Il dipendente che rinuncia alla pausa pranzo, ha diritto al controvalore pecuniario?

La Cassazione afferma che, stante la natura assistenziale e non retributiva dei buoni pasto, il diritto agli stessi viene meno qualora il dipendente rinunci a fruire della pausa pranzo. La Corte conferma così la statuizione della Corte d’Appello che aveva rigettato la domanda, di una dipendente ministeriale volta ad ottenere il pagamento del controvalore pecuniario dei buoni pasto non percepiti sul presupposto che, nell’arco temporale oggetto di causa, la ricorrente aveva volutamente rinunciato – con l’avallo della Amministrazione datrice alla pausa pranzo. La Cassazione afferma che il diritto alla fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, finalizzata ad alleviare, in mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa. Concetto questo contenuto anche nel CCNL applicabile al caso di specie, ove non risultano integrati gli estremi a cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione.

Per beneficiare dell’aspettativa sindacale è necessario essere iscritti al sindacato che la richiede?

Il parere dell’ARAN:

Le aspettative sindacali non retribuite sono disciplinate all’art. 15 del CCNQ del 4 dicembre 2017 ( contratto quadro prerogative sindacali) il quale, al comma 1, individua i requisiti soggettivi che permettono di poter accedere a tale prerogativa sindacale ovvero essere dipendenti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato ed essere dirigenti sindacali che ricoprono cariche in organismi direttivi statutari di associazioni sindacali rappresentative. Pertanto, la circostanza di essere iscritti o meno al sindacato non rileva ai fini della concessione della prerogativa purché il sindacato richiedente attesti – e a richiesta dimostri – che la persona per la quale l’aspettativa viene richiesta faccia parte dei propri organismi direttivi statutari.

Pubblico Impiego – Sindacale – Area Sanità – Un soggetto che non risulta essere dipendente dall’Azienda interessata può essere componente della delegazione trattante?

Ritiene l’ARAN che:

Il CCNL Area Sanità del 19 dicembre 2019, all’art. 7, comma 3, prevede che i soggetti sindacali titolari della contrattazione integrativa aziendale sono:

a) le RSA di cui all’art. 42, comma 2 del D. Lgs. n. 165/2001, fino a quando non sarà definita una disciplina contrattuale nazionale sulla rappresentanza sindacale dei dirigenti della presente area, in coerenza con la natura delle funzioni dirigenziali;

  1. b) i rappresentanti territoriali delle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del presente CCNL.”

Con riferimento ai soggetti di cui alla lett. a) si precisa che gli stessi devono necessariamente essere dipendenti dell’amministrazione mentre i soggetti di cui alla lett. b) possono anche essere estranei alla stessa.

Pertanto, questa Agenzia ritiene che, senza entrare nel merito delle innumerevoli tipologie di dirigenti sindacali individuate dai singoli Statuti delle organizzazioni sindacali, l’Azienda dovrebbe limitarsi a richiedere alla organizzazione sindacale interessata di precisare, rispetto al nominativo in questione, se la sua nomina, ai fini della composizione della delegazione trattante di parte sindacale, rientra tra quelle di cui alla lett. a) o alla lett. b) del citato art. 7, comma 3, tenendo appunto presente che solo i dipendenti dell’amministrazione possono essere ricompresi nella prima fattispecie.

La Corte dei Conti non invade il campo riservato alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione laddove intervenga su scelte non conformi ai canoni fondamentali della buona amministrazione.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 22811/2020 decide riguardo al presunto eccesso di potere giurisdizionale per violazione dei limiti imposti dalla legislazione al sindacato della Corte dei conti in merito alle scelte discrezionali dell’amministrazione. In particolare, la sentenza della corte dei conti aveva condannato una dipendente, colpevole di danno erariale, avendo affidato senza il pagamento dei canoni di concessione la gestione di spazi offerti in uso gratuito a un’associazione culturale per la realizzazione di spettacoli teatrali estivi.

