2. – Proposta opposizione dalla società, istruita la causa con ordine di esibizione ed acquisizioni documentali, il Tribunale confermava l’ordinanza e rigettava l’opposizione.
  3. – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello rigettava il reclamo proposto dalla società.

Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

  1. a) non vi sono elementi istruttori che avvalorino la tesi aziendale della soppressione della funzione svolta dal dipendente;
  2. b) le conseguenze della violazione dei criteri di scelta sono dettate dall’ 5, co. 3, L. n. 223/1991, da coordinare con l’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970;
  3. c) quanto all’accordo aziendale in deroga ex  8D.L. n. 138/2011, stipulato in data 14/02/2017, esso non rileva per vari motivi: risulta concluso non da Latte Carso Spa, bensì da Latterie Carsiche Spa; non contiene un chiaro riferimento alle finalità perseguite, come invece necessario; prevede un importo indennitario minimo e indifferenziato rispetto al momento del licenziamento; risulta comunque illogico ed incomprensibile l’impegno datoriale a non risolvere i rapporti di lavoro (salvo iniziativa dei lavoratori o il ricorso alla CIGS) e dall’altro lato la previsione dell’indennità proprio per i casi di licenziamento, che confliggono con quell’impegno a non risolvere il rapporto di lavoro assunto dalla società.
  4. – Avverso tale sentenza Latte Carso Spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo.
  5. – A.A. ha resistito con controricorso ed a sua volta ha proposto ricorso incidentale condizionato, senza motivi.
  6. – Latte Carso Spa ha resistito al ricorso incidentale condizionato con controricorso.
  7. – Entrambe le parti hanno depositato memoria.
  8. – Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.

Motivi della decisione

  1. – Con l’unico motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e 4), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2112c.c., 8 D.L. n. 138/2011(conv. in L. n. 148/2011), 1362, 1363 e 1366 c.c., nonché la nullità della sentenza per totale assenza di motivazione, per avere la Corte territoriale negato rilevanza all’accordo sindacale in deroga stipulato in data 14/02/2017 ai sensi dell’art. 8 D.L. n. 138/2011.

Il motivo è fondato, anche alla luce di specifici precedenti di questa Corte relativi alla medesima vicenda (Cass. ord. n. 10213/2024Cass. ord. n. 10263/2024), dai quali non vi è motivo di discostarsi.

Sul piano oggettivo dei contenuti, in quell’accordo sindacale – come riportato dalle parti – era sì previsto l’impegno a non risolvere il rapporto di lavoro mediante licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma tale impegno era stato espressamente limitato nel tempo ad una durata di dodici mesi. Quindi non sussiste quella incompatibilità o illogicità ritenuta dalla Corte territoriale, anche perché poi il licenziamento è stato di tipo collettivo (e non per giustificato motivo oggettivo) ed è intervenuto dopo il periodo di dodici mesi. Pertanto, contrariamente all’assunto della Corte territoriale, effettivamente si è trattato di una vicenda collettiva che non sconfessa quell’impegno, anzi rispettato sul piano letterale (art. 1362 c.c.).

Sul piano dell’efficacia soggettiva, poi, come deduce e documenta l’odierna ricorrente, in data 15/02/2017 – in vista dell’imminente stipula del contratto di affitto dell’azienda – la società Latterie Carsiche Spa (poi cedente l’azienda) sottoscrisse verbali di conciliazione individuale in sede sindacale ex art. 411 c.p.c., nei quali ciascun lavoratore dichiarava di prendere atto che il rapporto di lavoro sarebbe proseguito e sarebbe stato disciplinato, fra l’altro, dal predetto accordo sindacale in deroga, che il lavoratore dichiarava di conoscere e di accettare.

Come ricorda ancora la ricorrente, in quell’accordo sindacale in deroga era stato anche previsto che, qualora fossero poi intervenuti un licenziamento (individuale o collettivo) illegittimo, l’indennità risarcitoria sarebbe stata corrisposta in una misura ivi prevista da un minimo di 500 ad un massimo di 1.500 Euro.

Su tutte queste clausole la Corte territoriale ha taciuto, limitandosi a sostenerne l’inapplicabilità in quanto contenute in un accordo non stipulato dalla società reclamante, argomento errato perché in violazione dell’art. 2112 c.c. Infatti, in virtù del trasferimento d’azienda (circostanza pacifica), il rapporto di lavoro è transitato alle dipendenze di Latte Carso Srl (ora Spa), ivi compresi sia gli effetti dell’accordo sindacale del 14/02/2017, sia i diritti e gli obblighi nascenti dall’accordo individuale del 15/02/2017, che a quell’accordo sindacale faceva espresso riferimento. Anche a questo riguardo fondata, infatti, è altresì la censura di violazione dell’art. 1362 c.c. ossia del criterio di interpretazione letterale, posto che nella conciliazione individuale del 15/02/2017 il lavoratore aveva espressamente dichiarato di “conoscere ed accettare” proprio quell’accordo sindacale in deroga.