Hanno affermato le sezioni unite che la discrezionalità amministrativa non può essere invocata al fine di escludere il sindacato della Corte dei conti, ove l’esercizio in concreto di tale discrezionalità si risolva in una condotta posta in violazione della disciplina normativa che, ai fini della valorizzazione del bene appartenente al patrimonio culturale, imponeva, per la concessione in uso di spazi del bene stesso, l’applicazione del canone. La Corte dei conti, perciò, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell’ente, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, ex art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Quindi il giudice contabile, al contrario, ha censurato la condotta consistente nella violazione delle norme di settore che imponevano la corresponsione del canone di concessione da parte dell’associazione, laddove l’utilizzazione degli spazi era stata consentita dall’amministrazione a titolo gratuito, senza che l’assegnazione fosse stata preceduta da una adeguata valutazione dei presupposti per la gratuità e senza tenere nel debito conto le criticità evidenziate da una nota dell’Ufficio tecnico; inoltre. Pertanto la Corte dei Conti ha addebitato alla Soprintendente la mancata rispondenza di tale assegnazione gratuita al fine della valorizzazione del bene appartenente al patrimonio culturale. Sotto quest’ultimo profilo, la Corte dei conti ha osservato che, secondo la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con il d.lgs. 12 gennaio 2004, n. 42, la valorizzazione si compendia nell’insieme delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, da attuarsi in forme compatibili con la tutela ed in modo da non pregiudicarne le esigenze, e ha sottolineato che la valorizzazione può essere intesa in due modi, sia quale potenziamento dell’espressione del valore culturale del bene, sia come criterio di gestione dell’istituto della cultura capace di autofinanziarsi secondo canoni di efficienza, di efficacia e di economicità

Ne deriva, a detta delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che è infondata la questione di difetto di giurisdizione in relazione al preteso sindacato della Corte dei conti su scelte discrezionali della pubblica amministrazione, avendo esso riguardato non le scelte proprie del potere discrezionale, ma l’uso del potere in modo non conforme al dovere di diligente cura degli interessi dell’ente, e quindi causativo di un pregiudizio diretto al patrimonio dell’ente medesimo sotto il profilo

 

Nel caso di esternalizzazione del servizio di asilo nido comunale, quale trattamento economico accessorio è dovuto alle educatrici che abbiano chiesto la ricollocazione all’interno dell’ente con mansioni amministrative, equivalenti a quelle precedentemente svolte, a seguito di un programma di formazione?

Così risponde l’ARAN

 

Con riferimento alla questione in oggetto appare anzitutto necessario rilevare che in base all’art.52 del D.Lgs.n.165/2001 ed all’art.3 del CCNL del 31.3.1999, il lavoratore può essere adibito anche a mansioni diverse da quelle di assunzione purché a queste equivalenti.

Secondo la giurisprudenza ormai consolidatasi in materia, l’assegnazione a nuove mansioni equivalenti non può comportare la diminuzione del livello di retribuzione che le mansioni in precedenza svolte garantivano al lavoratore; la suddetta garanzia si estende sia al trattamento fondamentale che a quello accessorio.

Non rientra, invece, nella garanzia retributiva la diversa ipotesi in cui il mutamento di mansioni sia stato posto in essere su richiesta del lavoratore e, quindi, per soddisfare uno specifico interesse di quest’ultimo.

In generale si può affermare che, nel caso di mutamento del profilo professionale del dipendente, il beneficio della conservazione del trattamento economico in godimento nell’ambito del profilo originariamente attribuito, anche con riferimento ai compensi ed alle indennità specifiche del trattamento accessorio (come l’indennità dell’art.37, comma 1, lett. c) del CCNL del 6.7.1995 e successive modificazioni e integrazioni), spetta solo nelle ipotesi di:

  1. a)       assegnazione unilaterale del dipendente ad altre mansioni, equivalenti nell’ambito della categoria, ad iniziativa cioè del solo datore di lavoro nell’esercizio del suo jus variandi, ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs.n.165/2001 e dell’art. 3 del CCNL del 31.3.1999;
  2. b)      assegnazione ad altre mansioni collegata alla sopravvenuta inidoneità per motivi di salute del lavoratore alle mansioni del profilo posseduto.

Alla luce delle suesposte considerazioni deve essere valutata la particolare situazione esposta.

CCNL Comparto Enti Locali. Articolo 70 quinquies comma 1 – indennità per specifiche responsabilità. Serve un formale incarico.

Così afferma l’ARAN

 

L’indennità, prevista, nella disciplina previgente, dall’art. 17, comma 2, lett. f) del CCNL dell’1.4.1999 ed attualmente, dall’art. 70-quinquies, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.5.2018, si collega direttamente all’esercizio di compiti ed attività comportanti l’assunzione di specifiche responsabilità.