Ne deriva che il predetto accordo sindacale è certamente invocabile dalla odierna ricorrente perché non si tratta di res inter alios: nella posizione contrattuale di uno dei contraenti (l’originaria datrice di lavoro, Latterie Carsiche Spa) è succeduta – in virtù del trasferimento d’azienda (art. 2112 c.c.) – la nuova datrice di lavoro (Latte Carso Srl poi Spa). Di tale accordo, dunque, la Corte territoriale dovrà tenere conto, atteso che in esso sono indicate le ragioni della sua stipula e vi è l’espressa previsione delle conseguenze indennitario-risarcitorie per eventuali licenziamenti illegittimi, ferma la reintegrazione. La sentenza impugnata va pertanto cassata e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, perché rivaluti la controversia alla luce dell’accoglimento del ricorso principale, nonché per la regolamentazione delle spese ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

  1. – Il ricorso incidentale condizionato è inammissibile, perché con esso il controricorrente, lungi dal censurare la sentenza di secondo grado, si limita ad eccepire l’inammissibilità del ricorso principale.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, affinché decida le conseguenze risarcitorie del licenziamento illegittimo alla luce dell’accoglimento del ricorso principale, nonché per la regolamentazione delle spese ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, D.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1-bis, D.P.R. cit., se dovuto.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data 3 dicembre 2024.

Depositata in Cancelleria il 29 gennaio 2025

CASSAZIONE: Malattia e calcolo del comporto, le novità della giurisprudenza.

Il comporto non è uguale per tutti. Un periodo di comporto determinato astrattamente può determinare discriminazione indiretta nei confronti del disabile.

La recente ordinanza n.24052 del 6.9.2024 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha ritenuto come gli ordinari termini di comporto di cui alla contrattazione collettiva non sempre appaiano in grado di garantire il lavoratore portatore di handicap nei confronti di un trattamento di discriminazione indiretta.

Nel caso di lavoratore portatore di handicap, non è sufficiente infatti una determinazione astratta dell’assenza per determinarne l’idoneità a risolvere automaticamente il rapporto di lavoro, ma è necessaria una valutazione soggettiva dell’inabilità con l’applicazione degli accorgimenti ragionevoli prescritti dalla direttiva  2000/78/CE e dall’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2006.

La pronuncia appare in linea con i recenti precedenti della Cassazione Corte secondo cui (Cass. n. 9095/2023), in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio e secondo cui (Cass. n. 14316/2024) la conoscenza dello stato di disabilità del lavoratore – o la possibilità di conoscerlo secondo l’ordinaria diligenza – da parte del datore di lavoro fa sorgere l’onere datoriale – a cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore – di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l’eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità, al fine di individuare possibili accorgimenti ragionevoli imposti dall’art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, la cui adozione presuppone l’interlocuzione ed il confronto tra le parti.

Ciò in pratica significa che nel valutare o fissare il periodo di assenza atto a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro, si renderà necessario considerare la situazione di handicap e la sua idoneità a complicare la guarigione anche in relazione alla possibilità o meno di adottare degli accomodamenti ragionevoli.

Fabio Petracci

 

Prorogata al 2025 la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato superiori a 12 mesi.

Il DL n.202/2024 (Decreto Milleproroghe 2025 ) entrato in vigore il 28 dicembre 2024 contiene alcune disposizioni in tema di contratti a termine.

Il Decreto Lavoro convertito in legge n.85/2023 ha previsto che, in caso di rapporto a termine superiore nella durata a 12 mesi e non eccedente i 24 mesi, si doveva far riferimento ad una serie tassativa di causali così indicate:

  • le casistiche previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’art. 51 del D. lgs. n. 81/2015;
  • in assenza di previsioni da parte dei contratti collettivi di cui al punto precedente, per esigenze di natura tecnica organizzativa o produttiva, specificamente individuate dalle parti;
  • in sostituzione di lavoratori.

Ora il DL n.202/2024 ha prorogato ulteriormente tale scadenza portandola al 31 dicembre 2025.

A questo punto, con il Milleproroghe vi è la possibilità di procrastinare sino al 31 dicembre 2025 la possibilità per i datori di lavoro nel settore privato di stipulare contratti a tempo determinato di durata superiore a 12 mesi, ma comunque non eccedenti i 24 mesi, avvalendosi di clausole da apporsi al contratto individuale.

Pertanto, in assenza di causali stabilite dalla contrattazione collettiva per stipulare contratti superiori a 12 mesi, le parti individuali potranno ricorrere temporaneamente a clausole individuate con esigenze di natura tecnica, organizzativa, produttiva.

E’ inoltre introdotta la possibilità di stipulare contratti a termine superiori ai 12 mesi per la sostituzione di lavoratori assenti on diritto alla conservazione del posto.

Di seguito, il testo della disposizione in questione, articolo 14 comma 3, decreto legge 27 dicembre 2024, n. 202:

  1. All’articolo 19, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, riguardante la disciplina dei contratti di lavoro dipendente a tempo determinato nel settore privato, le parole: «31 dicembre 2024» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2025».

Corte Costituzionale – Competenze normative nella gestione del personale sanitario.

Corte Costituzionale n.202 del 17 dicembre 2024

Le competenze normative per le assunzioni spettano in via principale allo Stato e le Regioni non possono delegare integralmente la gestione dei concorsi ad aziende estere non mantenendo forma alcuna di collegamento.

Lo afferma la Corte Costituzionale con la sentenza n.202 del 17 dicembre 2024.

Secondo la Consulta, la materia del reclutamento del personale attiene alla “tutela della salute” e come tale, rientra nella disciplina delle competenze di cui all’articolo 117 terzo comma della Costituzione.

Ha inoltre rilevato la Corte come la legge 502/1992 assuma a tal fine un ruolo cruciale, stabilendo come le ASL non possano, contrariamente a quanto disposto dalla legge dello Stato (L.502/1992) spogliarsi dei compiti di gestione del personale, loro attribuiti dallo Stato nel rispetto dei principi costituzionali.

Fabio Petracci