La disciplina contrattuale in esame demanda alle autonome determinazioni della contrattazione integrativa di ciascun ente la definizione dei criteri per l’individuazione degli incarichi di responsabilità cui è riconnettibile l’erogazione del compenso e per la quantificazione del relativo ammontare (in un importo non superiore ad € 3000), nel rispetto dei contenuti, requisiti e condizioni espressamente previsti dalla disciplina contrattuale collettiva nazionale.

La suddetta indennità può essere riconosciuta a ciascun lavoratore solo in presenza del formale ed espresso conferimento allo stesso di uno degli incarichi, comportanti l’assunzione di una qualche e diretta responsabilità di iniziativa e di risultato, precedentemente a tal fine individuati dal contratto integrativo dell’ente che intende riconoscerla.

Sulla base della richiamata disciplina, pertanto, l’indennità di cui si tratta può essere riconosciuta solo a seguito del formale conferimento dell’incarico al lavoratore, cui la medesima indennità sia  connessa.

Pubblico Impiego – RSU – richiesta di permessi sindacali. Obbligo del Responsabile del Servizio di verificare la capienza di ciascuna organizzazione sindacale – insussistenza – il controllo spetta alle RSU.

Così risponde l’ARAN

 

Per quanto attiene alla circostanza che il componente RSU richieda i permessi RSU autonomamente si osserva che l’art. 11, comma 2, del CCNQ del 4/12/2017 afferma che “il contingente dei permessi di spettanza delle RSU è … da queste gestito autonomamente nel rispetto del tetto massimo attribuito”. Conseguentemente in mancanza di un regolamento della RSU che disciplini le modalità di gestione del monte ore, i permessi RSU possono essere richiesti anche singolarmente da ciascun componente. In tali casi potrebbe risultare utile inoltrare la comunicazione di autorizzazione del permesso sindacale richiesto dal singolo componente RSU anche agli altri componenti in modo che questi ultimi siano messi a conoscenza, di volta in volta, dell’utilizzazione del monte ore di permessi a loro disposizione. Per quanto riguarda la verifica sul corretto utilizzo del permesso, spetta alla RSU intesa come organismo collegiale l’eventuale controllo sull’attività svolta mediante l’utilizzo dei permessi destinati alla stessa

Pubblico Impiego – Distacchi Sindacali – Comparto Enti Locali. Il responsabile del personale può negare distacchi ed aspettative sindacali per esigenze interne alla struttura?

Così risponde l’ARAN:

 

Il distacco o l’aspettativa sindacale, qualora sussistono i presupposti soggettivi ed oggettivi previsti dalle norme di riferimento, devono essere concessi.

Nell’ipotesi di richiesta di permessi per l’espletamento del mandato, invece, si ricorda che l’art. 10, comma 7 del CCNQ del 4/12/2017 (richiamato anche nell’art. 13, comma 3 del medesimo CCNQ con riguardo ai permessi per le riunioni di organismi direttivi statutari) prevede che “nell’utilizzo dei permessi deve essere garantita la funzionalità dell’attività lavorativa della struttura o unità operativa di appartenenza del dipendente…della fruizione del permesso sindacale va previamente avvertito il dirigente responsabile della struttura secondo le modalità concordate in sede decentrata”. Ne consegue che il datore di lavoro potrà rifiutare la concessione del permesso o per mancanza di ore disponibili o per esigenze di servizio che non consentano di garantire la funzionalità dell’attività lavorativa – in quest’ultimo caso nelle forme e modalità definite in contrattazione integrativa.

 

E’ compatibile l’attività di pubblico dipendente con la titolarità di un’impresa agricola?

L’attività di imprenditore agricolo è incompatibile con il pubblico impiego.

Anche la conduzione di un’impresa agricola di modeste dimensioni è incompatibile con la qualifica di impiegato pubblico.

Lo prevede la Corte di Cassazione nell’ordinanza n.27420 dell’1.12.2020.

Un dipendente di ente locale che andava svolgendo anche l’attività di piccolo imprenditore agricolo, in base al comma 58 dell’articolo 1 della legge 662/1996 chiedeva ed otteneva che gli venisse accordato un orario a tempo parziale.

La norma di legge appena citata consente al dipendente pubblico che richieda ed ottenga di lavorare con un orario a tempo parziale non superiore al 50% di svolgere anche altre attività normalmente interdette ai dipendenti pubblici, previa autorizzazione del datore di lavoro ed a patto che dette attività non interferiscano con la funzione pubblica svolta.

Quindi, attività vietate, anche se non interferenti con le competenze del dipendente pubblico, possono essere autorizzate a chi lavora a tempo parziale.

Il dipendente in questione, ritenendo però, ad un certo punto, come che l’attività agricola non fosse vera e propria attività di impresa e quindi mai vietata, chiede di tornare a lavorare a tempo pieno. Ne segue il rifiuto della pubblica amministrazione e quindi l’avvio di un contenzioso giudiziale con fasi alterne, definito con la sentenza che viene annotata.

La Corte di Cassazione alla fine richiamando l’articolo 60 del Testo Unico Pubblico Impiego DLGS 165/2001 laddove stabilisce che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente“.

Su tale base, ritiene la Corte di Cassazione di dover superare quella parte della giurisprudenza, specie amministrativa, secondo cui l’attività agricola non rientrerebbe fra le attività automaticamente incompatibili.

L’interpretazione che afferma la compatibilità si basa sulla considerazione in base alla quale detta attività non è stata specificamente individuata dall’art. 60 del D.P.R. n. 3 del 1957 tra quelle precluse per l’impiegato pubblico. Si è ritenuto sino ad oggi che deponga nel senso della esclusione dell’incompatibilità , anche il raffronto, sul piano sistematico, con la disciplina civilistica, atteso che nel codice civile all’attività agricola è dedicato uno specifico settore (titolo II, capo II) del medesimo libro (V – del lavoro), il quale contiene anche la disciplina attinente al commercio e all’industria (titolo II, capo III), alle professioni intellettuali (titolo III, capo II), al lavoro subordinato (titolo II, capo I), alle cariche societarie (titolo V). Quindi a detta di tale orientamento, che, come vediamo è stato superato dalla Cassazione, la mancata inclusione dell’attività agricola tra quelle vietate dal citato art. 60, sarebbe data dalla specificità ed atipicità dell’impresa agricola come elemento decisivo per ritenere la stessa compatibile con l’impiego pubblico a tempo pieno.

Ritiene la Suprema Corte come tale impostazione, però, non tenga conto dell’evoluzione subita dall’impresa agricola sul piano sociale, ma anche su quello normativo. Negli anni ’50, nei quali fu emanato il DPR n.3 Testo Unico degli Impiegati civili dello Stato, quasi ogni famiglia, a vario titolo, era implicata nell’agricoltura, sicché se tale attività fosse stata inserita, per via interpretativa, tra quelle incompatibili ne sarebbe derivata l’esclusione dall’impiego statale della maggior parte dei cittadini. Successivamente alla mutata situazione sociale, ha fatto seguito anche un evoluzione normativa.

Su tale base, rileva la Cassazione è intervenuta la legge 9 maggio 1975 n.153 (Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità Europee per la riforma dell’agricoltura) secondo l’articolo 12 di questa disposizione di legge “”la qualifica di imprenditore agricolo principale va riconosciuta a chi dedichi all’attività agricola almeno 2/3 del proprio tempo di lavoro complessivo e ricavi dall’attività medesima almeno i 2/3 del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale“.

Dunque nonostante lo status specifico dell’impresa agricola in quanto non assoggettata al fallimento e non obbligata alla tenuta delle scritture contabili (articolo 2136 codice civile), essa non appare più come una ricorrente propaggine della vita familiare e comunque deve rispettare i canoni fondamentali dell’impresa che possono collidere con l’assunzione di un pubblico impiego, qualora non autorizzato con la formula del lavoro a tempo parziale.

Conferimento di incarichi a lavoratori in quiescenza. Interviene La Corte di Giustizia della Comunità Europea.

Con una recente sentenza la Corte di Giustizia della Comunità Europea Sezione VIII del 2.4.2020 ha ritenuto che la normativa nazionale che vieta nei confronti delle persone in quiescenza il conferimento di incarichi e consulenza costituisce una forma di discriminazione indiretta basata sull’età e quindi vietata dalla direttiva n.2000/78.

Si tratta in questione dell’articolo 5, comma 9 del DL 95/2012 che ha introdotto il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studi e consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza. Detti incarichi possono essere affidati esclusivamente a titolo gratuito. Sono state emesse in proposto n.2 circolari interpretative da parte del Ministero della Funzione Pubblica per chiarire l’applicazione della norma. Con il termine generale di “lavoratori” usato dalla legge non si intendono i soli pensionati della pubblica amministrazione, ma anche quelli delle aziende private e stante il termine che non individua solo gli ex lavoratori dipendenti, potrebbero pure rientrarvi i pensionati delle aziende private.